Comune di AVEZZANO

Marsica News

Anxantium

Tra i popoli dei Marsi, descritti da Plinio, come si è visto, vi sono gli Anxantini, così chiamati dalla denominazione della loro città, Anxantium, Anxantum o Anxantia, forse derivata dalla radice anxa del dialetto osco dei popoli primitivi, quasi a significare luogo montano, provvisto di acqua (1). Tale città era municipio (2), amministrato da quattro magistrati, che si distinguevano nelle seguenti particolari attribuzioni: la cura dell’erario pubblico era affidato al ” quaestor rei pubblica “., quella degli alimenti al ” quaestor pecuniae alimentariae ” ed al ” curator pecumae alimentariac “, quella dell’annona al ” curator annonac plebis ” oppure ” curator annonac “. Esisteva pure un ” curator apud Jovern Statorem “, il cui tempio forse fu il principale degli Anxantini, e la magistratura relativa doveva rivestire carattere di particolare importanza, come quella che presiede a tutta una organizzazione religiosa con classe sacerdotale ed ogni altra annessa incombenza od ufficio.

A dette magistrature devesi aggiungere un’altra, quella cioè del ” curator aquaeductus “, che risulta da una iscrizione epigrafica di un cippo fabiense (3) assai noto, rinvenuto dal Cari. Giueppe Lolli, (4) il 2 dicembre 1803, nel territorio di Avezzano, precisamente nella contrada Cerreto, vicino alla chiesetta della Madonna di Loreto, sulla via di San Nicola, che al tempo del lago conduceva anche a Luco dei Marsi (ad viam consularem M. P. ab Avezzano Lucum versus prope S. Maria de Loreto); tale iscrizione dice: ” M. MARCIO IUSTO… vet. Div. Had… curatorì aquaeductus “. Tutto questo prova che non si trattava di un semplice vico o di un antico castello, ma di una città vera e propria, fornita di tutte le prerogative di capitale, essendo gli Anxantini una delle tribù più nutrite per quantità di componenti ed essenzialmente integrativa di un popolo ben numeroso, quello dei Marsi.

Circa l’ubicazione di detta città, gli storici per la maggior parte dimostrano incertezza e discordano non poco fra di loro, portando argomenti per lo più arbitrari o non dotati compiutamente di quella ragione sufficiente, necessaria perché si possa ritenere fondato il loro assunto. Qualcuno di essi cerca di dibattersi più o meno egregiamente, adducendo elementi, che oggi possono ritenersi superati e che risultano, fra l’altro, essere stati attinti da autore, il quale, dopo averli accennati, se ne sbarazza, giungendo a diversa conclusione; altri invece fanno affermazioni ” gratuite “, non avendo ” a sostegno alcuna traccia o memoria “, come bene afferma il nostro Brogi.
Sembra pertanto opportuno passare in fugace rassegna le varie opinioni in proposito, onde farsi una più chiara idea della questione, che a prima vista appare alquanto dibattuta.

Lo Sclocchi ed il Colantoni ritengono che sia esistita nel territorio di Pescina, non molto lontano dal paese di Collarmele, nella località chiamata S. Anso; il De Santis sostiene nella sua ” Dissertazione su Antino ” (5) che Anxantium corrisponde all’attuale Civitella Roveto, castello marsicano, che Livio narra essere stato espugnato dal dittatore P. Cornelio, nell’anno 346 dalla fondazione di Roma (data molto lontana dalla venuta di Plinio il Vecchio nella Marsica, dove constatò la presenza degli Anxantini); il Febonio (6) la pone presso Poggio Filippo; il Del Re (7) ed il Corsignani (8) la ritengono situata presso Poggio Cinolfo; il Cluverio (9) la confonde con Civita d’Antino; il Di Pietro (10) la sostiene presso Ortona dei Marsi il Gori (11) crede sicuramente che i popoli Anxantini o Asanctini di Plinio siano esistiti presso Roccacerri e Tremonti nel versante carseolano ed aggiunge altresi che le valli dell’Anisancto, nominate da Virgilio, siano proprio quelle del territorio di Carsoli (12).

Fino a questo punto non si sa dunque con certezza, dove fosse situata la città di Anxantium, malgrado le varie argomentazioni degli storici surricordati, alcuni dei quali non hanno fatto che partire da riferimenti già esposti dal Febonio nelle pagine 116, 117 e 120 della Historia Marsorum, senza apportare alcuna prova di rilievo o qualche notizia nuova. Nondimeno considerazioni di molteplice natura, confronti e i riscontri eseguiti con attenta serietà, hanno sortito effetto positivo, i cui motivi inducono a ritenere che Anxantium doveva esistere vicina ad Albe. Tale fatto può essere comprovato, prima di ogni altra cosa, dall’iscrizione di queste due città alla medesima tribù Fabia (13), mentre gli altri municipi dei Marsi erano annoverati nella tribù Sergia. Un altro elemento, che non va trascurato è fornito dal Garrucci (14), il quale narra che, in epoca antica, furono divisi tra i contadini albensi i campi tolti agli Anxantini, che si erano ribellati a Roma.

