Quando Carlo VIII, uscito di minorità, assunse direttamente il governo della Francia, rivolse ogni attenzione alla conquista del regno di Napoli, concentrando tutte le forze francesi verso il lontano e non facile obbiettivo: faceva poggiare le ragioni dell’impresa sul diritti alla corona napoletana, che l’estinzione della Casa d’Angiò aveva lasciato in eredità alla monarchia di Francia. Tale conquista nel contempo veniva presentata come la base per più ampie azioni, dirette all’espansione politica ed economica di quel Paese nel Mediterraneo orientale, vellicando lo spirito guerriero dei Francesi a rinnovare le gesta dei Crociati, compiute nel medioevo in Terra Santa dai loro re.
Dopo aver tacitato il re d’Inghilterra con forte somma di danaro e conclusi accordi con Massimiliano d’Asburgo e con Ferdinando il Cattolico, comprandone le neutralità con concessioni territoriali, Carlo VIII mosse verso l’Italia.
A tale passo era spinto anche da esortazioni di vario genere, che gli giungevano dall’Italia stessa da parte di fuoriusciti nobili meridionali, avversi al dominio assolutistico di Ferdinando d’Aragona, da parte di Ludovico il Moro, desideroso di divenire incontrastato padrone del ducato di Milano, da parte degli avversari del papa Alessandro VI, fra i quali erano il Savonarola, che nelle sue prediche invocava il re di Francia come il restauratore della cristianità, e da parte del cardinale Giuliano della Rovere, che nell’incitare lo stesso re non risparmiava il suo odio contro i Borgia. Era il settembre del 1494, allorché Carlo VIII raggiunse l’Italia con un esercito forte di trentamila uomini, straordinario per quei tempi, con molti agguerriti mercenari svizzeri, e dotato di una potente artiglieria, che per la prima volta come arma da fuoco, veniva usata su larga scala, suscitando interesse e stupore in tutta Europa.
Sul trono di Napoli si trovava Alfonso Il D’Aragona, in seguito alla morte di suo padre Ferdinando 1, avvenuta nel gennaio dell’anno 1494.
Il detto re comprese il pericolo che lo minacciava e non perdette tempo nel tentativo di sventarlo, ricorrendo alle vie diplomatiche più accorte, ma che purtroppo risultarono vane. Nello stesso tempo provvide alla difesa, affidando il compito del l’organizzazione militare a Virginio Orsini, a Girolamo Trivulzio ed al Petignano, i quali fortificarono i punti strategici di maggiore importanza con concentramenti di truppe. Poiché si riteneva che l’esercito francese sarebbe penetrato nel napoletano attraverso la Marsica, già presidiata da reparti dislocati in Celano e comandati dal Capitani Cesare d’Aragona, Bartolomeo d’Alviano Matteo e Andrea Acquaviva, il re Alfonso venne con varie migliaia di soldati, per contrastare il passo a Carlo VIII nei pressi di Tagliacozzo. Ma il re francese, il 28 dicembre del 1494, lasciò Roma per la via Latina fino a Marino, e girando attorno al lago di Albano, raggiunse Velletri., risali a Valmontone ed a Veroli, seguendo una linea spezzata a causa delle condizioni dei terreni paludosi e delle strade di quell’epoca. Pervenne cosi nei pressi di Ceprano al confine del regno, segnato dal fiume Liri.
Sembrava che dovesse esservi resistenza, ma, avendo i Francesi conquistato Monte S. Giovanni, dopo quattro ore di cannoneggiamento, che massacrò i 700 difensori, la linea del Liri fu abbandonata, sì che le città ed i castelli venivano arrendendosi ad uno ad uno. Il re Alfonso con il grosso dell’esercito si era allontanato dalla Marsica con l’intento di affrontare Carlo VIII, ma il 21 gennaio 1495 abdicò in favore del figlio Ferdinando, detto Ferdinando tentò di chiudersi in Capua però la città si oppose decisamente per non correre alcun pericolo, ed appena egli si allontanò per cercare rinforzi, si arrese a Carlo VIII; infine il re di Napoli si rifugiò nel castello di Ischia. Intanto la Marsica, partito il re Alfonso, fu subito raggiunta da Fabrizio Colonna, il quale facilmente disperse le poche forze rimastevi, abbattendo dovunque lo stemma degli Orsini; egli si recò all’Aquila, già ubbidiente a Carlo VIII, si uni ai Francesi e con rapidi movimenti percorse l’intero Abruzzo; Indi, insieme al cugino Prospero, batte altri territori del regno, assoggettandoli tutti al re francese, che faceva il suo ingresso a Napoli il 22 febbraio 1-495, concludendo la sua passeggiata militare, fatta con gli speroni di legno, come disse il papa Alessandro VI.