Orbene non si può mettere in dubbio che tale assegnazione non si sarebbe potuta effettuare, se il territorio di Anxantium si fosse trovato lontano dalla città di Albe e quindi non avesse offerto quale premio gli Albensi, rimasti fedeli, un vantaggio sicuro e comodo per la sua vicinanza. Procedendo nella disamina si rileva ancora che esistono due iscrizioni lapidarle (15) le quali si riferiscono certamente agli Anxantini, sebbene non vi siano nominati, perché in esse viene fatta menzione di un ” curatore presso Giove Statore ” , che era uno dei magistrati, che agivano nella città di Anxantium, come già si è visto; infatti la suddetta menzione non è stata rinvenuta neppure una volta in tutte le iscrizioni albensi. Le due lapidi dianzi ricordate sono da ricollegare direttamente ad un’altra (16), nella quale si nominano con chiarezza gli Anxantini: si tratta di un monumento eretto ad un tale Amaredio, dell’epoca imperiale e precisamente dell’anno 168 d. C., al quale la sua città aveva affidato le più alte magistrature. Il Fernique dice: ” ibi formulam SENATUS POPULUSQUE ANXANTINUS legimus ” (17).

Il Brogi (18) riferisce che di essa furono rinvenuti frantumi, nel secolo XVII, presso Antrosano, attualmente frazione di Avezzano che sorge a brevissima distanza da Albe, per la qual cosa si fu portati a credere che Anxantium corrispondesse ad Antrosano. E cosi viene ancor più avvicinata alla zona avezzanese l’antica Anxantium, pur essendo immaginata verso nord. Ma Federico Terra (19) dopo un celere excursus sulle diverse ipotesi, quasi le volesse eliminare senza perdervi altro tempo prezioso, si sofferma a dichiarare: ” … od infine nel luogo dove poi surse Avezzano, come dalle migliori assicurazioni risultanti dalle diverse lapidi ivi rinvenute”. A distanza di molti anni, tale deduzione appare più che mai fondata e convincente per il chiaro e preciso riferimento a testimonianze di derivazione non dubbia, quelle cioè che possono trarsi dalle iscrizioni delle epigrafi, che furono rinvenute in Avezzano e nelle sue vicinanze. Dette epigrafi sono state oggetto di particolare studio da parte dell’ingegnere Loreto Orlandi, di antica famiglia avezzanese, il quale si dedicò in modo speciale alla ricerca di elementi chiarificatori sui Marsi Anxantini, pervenendo a deduzioni di estrema importanza, che, inserite nel quadro delle molteplici opinioni in merito, influiscono non poco sul peso della definizione conclusiva della vexata quaestio.

Egli afferma infatti: “Tali deduzioni ci portano alla identifica dell’antica Anxa nell’ambito della odierna città di Avezzano, dove già dal 200 a. Cristo esisteva un abitato di una certa importanza, documentato fra l’altro dal cippo votivo ad Ercole dei ” milites africani “, dove sorse la ormai diruta Chiesuola di S. Nicola e dall’esistenza del tempio consacrato ad Augusto nella piazza del Pantano, cioè PanTheon, tempio ivi eretto a tutti gli Dei. E, poiché a tale Tempio furono addetti i Seviri Augustali, ed ivi furono rinvenuti l’omaggio a Traiano e la colossale statua eretta all’Imperatore per il restauro dell’Emissario Claudiano, così esso non può non essere il più gran tempio degli Anxantini, ossia il Tempio a Giove Statore, per ben tre volte documentato nei titoli Anxantini, neppure una volta tra quelli Albensi; né si può presumere che esso avesse altra ubicazione diversa dalla predetta, non esistendo altrove indizio di sorta ” (20).

Orbene, Loreto Orlandi, col suo lavoro di ricerca e di studio, ha accertato l’appartenenza agli Anxantini della città di Penna, ma ha dovuto concludere che Anxantium, capitale della menzionata popolazione marsa, sorgeva nell’ambito dell’odierna città di Avezzano. Sempre più a questa conclusione si intende pervenire, attraverso la disamina di importanti elementi, che costituiscono l’oggetto delle seguenti esposizioni in merito. Il Blasetti giustamente ricorda ” … il nostro Loreto Orlandi, che con il suo pregevole e definitivo lavoro su I MARSI ANXANTINI affonda il microscopio della ricerca appassionata e tenace nel groviglio intrigato delle razze marse, riconsacra alla storia quel ceppo anxantino… “, ed esprime in questo giudizio la sua propensione a riconoscere l’esistenza degli Anxantini nel territorio di Avezzano: anzi scrive che tra di loro sorse in seguito “una potente ed illustre città, squisitamente romana, dal destino oscuro e malefico, che la sommergerà poi anche nel ricordo degli uomini, senza lasciare più alcuna traccia” (21).

Affermava il Fernique (22) che, sebbene qualche storico marsicano, alludendo al Terra, ritenga che la città degli Anxantini sia sorta nella zona di Avezzano, non erano state rinvenute vestigia di antichità nella zona medesima; tuttavia è probabile che ivi furono edificate delle ville dopo che venne completato da Claudio l’emissario del Fucino. Riconosciuto per vero quanto sopra, non si viene a precludere il passo ad alcuni rilievi che presentano di per sé un valore probatorio, se non determinante, per lo meno indiscutibilmente indicativo per la loro evidenza. E’ opportuno considerare che non sempre di antiche città e di antichi monumenti si sono potuti rinvenire segni più o meno rivelatori della loro trascorsa esistenza. Si può citare ad esempio il caso della chiesa di Santa Maria in Vico, (il relativo villaggio era scomparso da tempo) che era situata precisamente nel luogo, dove da qualche anno è sito il campo vivaio della Forestale, e di antico non vi si rinviene nemmeno una piccola pietra, mentre fino a quindici anni fá circa ne rimanevano tracce evidentissime, fra cui il magnifico portale quattrocentesco, che è stato fissato nel lato nord-est della chiesa di San Giovanni in Avezzano, proprio per sottrarlo alle intemperie e ad ogni altro fattore distruttivo.

Si lascia quindi immaginare ciò che sarà potuto avvenire dei resti di una città situata in posizione topografica pianeggiante, aperta e soggetta, oltre che ad ogni passaggio e ad ogni sorta di danneggiamento barbarico, all’azione deleteria, potente e continua degli elementi naturali, dei movimenti sismici, frequenti nella zona, delle asportazioni di materiale usato per nuove costruzioni, e soprattutto per le sovrapposizioni di nuovi edifici, che vi fecero sorgere un nuovo centro abitato, cioè Avezzano, che ha continuato, a mio avviso, la vita della precedente importante città. Del resto nessun rudere o altro indizio è emerso mai in ciascuna delle località, indicate variamente dagli storici, quale presumibile sito della città di Anxantium, si da far escludere a priori la sua esistenza nel territorio della vecchia Avezzano.

Senza fare ricorso ai molteplici casi di scomparse totali di città e di monumenti persino dalla memoria degli uomini, con un esempio tratto dalla storia locale contemporanea si è colta l’occasione per sostenere la possibilità che, non sempre, delle cose antiche rimane qualche vestigio, facilmente reperibile, a testimonianza di un passato anche non lontano. E’ necessario allora andarne alla ricerca, dato che una città, realmente esistita e non effetto di immaginazione fantastica, deve alla sua morte lasciare immancabili segni di sé, anche se nessun rudere palese avrà potuto attrarre, all’istante, l’attenzione dell’archeologo o dello storico. Poi un barlume iniziale si fa strada pian piano, dilata la fitta tenebra, che avvolge ogni cosa, diviene luce chiarificatrice, indicando nella medesima località, non lontani l’uno dall’altro, i segni attesi dall’ansiosa ricerca.

Ed ecco che, al primi della seconda metà del secolo scorso, a qualche chilometro a sud di Avezzano, sulla via che conduce a Luco fu rinvenuta una necropoli, da cui emersero numerosi sarcofagi, specialmente in seguito agli scavi, che vi si effettuarono appena dopo l’immane disastro tellurico del 1915, per dare sepoltura alle povere vittime. Essa era situata quindi dove ora sorge il nuovo cimitero di Avezzano sul Colle del Sabulo, a tre chilometri circa dalla città, a mezzo chilometro circa dall’emissarlo di Claudio, ad alcune centinaia di metri dalle falde del Salviano, quasi in direzione perpendicolare della grotta di Ciccio Felice, leggermente più a sud dall’imbocco della galleria ferroviaria per Sora.