I feudi marsicani, appartenenti agli Orsini, acclamarono i Colonna, e Virginio, ritiratosi nel suo possesso di Nola, cercò di resistere, ma cadde prigioniero. Cosi, senza battaglia, per sfacelo interno, crollò un regno di due milioni di sudditi, mentre i baroni non mancarono di rendere omaggio a Carlo VIII, il quale, già assiso sul trono di Napoli, si mostrò assai generoso nel compensare coloro che l’avevano sostenuto: pertanto a Prospero furono concesse le contee di Fondi e di Traletto, ed a Fabrizio tornarono le contee di Albe e Tagliacozzo. Il successo francese però fu di durata effimera, perché alle spalle di Carlo VIII le potenze europee, insospettite e gelose, formarono subito una coalizione, nella quale entrarono a far parte Ferdiando il Cattolico, Massimiliano d’Austria, Venezia e persino Milano ed il Papa. Fu una grave sorpresa per il re di Francia, che si vide costretto a riguadagnare rapidamente
la via delle Alpi. A Fornovo sul Taro il 6 luglio 1495 il suo esercito si scontrò con quello della Lega, riuscendo tuttavia ad aprirsi il passo verso la Francia; ma la sua conquista dell’Italia meridionale era completamente distrutta.
Le forze spagnole infatti, al comando del famoso condottiero Consalvo di Cordova, costrinsero alla resa i presidi lasciati a difesa del regno, ed insediarono di nuovo sul trono di Napoli il re Ferrandino, il quale ricevette ben presto l’omaggio dei baroni, che poco prima si erano prostrati a Carlo VIII.
Anche i Colonna non tardarono a sottomettersi, Prospero dopo qualche indugio, e Fabrizio per le sollecitazioni dello stesso re, il quale desiderava che entrasse a far parte del suo seguito. Ferrandino del resto si mostrò benevolo con tutti e, adottando una politica del tutto diversa da quella del nonno, riconobbe al baroni ogni diritto al loro possessi. Fabrizio mantenne tutti i suoi feudi non solo, ma ottenne dal re altre concessioni importanti, fra cui la carica di gran contestabile. Non poco prestigio egli dove godere presso Ferrandino, il quale lo ebbe sempre in particolare grazia, tanto da facilitare il matrimonio tra la figlia Vittoria e Francesco Ferrante d’Avalos, figlio unico del valoroso Alfonso, marchese di Pescara, matrimonio che avvenne nel 1509. Ferrante Francesco fu condottiero famoso e valente guerriero, ma non fu buono italiano; comandante dell’esercito dell’imperatore Carlo V, a lui fu dovuta in gran parte la vittoria nella battaglia di Pavia del 1525, alcuni mesi dopo della quale mori all’età di soli 36 anni.
Vittoria Colonna, letterata e poetessa, che lo amò di tenero e profondo amore, seguendone ansiosamente le sorti guerresche, come appare dalle sue rime, ne ricevette un colpo terribile: poi visse sempre del ricordo di suo marito, trovando qualche conforto nell’esaltarlo con i suoi versi. Si era chiusa nel monastero di San Silvestro in Roma, compresa nel suo grande dolore dal divino Michelangelo: tra i due si accese una viva corrispondenza d’amore ed uno scambio poetico intonato ai comuni sentimenti, si che il grande artista poté scrivere: ” essere egli nato rozzo modello di sé, e stato poi da lei riformato e rifatto ” ; e dopo la morte della gentildonna, avvenuta nel 1547, compose alcune delle sue più potenti liriche. Anche l’Arlosto ne celebrò l’esempio d’amor coniugale nell’Orlando Furioso. Questi brevi cenni rievocativi sorgono spontanei e non sembra fuori luogo, perché hanno diretto riferimento con la celebre figlia di Fabrizio Colonna, feudatario di Avezzano, verso la cui famiglia il popolo avezzanese mostrò sempre incondizionato e fedele attaccamento, fino al punto da subire rappresaglie orrende da parte dei nemici dei Colonna.