Qualche scrittore (23), lungi dall’idea di porre la scoperta in relazione all’esistenza probabile in località vicina i qualche città marsa antica, si è limitato a congetturare che forse la necropoli si trovava presso una deviazione della via Valeria, la quale da Alba Fucense proseguiva verso l’emissario del lago Fucino o più lontano fino al bosco di Angizia. Aggiungeva che numerosi sarcofagi furono portati nel convento dei Cappuccini di Santa Maria in Vico, completamente distrutto dal terremoto del 1915, e che erano fatti con pietra rude, senza nessuna iscrizione o fregio ornamentale e decorativo, per mezzo dei quali si sarebbe potuto stabilire la loro sicura età. Queste ultime circostanze sono state accertate da molti cittadini avezzanesi, anche di recente, perché le cosidette ” casse di pietra “, da vari anni, sono state usate come lavatoi e abbeveratoi in più luoghi della nostra periferia e qualcuna di esse ancora assolve tale servizio: sono scavate in un blocco monolitico di pietra dolce, nostrana, con un coperchio della stessa materia in unico pezzo, prive di qualsiasi indicazione grafica, un esemplare delle quali è conservato, in ottimo stato, nel Museo Comunale di Avezzano.

Per più anni il mutismo epigrafico ed artistico dei detti sarcofagi, così rudimentalmente semplici, ha impedito ogni chiarimento sulla loro origine ed ogni giustificazione sulla loro presenza in quella zona, fino a quando non se ne fece luce ad opera del prof. Pietro Barocelli, direttore del Museo Pigorini e docente di paleontologia presso l’Università di Roma. L’illustre studioso non esitò a riconoscere la natura barbarica delle sepolture, riferendole direttamente al Longobardi, i quali erano soliti porre le salme degli arimanni entro le bare di pietra assieme alla loro spada, più lunga di quella usata dagli Italici, senza alcun segno scolpito sulle bare medesime, come si è rilevato in questo caso particolare. La necropoli, anteriormente all’occupazione longobarda, apparteneva ai Marsi Anxantini; infatti vi sono, stati rinvenuti alcuni oggetti di epoca molto antica e di origine non barbarica, come armature con corazza a ” balteo-disco “, conservate nel Museo Comunale di Avezzano, nonché sepolture con lastre fittili poste a capanna, ritrovamenti questi che certamente provano l’antica esistenza di un vicino centro abitato. Non v’è dubbio che la necropoli pagana sia antichissima e, per la natura degli oggetti e delle sepolture, che li contenevano, deve sicuramente risalire al VI secolo a. C. (24).

Durante i lavori di prosciugamento del secolo scorso, presso l’antico emissario del Fucino, furono rinvenuti tre frammenti di bassorilievi, che forse erano originariamente destinati a decorare il primitive Incile. Il più grande rappresenta una città costruita con grandi porte e possenti mura turrite; gli edifici, dalla linea elegante, si stagliano ben distinti, le strade si snodano agili, quasi con curata simmetria (la grande striscia, che si nota scendere dal bordo superiore del bassorilievo piegando verso sinistra, è dovuta ad opera di restauro). Il tutto e scolpito con un certo gusto artistico, da cui nondimeno traspare palese la preoccupazione dell’autore di rappresentare, con la maggiore possibile fedeltà, l’immagine di una città importante con i suoi templi, con il teatro, con il parco verdeggiante, con le ville sontuose ricche di colonne e con ogni altra costruzione.

Si deve osservare al riguardo che solo per la tecnica d’esecuzione il bassorilievo sembra rappresentare una città posta sul versante di una montagna; in quel tempo infatti si era ancora lontani dal poter produrre gli effetti di prospettiva del Rinascimento in tal genere d’arte
I rimanenti due frammenti mutili raffigurano, l’uno, un tempio romano in una serie di colonne, poggianti su di un piano che sovrasta tre statuine di divinità, addossate alla parete ed intercalate da piante basse, del quale tempio si dovrà dire in seguito; l’altro, il cunicolo maggiore in un gruppo di edifici e giardini, che sembrano costituire una grande villa, sovrastante l’ingresso di una grotta, vigilato da una piccola costruzione, che vi sorge a fianco; in alto a sinistra, sopra una grande base, è scolpita la statua di Ercole, in atteggiamento di lotta, dominante lo spazio, che si stende dinanzi la facciata del cunicolo.

Oltre gli elementi che rimangono ancora da illustrare, tutti quelli, di cui si è parlato fino a questo punto, contribuiscono non poco a farci intravedere in questi bassorilievi l’immagine della città di Anxantium, piuttosto che quella di Angizia; la quale, secondo il Mommsen, era un grandioso santuario dei Marsi, e non una città, come è stato erroneamente ritenuto, santuario andato distrutto non si sa come né quando, e di esso si può ancora notare qualche rudere, poco lungi dall’attuale Luco. Lucus invece fu città antica quanto Anxantium, si da dare il nome, secondo la distinzione pliniana, al Marsi Lucenses, come Anxantium al Marsi Anxantini. Pertanto si è indotti a credere che la vicinanza di Anxantium all’emissario claudiano e la sua grande importanza nella zona la resero, più di ogni altra città Marsa, degna di essere raffigurata nelle opere di scultura, che adornavano la fronte avanzata dell’emissario stesso.

Si legge nel, Febonio (25): ” Ad australem plagam in radice montis Pennae ab Alba VI M. P. dissitum lacet cadem plane clade, hoc sacculo, uberrima Fucini exuberante violentia (quam Penna ipsa passum est) moenia quippe domus propugnacula, quae lacum respiciebant, secum advolvit, soloque paene adacquavit, culus vestigia recedentibus undis visuntur “. Ed eccone la traduzione letterale: ” Presso la zona australe alla base del monte Penna (26), distante seimila passi da Alba (una città) giace completamente in seguito al medesimo disastro che, in questo secolo, per la abbondantissima esuberante violenza del Fucino, la stessa (città di) Penna subi, poiché fece rotolare con sé le mura baluardo della patria, le quali guardavano il lago, e le ridusse quasi al suolo, le vestigia della quale (città) sono visibili quando le acque si ritirano “. Tale passo, non semplice, alquanto contorto, ha spinto qualche studioso locale ad opinare che la città, diversa da Penna, abbattuta dalle acque del lago, fosse Anxantium.

Ma si osserva che, dopo il prosciugamento del Fucino, nessuna traccia dei ruderi della città sommersa, descritta dal Febonio, è stata notata da alcuno, che ne avesse potuto trasmettere per iscritto o per tradizione orale la testimonianza; sicché ancora più perplessi sono rimasti quanti confidavano almeno in una qualsiasi risultanza concreta, capace di condurre alla positiva definizione della ricerca. La sorte di questa città, che il Febonio non sospettò nemmeno potersi trattare di Anxantium, per cui tacque il nome, appare, in verità, singolare a chi con trepida ansia ha atteso la soluzione del mistero, che l’ha avvolta per vari secoli. La formidabile violenza delle acque del Fucino in piena aveva fatto rotolare fino al fondo del lago quanto si sarebbe salvato dalla rovina degli ultimi barbari, cancellando ogni segno della sua esistenza persino dalla memoria degli uomini; inconsciamente, in occasione del prosciugamento operato dal Torlonia nel tempo immediatamente posteriore, forse alcuni avranno manomesso le pietre rimaste, servendosene per nuove costruzioni, come spessissimo è avvenuto ed avviene tuttora, nel dissodare il terreno per metterlo a coltivazione.

Ma queste sono ipotesi pure e semplici, sebbene in proposito si possano citare non pochi esempi, tratti non solo dalla storia di ogni altra regione, ma anche da quella della Marsica; del resto si è fatto notare la scomparsa di Santa Maria in Vico, distrutta dal terremoto del 1915, ed, alcuni anni or sono, completamente cancellata dalla faccia della terra, per impiantare sul suo terreno un vivaio, che ora si presenta come un bel giardino. Ormai non si potrà dire più nulla di certe ville antiche, esistenti sulle rive dell’ex lago Fucino e scomparse per sempre, quasi per incanto… da un giorno all’altro.
La zona australe, posta tra Avezzano e Luco, distante sei miglia da Albe, corrisponde precisamente al centro dell’insenatura,, che alla radice del monte Penna o Salviano si incurva a forma di arco: proprio in detta zona, oltre alla necropoli descritta, esiste una grotta chiamata volgarmente “Di Ciccio Felice “, mentre il suo vero nome è “grotta di Claudio a San Felice”.

Essa è famosa in seno al nostro popolo, che la ricorda come rifugio leggendario di briganti e poi di pastori, che vi immaginavano tesori nascosti, protetti da spiriti maligni e da streghe. Tale grotta, molto più grande di tante altre esistenti pure sul pendio della stessa montagna, che si prolunga fino a Luco ed oltre con nomi diversi, si trova in territorio di Avezzano nella contrada Parco, e costituisce altro fondamentale motivo, su cui poggia la tesi dell’esistenza di Anxantium nelle sue vicinanze. La stipe votiva rinvenuta indica certamente l’antica presenza di un tempio pagano ad essa collegato, secondo la tradizione, ma nessun indizio archeologico se ne possiede, per poter controllare la validità della notizia orale e della ipotesi; perciò si può ben ritenere che la detta grotta sia stata collegata con il tempio di Anxantium, raffigurato in uno dei due frammenti minori, scoperti nell’Incile claudiano e dianzi descritti. La sua denominazione popolare sembra dovuta ad un tale Giovanni di Ciccio, che fu uno degli amministratori della nostra città nella seconda metà del secolo XIV.