La contea di Albe ormai poteva ritenersi definitivamente di Fabrizio Colonna, anche se si verificarono, in momenti successivi, circostanze e fatti straordinari ed imprevisti, che la fecero tornare agli Orsini più di una volta, ma per breve tempo. Di tali fatti, quello che più interessa è il seguente: Virginio Orsini, quale prigioniero di Carlo VIII, veniva tradotto in Francia, quando, il giorno della battaglia di Fornovo, ebbe modo di fuggire e, giunto a Roma, fu messo al corrente delle concessioni del re Ferrandino in favore dei Colonna, suoi irriducibili nemici. Non potè darsene pace e la sua indignazione arrivò al punto da fargli giurare che si sarebbe aspramente vendicato per tanta ingratitudine; non volle piegarsi alle intercessioni del papa, dello Sforza, di Venezia, e nemmeno alle offerte di compensi considerevoli dello stesso re di Napoli, ritenendosi fortemente offeso ed umiliato dinanzi ai Colonna. Entrato al servizio di Carlo VIII, che gli fu assai generoso di danaro e di promesse, Virginio riorganizzò le file dei suoi fedeli e riaccese la guerra, marciando verso la Puglia, per unirsi alle truppe francesi, ivi raccolte.
Non trascurò di riconquistare i suoi feudi nel territorio della Marsica, dove invio dall’Aquila fanti e cavalieri in buon numero, deciso ad annientarvi i Colonna. 1 vari paesi della contea d’Albe, per non andare incontro a pericoli e subire danni gravi, preferirono sottomettersi; ma la capitale della contea, Avezzano, si preparò alla difesa, nell’intento di resistere ad ogni costo al violento ritorno degli Orsini. Allora i soldati giunti dall’Aquila procedettero ad una tremenda devastazione delle campagne degli Avezzanesi, i cui frutti erano ancora pendenti nella maggior parte, essendosi all’inizio dell’estate. La città fu assediata e si ripetettero assalti alle mura, che furono difese dal popolo con coraggio inaudito. Ma tanto valore non bastò a contenere l’impeto feroce degli assalitori, quasi tutti mercenari stranieri, superiori per numero e fortemente addestrati alle armi. I difensori, con gran parte della popolazione, si ritirarono nella rocca, che offriva maggiore sicurezza, perché ben fortificata; i nemici infatti, superate le mura di cinta e penetrati nell’abitato, non osarono attaccarla, dilagarono per le vie e dentro le case, saccheggiando, bruciando ogni cosa e uccidendo quanti non si erano rifugiati nella rocca suddetta.
I danni subiti dagli Avezzanesi furono immani, sebbene la nefasta permanenza dei mercenari dell’Orsini si fosse presto risolta, perché, non essendo favorevoli ai Francesi le sorti della guerra nelle altre parti del Meridione, i territori interi delle conte di Albe e di Tagliacozzo vennero abbandonati in fretta dagli occupanti. Gli Avezzanesi, tornati nella piena libertà, non perdettero tempo
nel cancellare i segni lasciati dalla tremenda invasione subita, ricostruendo quanto poterono e riorganizzandosi in migliore difesa. Nel rovescio generale delle armi francesi, Virginio Orsini si vide costretto a riparare e rinchiudersi in Atella, che venne stretta da un assedio tanto vigoroso, da determinarne in
breve la capitolazione, e quindi l’Orsini si arrese.
Il re Ferdinando aveva promesso di lasciarlo libero, ma, indotto dal papa Alessandro VI Borgia a violare i patti della resa, lo fece prigioniero assieme al figlio Giovanni Paolo; Virginio fu rinchiuso nel Castello dell’Ovo a Napoli, dove cessò di vivere nel gennaio del 1497, avvelenato per mano del crudele duca Cesare Borgia. Alessandro VI poi, nell’ottobre dello stesso anno fece procedere da parte dei suoi armati all’occupazione di diversi castelli e terre degli Orsini, al fine di ingrandire la ricchezza ed il dominio della propria famiglia. Il triste epilogo della vita di Virginio Orsini, intensa per gesta politiche e militari geniali e coraggiose, anche se a volte prive di scrupoli e non del tutto onorevoli secondo il costume dell’epoca, dove suscitare qualche sentimento di umano compianto nella popolazione avezzanese, la quale però, non dimentica del pesante suo dominio, potè finalmente ritenere raggiunte le sue aspirazioni con la vittoria dei Colonna, la cui signoria aveva sempre desiderata ed accolta con grande favore.
Venuto a morte immaturamente Ferdinando 11, per sua stessa designazione sali al trono di Napoli lo zio Federico 11, principe saggio, colto e buono, il quale con due diplomi, datati 6 luglio 1947, investi Fabrizio Colonna delle contee di Albe e di Tagliacozzo e delle baronie di Carsoli e di Civitella Roveto, confermando in tal modo le concessioni del defunto re, suo nipote. All’incoronazione del nuovo re, che avvenne il 3 febbraio 1499, officiandovi il Cardinale Cesare Borgia per delega di Alessandro VI, assieme al conte di Celano assiste Fabrizio Colonna, che, in quella circostanza, ebbe ancora conferma dell’investitura dei feudi nella Marsica dal re Federico (5). Tutti i feudi delle contee di Albe e di Tagliacozzo e delle baronie di Carsoli e di
Civitella Roveto costituirono il ducato, che fu detto di Tagliacozzo o dei Marsi; Fabrizio ed i suoi successori pertanto assunsero il titolo di duchi di Tagliacozzo o dei Marsi.