Egli, nell’interessarsi della delimitazione dei confini dei territori comunali di Luco e di Avezzano, recatosi con il suo collega Muzio di Ventura, nel 1372, nella Curia della Contessa Giovanna di Durazzo in Napoli, chiese il condono delle tasse per la terra della distrutta città di Penna, che doveva appartenere di diritto ad Avezzano. La richiesta di Giovanni di Ciccio venne accolta dalla, Curia di Napoli; furono confermati i confini fra i due suddetti Comuni, e così la famosa grotta, con il territorio circostante per una considerevole estensione continuò a far parte del tenimento di Avezzano. Sembra pertanto che in omaggio all’ottimo amministratore, gli Avezzanesi la chiamassero ” grotta di Ciccio Felice “, volendo significare ” Grotta di Ciccio presso S. Felice “, nome di quella contrada. Ma la lite secolare, circa il possesso del territorio pennese, tra Avezzano e Luco, fu definita con un diploma in data giugno 1405 (27).

Nella primavera del 1940 la grotta venne più volte e minutamente visitata, in compagnia di persona dotata di intuito dell’antichità, dal concittadino Giuseppe Pennazza, il quale ne fece una descrizione esauriente e precisa, che vale riportare, anche per la piacevole vivacità della prosa, nel punti salienti e di maggiore interesse per l’argomento.  L’accesso ne è comodissimo: dalla strada provinciale Avezzano-Luco, si volta a monte per un diritto, simpatico sentiero campestre, che porta ad un casale con alcuni campi coltivati; si supera un lieve arido declivio disseminato da una quantità enorme di antichi minutissimi rottami e frantumi di terracotta e, tra sassi, spini, arbusti e qualche frana rotolata dal monte, superando un argine, una specie di soglia formata da grandi nere pietre rettangolari, si entra nella grotta.

L’antro è abbastanza grande e di forma semicircolare con volta a calotta non molto alta e sempre più degradante nell’interno: quivi, nell’alto, si scorge un gran foro da dove certamente scaturiva l’acqua. Nel piano terroso e rimosso, tra macigni di varie forme, colpisce, nel centro, una grossa pietra rettangolare: una specie di ara. Da questa prima grotta, muniti di lucerne, strisciando carponi tra l’umido terriccio, a stento si riesce a penetrare in una seconda grotta, più vasta della prima ma con volta bassissima, dove le acque penetranti hanno formato numerose stallattiti e, fra l’altro, una specie di monumentale meravigliosa fontana, ed hanno sollevato il piano, formando un durissimo crostone calcareo, che certamente deve ricoprire il profondo primo piano archeologico.

Questa seconda grotta è di una suggestività veramente fantastica ed a stento con la descrizione si riuscirebbe a darne un’idea esatta. Da essa vi è un principio di passaggio ad una terza, per terminare chissà dove (può essere che si attraversi tutto il monte sino all’altro versante verso i Campi Palentini). Siamo tornati più d’una volta nella grotta e dai numerosi cocci e dai rottami, affioranti tra l’umida terra e da ciò che antecedentemente fu rinvenuto, come ci hanno riferito alcuni contadini dei dintorni, si comprende che la grotta è stata più di una volta manomessa dai cercatori di tesori e ” cavatesori ” e non è improbabile che qualche tesoro sia stato rinvenuto.

Da queste visite abbiamo dovuto concludere che la grotta, come tutta la zona ad essa adiacente, mai esplorata e razionalmente scavata, è di grandissimo interesse archeologico, non inferiore agli Scavi di Locri in Calabria, alla grotta di Rapino in provincia di Chieti e ad altre località storiche della nostra penisola. La grotta e le altre cavità e fenditure, più o meno grandi che vi si veggono nelle prossimità, come abbiamo accennato, sono senza dubbio di natura carsica, approfondite ed ingrandite dalla corrosione delle acque dell’antico lago del Fucino, che vi sbattevano e che coi secoli a mano a mano decrescevano.