Di tale titolo però non si fa alcuna menzione nei due diplomi del 6 luglio 1497 innanzi citati; ‘la qual cosa fa ritenere che Fabrizio l’abbia ripristinato, prendendo motivo dalla concessione che la regina Giovanna fece nell’anno 1432 a suo padre Odoardo Colonna ; oppure chissà per quale disposizione reale potè sorgere, non rinvenendosi alcun diploma regio, che ne faccia espressa dichiarazione. Il ducato suddetto venne a risultare un feudo di vasta estensione, che comprendeva i seguenti paesi e territori a nord-ovest della Marsica: Avezzano, Tagliacozzo, Albe, Magliano dei Marsi, Rosciolo, Paterno, Luco dei Marsi, Corcumello, Cese, Scurcola, Marano, Torano, Tusco, Spedino, Corvaro, Castelmenardo, S. Anatolia, Cappadocia, Petrella, Pagliara, Castellafiume, Verrecchie, Rocca Cerro, Tremonti, Carsoli, Celle, Oricola, Rocca di Botte, Pereto, Colli, Sante Marie, Scanzano, San Donato, Poggio Filippo, Castelvecchio, Civitella Roveto, Civita d’Antino, Canistro, Cappelle, Capistrello, Pescocanale, Meta, Reverate e Roccavivi.
Il re Federico inoltre assegnò a Fabrizio un appannaggio annuo di seimila ducati, che doveva essere ricavato in massima parte dalla riscossione delle tasse sul focatico e sul sale nei feudi del Colonna stesso, e la restante somma doveva essere pagata dalla tesoreria dell’Abruzzo Ulteriore: incombeva però a Fabrizio il carico del mantenimento ininterrotto di quaranta soldati armati al servizio del re. La corte delle contee di Albe e Tagliacozzo e delle baronie di Civitella Roveto e di Carsoli ebbe sede in Avezzano, che divenne perciò la capitale ed il centro del ducato, rimanendo intatta ed inalterata l’importanza politica e militare di Tagliacozzo, il cui nome era legato al ducato medesimo, feudo tra i più vasti del regno di Napoli. Fabrizio Colonna governò saggiamente le popolazioni del ducato, le quali in più circostanze espressero la loro soddisfazione e gratitudine verso un signore tanto liberale ed umano. Il grande suo nipote Marcantonio elesse Avezzano a sua residenza preferita, arricchendola di nuovi edifici e di varie opere pubbliche, e dopo aver ingrandito e rimodernato Il castello, già degli Orsini, ne fece la sua abitazione, come è stato detto in altro capitolo.
Intanto i fratelli Giovanni Giordano e Carlo Orsini, figli di Virginio, continuarono nella lotta contro i Colonna nel territorio dello Stato Pontificio, per vendicare la morte del proprio padre e per dare un assetto alle cose della famiglia, intendendo rinsaldarne il potere. Ma furono sconfitti e Carlo cadde prigioniero. Pare che l’avvenimento aprisse gli occhi agli irriducibili avversari, i quali si erano accorti finalmente del gioco del pontefice che, aizzando ora gli uni ora gli altri, teneva viva la guerra tra di essi e mirava a consumarli con le stesse loro armi, finché non fossero caduti completamente nelle sue mani. Nel medesimo giorno dello scontro di Monticelli, che avvenne nell’anno 1498, i Colonna e gli Orsini senza intermediari convennero in Tivoli, ove stipularono un accordo, col quale stabilirono, prima di ogni altra cosa, la liberazione di Carlo, poi la restituzione reciproca dei castelli e delle terre, che si erano presi durante quest’ultimo contrasto, e si affidarono al giudizio del re Federico circa l’attribuzione definitiva dei feudi nella Marsica. Il re di Napoli con atto in data 3 febbraio 1499 dichiarò che detti possedimenti dovevano ritenersi dei Colonna.
Ma non trascorse qualche anno che le due famiglie rivali romane si ritrovarono armate l’una contro l’altra: i Colonna dalla parte del re Federico, e gli Orsini al servizio dei Francesi, i quali si erano alleati con gli Spagnoli con un patto iniquo, quello cioè della spartizione del regno di Napoli, senza che vi fosse alcun serio motivo di recare si gran torto al buon re Federico, fra l’altro consanguineo del re di Spagna. Anche questa volta i paesi del ducato dei Marsi non furono risparmiati, anzi furono i primi, come era da attendersi, a subire i colpi del nuovo conflitto, perché Giovanni Giordano Orsini occupò subito le contee di Albe e di Tagliacozzo e vi rimase quale governatore, nominato dal colleghi d’arme, mentre il fratello Carlo riuscì a sottomettere l’intero Abruzzo al re di Francia con l’aiuto di altri feudatari.