La grotta, una volta rimasta scoperta, dovette servire da principio come rifugio di animali ed in seguito, in età preistoriche (primo e secondo quaternario) fu senza dubbio il ricovero, la casa e la tomba degli uomini primitivi, dei cacciatori del cinghiale marso e tutto questo viene in parte confermato da qualche piccola freccia di silice, da un’ascia di pietra, da grossi denti umani, da un dente di cinghiale, da teste di serpenti pietrificate, già rinvenuti nella grotta e nelle vicinanze. Uno scavo quindi profondo della grande incrostazione calcarea ci condurrebbe certamente a rinvenimenti di antichissimi fossili e di depositi archeologici intatti, che sarebbero di somma importanza per lo studio delle origini della civiltà della nostra razza italica (28).
Nelle epoche storiche poi la grotta, ai piedi dell’odoroso Salviano, allora verde e boscoso, tra lussureggiante coltivazione, prospiciente il bel lago di Fucino, con abbondante sorgente interna di acqua, non c’è da dubitarne, dovette essere un “ninfeo”, un luogo sacro alle ninfe, alle nereidi, a Venere feconda e ad altre divinità agresti e marine e, forse, vi doveva essere anche una piscina sanatoria con le relative stipe – favisse – dove venivano gettati gli ” ex voto “, nella maggior parte di terracotta.

Tutto ciò ci dicono i resti, rinvenuti tra il terriccio della grotta, di molte e svariate testine appartenenti a statuine femminili vestite ed alcune incinte; frantumi di terrecotte di varia grandezza, cuori, facce, piedi, braccia, gambe, mani, animali, rottami di piatti, coppe, anfore, lucerne, frutta, pane, monete, nella maggior parte di fabbricazione locale, alcune a serie ed altre classiche e di provenienza ellenica. Tutto ciò conferma l’idea di un luogo sacro, dove con doni ed offerte si implorava l’aiuto delle varie divinità per le diverse malattie ed infermità, per i parti felici, per la fecondità e prolificità, per l’ottimo raccolto delle messi, e dove i devoti ricorrenti, uomini e donne, si bagnavano nella fonte sacra. Questi cocci e rottami, rinvenuti a più riprese, da contadini e da pastori nel suolo della grotta e nelle prossimità di essa, attestano che la stipe o le stipe votive debbono essere state distrutte e vuotate nelle prime epoche cristiane e nei periodi del brigantaggio, ma può anche darsi che qualcuna sia ancora intatta e possa per fortuna riportare alla luce tutto quello che essa contiene.

Se nella grotta vi era un ninfeo, ad esso appoggiato doveva esserci necessariamente il tempio sacro dedicato o al ” Dio Fucino ” 0, con più probabilità, a ” Giove Statore “, come ci fa pensare un antico altorilievo trovato nel prosciugamento del Fucino (29) e di conseguenza la città e la necropoli. Non meno importanti quindi riuscirebbero gli scavi per ciò che può riguardare le varie epoche storiche sino al II o III secolo d. C. ed essi potrebbero portare vera luce per ricostruire le origini e la storia del nostro popolo marso e particolarmente della nostra Avezzano. Se per noi e se per il popolo marso questa grotta rappresenta una vera scoperta, non è così per l’ing. Loreto Orlandi, Ispettore Onorario per i monumenti della Marsica, il quale da noi interrogato in proposito ci ha detto che la grotta ” Di Ciccio Felice ” è una sua antica conoscenza ed è in stretta relazione con un suo studio, già portato a termine, circa i Marsi Anxantini e la città di Anxantium e si è riserbato di proporne gli scavi a tempo opportuno ” (30).

Anche il Pennazza quindi aveva avuto notizia delle ricerche dell’Orlandi sui Marsi Anxantini, sulla loro città e sull’immancabile stretto rapporto di Anxantium con la grotta illustrata tanto efficacemente nella descrizione, che qui si è si denti umani, da un dente di cinghiale, da teste di serpenti pietrificate, già rinvenuti nella grotta e nelle vicinanze. Uno scavo quindi profondo della grande incrostazione calcarea ci condurrebbe certamente a rinvenimenti di antichissimi fossili e di depositi archeologici intatti, che sarebbero di somma importanza per lo studio delle origini della civiltà della nostra razza italica (28). Nelle epoche storiche poi la grotta, ai piedi dell’odoroso Salviano, allora verde e boscoso, tra lussureggiante coltivazione, prospiciente il bel lago di Fucino, con abbondante sorgente interna di acqua, non c’è da dubitarne, dovette essere un “ninfeo”, un luogo sacro alle ninfe, alle nereidi, a Venere feconda e ad altre divinità agresti e marine e, forse, vi doveva essere anche una piscina sanatoria con le relative stipe – favisse – dove venivano gettati gli ” ex voto “, nella maggior parte di terracotta.