La situazione per Federico diveniva sempre più insostenibile, ma non volendo egli cadere senza onore, si rafforzò in Capua, affidando il comando delle sue milizie, ivi concentrate, a Fabrizio Colonna, che aveva un validissimo sostegno nel valoroso suo cugino Prospero. I francesi dal 18 luglio 1501, non avendo incontrato resistenza da parte dei castelli colonnesi dei colli albani e di San Germano, erano davanti a Capua, che cinsero d’assedio; la città fu difesa con tanto valore che venne respinto un forte assalto degli assedianti, i quali subirono perdite non lievi. Ma i cittadini intendevano trattare, e durante le trattative il nemico, forse ad opera di qualche traditore, riuscì a penetrare nella città, che il giorno 24 luglio 1501 fu orrendamente messa a sacco con settemila morti. Il giorno seguente i francesi furono a Napoli, il re si ritirò ad Ischia e, rinunziando ad una lotta ormai inutile, fece arrendere i castelli; poi il 26 settembre, mentre resisteva ancora Taranto, ove trovavasi il figlio Ferrante di dodici anni, Federico si arrese alla Francia, che gli assegnava la contea del Maine, ove morì tre anni dopo, il 9 settembre 1504. Il figlio Ferrante con un inganno andò a finire nelle mani degli spagnoli, che lo condussero in Spagna e lo tennero chiuso in un convento fino alla morte, che avvenne nel 1559 .
In questi frangenti Fabrizio Colonna fu oggetto di particolari avventure: dopo essere venuto a conoscenza che i cittadini di Capua, con tutta segretezza, stavano trattando col nemico per consegnargli la città, onde evitare saccheggi ed altri gravi danni, si recò nel campo francese, per proporre la capitolazione per sé e per i suoi, ma la sua proposta non venne accolta e non gli fu offerta nessuna garanzia d’incolumità nel lasciare l’accampamento. Per sua fortuna si trovava ivi Giovanni Giordano Orsini, che lo protesse generosamente, accompagnandolo fuori fino al luogo sicuro.
Al suo ritorno in città non ebbe buona accoglienza; ritenne pertanto di mettersi in salvo, allontanandosi con i suoi, ma, inseguito dal francesi, che lo avevano riconosciuto, cadde in un fosso assieme al cavallo, e fu fatto prigioniero. Anche in questa triste circostanza non gli mancò il provvido e nobile intervento di Giovanni Giordano Orsini, che lo fece liberare, pagando il prezzo del riscatto, mentre lo reclamava Cesare Borgia, il quale nutriva per lui un implacabile odio; e forse, perché Fabrizio e Prospero Colonna non fossero raggiunti dalle persecuzioni di Alessandro VI e del suo non meno crudele figlio Cesare, il saggio re Federico, nell’arrendersi, permise al due cugini di andare al servizio di Consalvo, comandante dell’esercito spagnolo. E fu una mossa suggerita da previdente accortezza, tanto più che dopo qualche tempo i due alleati si scontrarono per la spartizione del regno di Napoli, che, in conclusione, andò a finire completamente nelle mani degli spagnoli, i quali ne divennero assoluti padroni, dando inizio ad una dominazione tra le peggiori sofferte dalle popolazioni d’Italia.
Nella contesa, Fabrizio e Prospero Colonna si comportarono da capitani di alte virtù, fornendo al soldati italiani estranieri esempio costante di coraggio e di valore. In questa fase delle ostilità tra gli ex-alleati si verificò il famoso episodio, noto sotto il nome di ” Disfida di Barletta “, che ebbe luogo presso la detta città tra Andria e Corato il 13 febbraio 1503. Tale disfida sorse dal vivo risentimento di alcuni soldati italiani, militanti con i Colonna sotto le bandiere spagnole, nel sentire un prigioniero francese, il La Motte, tacciare di codardia gli Italiani. In conseguenza della sfida tredici cavalieri italiani, con a capo Ettore Fieramosca da Capua, ed altrettanti francesi si scontrarono in campo chiuso: da ambo le parti si combatte valorosamente, ma la vittoria fu degli Italiani. Del fatto, che fu celebrato da storici e poeti, e che fu reso popolare soprattutto dal famoso romanzo di Massimo D’Azeglio, è doveroso far cenno in queste pagine, perché tra i tredici italiani v’era un cavaliere, ritenuto marso, di nome Giovanni Capoccio, forse nato in Tagliacozzo da antica famiglia originaria di Albe, già nota sin dai primi del Trecento; però altri paesi, fra cui Spinazzola con più fondati motivi, ne reclamano i natali, e qualche storico, come il Giovio, lo ha definito romano, forse perché aveva risieduto in Roma al servizio di Fabrizio Colonna, principe romano, ma anche duca di Tagliacozzo o dei Marsi.