Tutto ciò ci dicono i resti, rinvenuti tra il terriccio della grotta, di molte e svariate testine appartenenti a statuine femminili vestite ed alcune incinte; frantumi di terrecotte di varia grandezza, cuori, facce, piedi, braccia, gambe, mani, animali, rottami di piatti, coppe, anfore, lucerne, frutta, pane, monete, nella maggior parte di fabbricazione locale, alcune a serie ed altre classiche e di provenienza ellenica. Tutto ciò conferma l’idea di un luogo sacro, dove con doni ed offerte si implorava l’aiuto delle varie divinità per le diverse malattie ed infermità, per i parti felici, per la fecondità e prolificità, per l’ottimo raccolto delle messi, e dove i devoti ricorrenti, uomini e donne, si bagnavano nella fonte sacra.

Questi cocci e rottami, rinvenuti a più riprese, da contadini e da pastori nel suolo della grotta e nelle prossimità di essa, attestano che la stipe o le stipe votive debbono essere state distrutte e vuotate nelle prime epoche cristiane e nei periodi del brigantaggio, ma può anche darsi che qualcuna sia ancora intatta e possa per fortuna riportare alla luce tutto quello che essa contiene. Se nella grotta vi era un ninfeo, ad esso appoggiato doveva esserci necessariamente il tempio sacro dedicato o al ” Dio Fucino ” , con più probabilità, a ” Giove Statore “, come ci fa pensare un antico altorilievo trovato nel prosciugamento del Fucino (29) e di conseguenza la città e la necropoli. Non meno importanti quindi riuscirebbero gli scavi per ciò che può riguardare le varie epoche storiche sino al II o III secolo d. C. ed essi potrebbero portare vera luce per ricostruire le origini e la storia del nostro popolo marso e particolarmente della nostra Avezzano.

Se per noi e se per il popolo marso questa grotta rappresenta una vera scoperta, non è così per l’ing. Loreto Orlandi, Ispettore Onorario per i monumenti della Marsica, il quale da noi interrogato in proposito ci ha detto che la grotta ” Di Ciccio Felice ” è una sua antica conoscenza ed è in stretta relazione con un suo studio, già portato a termine, circa i Marsi Anxanti_ ni e la città di Anxantium e si è riserbato di proporne gli scavi a tempo opportuno ” (30). Anche il Pennazza quindi aveva avuto notizia delle ricerche dell’Orlandi sui Marsi Anxantini, sulla loro città e sull’immancabile stretto rapporto di Anxantium con la grotta illustrata tanto efficacemente nella descrizione, che qui si è voluto riportare nel brani di maggiore interesse. Lo studio e le ricerche condotti da Loreto Orlandi hanno grande importanza, pur nel loro difetto di ordine ed a volte di chiarezza dovuto alla pubblicazione postuma, perché apportano un valido contributo di scienza alla storia della nostra città, dando conforto alla ricostruzione di una verità, che tanto interessa il popolo di Avezzano.

Durante il periodo degli intensi bombardamenti aerei dell’ultimo conflitto mondiale, la grotta di Claudio a San Felice servì di rifugio a centinaia di Avezzanesi, i quali, per fuggire il pericolo sovrastante, ricorrevano ad essa, trovandovi libera, materna accoglienza; l’antro, come nei tempi antichi, con tacito assenso assicurava la sua protezione generosa, mentre i rifugiati, senza accorgersene, avranno cancellato alla vista del profano i pochi indizi evidenti della sacra antichità del luogo. Si deve a questo punto rilevare che tutte le indagini finora condotte, attraverso un terreno non facile, sgombrato finalmente di ogni arbitraria supposizione e di ogni dubbiosa incertezza, si dirigono decisamente verso quella località, ove si rinvengono raccolti gli elementi storici ed archeologici, che si riferiscono al popolo anxantino. In tale località esisteva un importante centro abitato, che deve identificarsi con la città di Anxantium, ove poi sorse e prosperò l’attuale Avezzano, che ne costituì la naturale continuazione.

Sconfinare dal limiti del territorio avezzanese appare oltremodo assurdo, tanto è che le testimonianze e gli argomenti addotti fino a questo momento, e che hanno diretto rapporto col territorio suddetto, si presentano validi, sotto tutti gli aspetti, a sostenere la tesi della esistenza di Anxantium nel sito indicato. La tesi del resto è suffragata da altre inoppugnabìll prove, rinvenute nella zona abitata in origine dagli Anxantini, come sarà dimostrato nel capitolo seguente: ormai non si potrà più revocare in dubbio che il detto popolo ebbe la sua sede naturale nella zona di Avezzano.

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