La battaglia di Cerignola, durante la quale Fabrizio mostrò fulgido eroismo ed il duca di Nemours, comandante francese, vi perdette la vita il 28 aprile 1503, e quella del Garigliano del 28 e 29 dicembre dello stesso anno, determinarono la fine della contesa tra Francesi e Spagnoli con la vittoria di questi ultimi al comando del gran capitano Consalvo. La sorte del regno di Napoli era cosi segnata: le vicende della guerra, che decisero tale sorte, fanno rilevare che furono Fabrizio e Prospero Colonna a suggerire al Consalvo di fortificarsi sul terreno, che gli diede la vittoria di Cerignola; e Bartolomeo d’Alviano, appartenente alla famiglia degli Orsini, il quale aveva lasciato il servizio veneto, per combattere il Borgia ed i Francesi suoi sostenitori, fu l’esecutore ardito del piano vittorioso della battaglia del Garigliano. Non mancavano in Italia né tecnici valenti della guerra, né soldati audaci: solo la disgraziata situazione politica spingeva queste forze al servizio delle cause straniere, come prima le sciupava nel logorio di insane discordie.
Quando avvenne la battaglia di Cerignola Giovanni Giordano Orsini si trovava nella Marsica e, venuto a conoscenza della disfatta e della morte sul campo del duca di Nemours, raccolse il maggior numero possibile di milizie e si diresse verso Napoli nell’intento di aiutare i Francesi ad entrarvi prima degli Spagnoli. Ma durante la marcia venne informato che il Consalvo era già in Napoli; non gli rimase quindi che raggiungere ed unirsi all’esercito francese. Fabrizio, intanto, per riconquistare il suo ducato nella Marsica, inviò il nobile romano Paolo Marzano al comando di Acuni reparti armati. Le popolazioni del ducato si sottomisero spontaneamente, prima fra tutte Avezzano, che fu colta da grande entusiasmo al ritorno delle armi dei Colonna, ai quali aveva sempre dìmostrato grande fedeltà ed attaccamento. ” Il Marzano trovò chiuse le porte di Tagliacozzo: cinse d’assedio questa piccola città e durò poca fatica a conquistarla con la sua rocca: incontrò maggiore resistenza in Scurcola, che difesa era da Fabio Orsini, né le forze del Marzano sembravano
bastanti ad espugnarla ” .
Ma Fabrizio, che insieme a Caritelmi, conte di Popoli, ed a Ludovico Franco aveva già percorso l’intero Abruzzo, sottomettendolo completamente con la sola sua presenza, intervenne con numerose forze di fanteria e di cavalleria, si che Fabio Orsini, ritenuto inutile resistere ancora, fuggi verso il Cicolano, riparando nella rocca di Corvaro; Fabrizio non volle inseguirlo (16). Per un breve periodo di tempo si trattenne in Avezzano ed in Tagliacozzo, per riordinare le cose nel due contadi, poi percorrendo la via di Roccadimezzo si recò alla città dell’Aquila, di cui nominò governatore l’aquilano Ludovico Franco. Essendo venuto a morte nell’anno 1503 il papa Alessandro VI, Fabrizio dopo aver riferito sul proprio operato in Abruzzo al gran capitano Consalvo, ottenne da lui apposito congedo per recarsi a Roma e recuperare quanto gli aveva tolto Cesare Borgia durante la sua assenza.
Stava ora per concludersi con onore e gloria la tormentata ascesa di Fabrizio: riconoscente degli innumerevoli servizi da lui prestatigli, il re di Spagna, Ferdinando il Cattolico, nominò Fabrizio governatore dell’Abruzzo con il titolo di vicerè, ed alla morte di Consalvo lo elevò al gradi più alti della milizia e del regno spagnolo con le cariche di luogotenente generale e di gran contestabile, oltre a ricompensarlo con concessioni feudali ragguardevoli. Sembrava che a Fabrizio la sorte volesse riservare il privilegio di sanzionare la fine di un annoso periodo di lotte, i segni delle cui vicende, varie ed alterne, non si potevano considerare del tutto scomparsi: in verità i tempi apparivano maturi e le circostanze favorevoli per una pace definitiva e duratura fra i Colonna e gli Orsini, il cui massimo esponente era il generoso Giovanni Giordano, marito di Felice Della Rovere, sorella del noto Giuliano, che pontificò col nome di Giulio II.
Al celebre papa non fu difficile destreggiarsi nell’opera di riconciliazione delle due potenti casate, tanto più che Fabrizio e Giovanni Giordano non potevano ormai rimanere indifferenti l’uno di fronte all’altro, dopo le prove di cavalleresca generosità, che erano intercorse tra loro in momenti estremamente difficili, specie per Fabrizio che, come si ricorderà, per ben due volte fu tratto da gravi situazioni per il pronto intervento dell’ottimo Giovanni Giordano Orsini, il quale seppe superare in quel frangenti la cortesia e la bontà dei cavalierì antichi. Il giorno 5 aprile 1511 venne concordata solennemente la riconciliazione, di cui il pontefice Gulio II volle che fosse trasmesso ai posteri il ricordo, facendo coniare una medaglia, che era stata incisa dal plasticatore e medaglista Ambrogio Foppa, detto il Caradosso, e che recava l’iscrizione ” Pax romana “. In realtà poi la vera pace fra i Colonna e gli Orsini potè raggiungersi, solo quando Marcantonio Colonna sposò Felice Orsini, nipote ex filio di Giovanni Giordano.
Dalla moglie Agnese da Montefeltro, figlia di Federico duca di Urbino, Fabrizio ebbe cinque figli, cioè Vittoria, l’illustre poetessa e letterata, già ricordata in queste pagine, Camillo, Federico e Ferdinando, che morirono prima di lui, ed Ascanio, il quale alla morte del padre, che avvenne in Aversa nel marzo del 1520, gli successe, ereditando l’intero immenso patrimonio. Nel medesimo anno della successione, Ascanio fu investito della carica di gran contestabile, non certo per meriti suoi speciali, ma per la posizione preminente che era venuto ad occupare quale unico diretto erede di Fabrizio; qualità questa che gli diede, fra l’altro il possesso del ducato di Tagliacozzo o dei Marsi, che egli occupò senza incontrare resistenza alcuna da parte degli Orsini, i quali palesemente non accampavano più diritti o pretese, anche se, in cuor loro, non li ritenevano estinti.
Le popolazioni delle due contee accolsero con animo lieto il successore di Fabrizio, conoscendo l’umanità e la liberalità dei Colonna, sempre pronti a favorire la causa del popolo; perciò i paesi soggetti si mostrarono sempre affezionati e fedeli ai Colonna, in modo particolare Avezzano, che, nella lotta contro gli Orsini, li sostenne con tutti i mezzi senza badare alla propria vita ed al propri averi, come è stato narrato. Ma Ascanio era ben lungi dalla intelligenza, dal valore e dall’equilibrio straordinari di Fabrizio, tanto da perdere per la sua imprudenza la libertà, le sostanze e la stessa vita, trascinando sull’orlo della rovina completa la sua stessa famiglia; solo il coraggio e la saggezza del figlio Marcantonio riuscirono ad impedire la catastrofe.
Da quanto detto, facilmente si comprende come Ascanio non fosse nel pieno possesso delle virtù richieste dall’alta posizione occupata, e ne diede la prova, allorquando gli Orsini schieratisi con i Francesi nella guerra tra Francesco 1 e Carlo V, intendevano ad ogni costo riacquistare i loro possedimenti nella Marsica. In tale circostanza Ascanio, non avendo forze sufficienti per respingere la paventata azione da parte degli Orsini e dei Francesi nel ducato dei Marsi, si trasferi in Aquila per tutta la durata del pericolo, e quivi esortava gli Aquilani a non temere gli Orsini, contro i quali egli stava provvedendo per opportuna difesa ed offensiva. Intanto Andrea Carafa, luogotenente del vicerè di Napoli, fece pervenire al capitano dell’Aquila l’ordine di ubbidire ad Ascanio, gran contestabile, perché incaricato di speciali servizi dall’imperatore Carlo V.
In tutto il ducato dei Marsi non tardarono ad abbattersi danni gravi, dopo il sacco di Roma, e precisamente appena che tornò nel suo pieno potere il papa Clemente VII, il quale lanciò la scomunica contro i Colonna, prima fra essi Ascanio, lasciando che gli Orsini tentassero di cacciarli da tutti i loro possedimenti, per essere i Colonna al servizio di Carlo V.
Fu così che gli Orsini vennero arditamente nel ducato dei Marsi e posero gli accampamenti presso Magliano. Quivi si scontrarono con le schiere di Scipione Colonna, che li aveva già battuti presso Subiaco e li aveva inseguiti, e, durante questa nuova battaglia, lo stesso Scipione cadde ucciso da Amico Orsini, il quale poi se ne fece gran vanto. Ma la vendetta dei Colonna, che questa volta fu crudele, non tardò molto a ghermire l’Orsini che, fatto prigioniero nella battaglia di Gavinana del 3 agosto 1530, fu richiesto per 600 ducati da Marzio Colonna, signore di Petrella Salto, cugino di Scipione, il quale lo uccise di sua mano, appena lo ebbe.
In questa vicenda funesta nessun luogo fu risparmiato per danni ed uccisioni, specialmente Magliano, si che l’intero territorio del ducato subbi una devastazione desolata ed immane. La temporanea occupazione degli Orsini consistette quindi in una barbarica scorreria, con conseguenze luttuose per le popolazioni, a dispregio dei Colonna, il cui massimo esponente ed interessato, Ascanio, non risulta avere fatto qualcosa a difesa o a protezione del suo ducato. Ma le azioni malaccorte di Ascanio Colonna non si limitarono a questo. Nell’anno 1541 non volle accettare l’imposizione del sale nel suoi possedimenti dello Stato pontificio, e Paolo III gli mandò contro un forte esercito al comando di suo nipote Pier Luigi Farnese, il quale prese d’assalto Rocca di Papa e Pussiano ed abbatte le altre fortezze del Colonna. Allora Ascanio, anche perché ebbe la peggio in più scontri, fu costretto a rifugiarsi nelle sue terre entro i confini del regno di Napoli. Poi, nell’anno 1553, si trovò in attrito col papa Giullo III e col vicerè di Napoli, non si sa per quale motivo. Doveva però trattarsi certamente di fatto assai grave, se si procedette alla confisca di tutti i suoi beni ed al suo arresto in Tagliacozzo per ordine del vicerè Pacieco, che lo fece rinchiudere nel castel Nuovo di Napoli, ove morì nell’anno 1555.
Alcuni giorni prima del suo arresto accadde un fatto che il Muratori non esita a definire scandaloso, ma che invece oggi può trovare agevole giustificazione al lume di considerazioni improntate ad una più umana obbiettività, data l’evidenza degli avvenimenti e delle circostanze. Marcantonio, figlio di Ascanio, giovane dotato di buone virtù civili e militari, disapprovando da gran tempo la condotta del padre, in tre giorni si impossessò di Paliano e di tutti gli altri feudi e castelli della sua famiglia in territorio pontificio. Con leggerezza si accusò Marcantonio di ribellione al padre, perché gli negava un assegno conveniente alla sua nascita, mentre l’azione, data la nobiltà d’animo del giovane principe, può spiegarsi come un geniale e coraggioso tentativo di salvataggio della sua famiglia dall’orlo della rovina, in cui l’aveva condotta il padre, fingendo di insorgere apertamente contro di lui e togliendogli i possedimenti in pochi giorni, nella segreta speranza di salvarli dalla confisca. Purtroppo il tiro non riusci.
Anche sotto Paolo IV, l’ottuagenario Giovanni Pietro Carafa, la famiglia Colonna, ritenuta da lui non amica della Chiesa e partigiana di Carlo V e degli Spagnoli, non ebbe giorni tranquilli, perché fu soggetta ad una vera e propria persecuzione. Il papa, dopo di aver tentato invano di far imprigionare Marcantonio, lo sottopose a processo ed il I’ settembre 1555 lo condannò in contumacia alla privazione di tutti i feudi e degli onori, di cui investi suo nipote Giovanni Carafa, che nominò fra l’altro capitano generale della Chiesa (21); nel contempo, con un’apposita bolla, dichiarò scomunicati e dannati di lesa maestà i Colonna, dei quali alcuni chiuse in carcere, prendendo i loro
beni ed assegnandoli al suoi nipoti; ordinò che fossero chiuse nel loro palazzo, sotto la custodia delle guardie papali, la madre di Marcantonio, sua moglie Felice Orsini con la figlioletta, e le sue due sorelle, a cui era stato ingiunto dal papa di non maritarsi senza il suo consenso. Ma la madre di Marcantonio, Giovanna d’Aragona nipote del re Ferdinando, nota per bellezza e forza d’animo, nelle prime ore del capodanno del 1556, indossati abiti maschili, lei, le figlie e la nuora, riuscirono ad eludere la sorveglianza delle guardie, fuggendo dal palazzo e dirigendosi verso la Marsica, e dopo un viaggio assai rischioso attraverso la via Valeria, giunsero a Tagliacozzo, dove furono accolte con festevole allegria dalla popolazione.
Giovanni Pagani
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