Arte e cultura della Marsica

ANGELO AURELI (Gioia dei Marsi, 1866-1941), il poeta contadino gioiese, oltre a coltivare la poesia, nutrì sempre in vita una grande passione per la storia: passione alimentata dalla lettura dei Reali di Francia, questo autentico
« best-seller » della più elementare cultura contadina non solo di quegli anni e non solo nella Mar sica. In particolare, egli cercò di ricostruire a modo suo la storia del proprio paese d’origine, così come l’aveva recepita soprattutto attraverso la tradizione orale.

Animato da una musa incolta ma prepotente, attento osservatore delle persone e delle cose, traeva spunto dagli avvenimenti quotidiani della vita paesana, o da quelli più risonanti della vita nazionale, per comporre le sue strofe, ora malinconiche ed elegiache, ora mordaci e fortemente satiriche.
Nei due lunghi componimenti che qui si riportano, egli esprime – in ottonari o in endecasillabi talvolta zoppicanti, e senza troppo rispetto per la grammatica – il suo amore per il paese nativo, di cui narra le vicende liete o tristi, alternando al racconto le diverse considerazioni (pregne di una filosofia spicciola e bonaria) che la sua condizione sociale gli suggerisce.

I testi successivi sono stati ripresi (senza apportarvi alcuna correzione, anche quando gli errori apparivano evidenti) dai due volumetti originali stampati dalla Tipografia Vissio di Bene Vagienna, il primo nel 1931, il secondo senza data. (P. G.)

STORIA DEI PAESI ANTICHI DI GIOIA
E DI TUTTI GLI ANTENATI BENEFATTORI

STORIA DEL FLAGELLO DEL
TERREMOTO IN GIOIA DEI MARSI

Dovete perdonarmi miei
Signori Se numerosi sono i miei errori
E di usar la massima attenzione
Che debbo far una lunga spiegazione

Se la mia mente non viene a mentire
Tante belle cose debbo dire
Debbo spiegare una lunga storia
Per lasciare a questa Gioia una memoria

La cosa che vi spiego più importante
E della nostra antica soprastante
E di tutti gli antenati paesetti
Ve lo fò capire con i miei versetti

Campomizzo furon le prime abitazioni
Templo e Montagnano le frazioni
E questo fu all’epoca del mille
Dov’abitavano gli antenati ed i pupilli

Dopo molto tempo questi disgraziati
Dall’íra di Dio furono castigati
Fra incendio terremoto e gran nevate
Furono tutte queste genti spigionate

I superstiti che furono salvati
icostruirono i nuovi fabbricati
Lasciarono tutte e tre quelle frazioni
E Gioia furono le nuove abitazioni

Con lungo tempo divennero numerosi
Istruiti ricchi e tutti industriosi
Costruirono una Chiesa colossale
Che sembrava veramente Cattedrale

Un ricco pastore dal cognome Ferrone
Fece campana grande ed il tenone
I Lattanzi, gl’Incarnati ed altri signori
Costruirono gli altari a spese loro

Quanti sudori quei nostri antenati
Per ultimare quei fabbricati
Solo a pensare quanto sacrifizio
Per innalzare quel frontespizio

Si doveva carreggiare tutto a schiena
Le tavole, i canali, calce e rena
Le pietre cantonate e bologníni
E numerose somme di quattrini

I travi trascinati da lontano
A forza di animali piano piano
Soffrivan veramente la tortura
Perché non c’era strada nuova addirittura

Al mille cinquecento novantatre
Tutto io vi debbo far sapè
Ríta Jacobbe nella sua età
Impiantò una Congrega di Carità

Lasciò tutto il patrimonio che aveva
A beneficio della Madonna della Neve
E lasciò scritto a tutti i confratelli
Di dar soccorso sempre ai poverelli

Al mille settecento dieci fu l’unione
Che si unì con Gioia la frazione
Vi debbo fare tutte le rivele
Quando Gioia entrò al feudo S. Michele

Lecce stava prima nell’attesa
Ma da Gioia ci restaron con l’offesa
I nostri spalancarono le porte
Che di fronte a Lecce, Gioia era più forte

Appena che si furon concordati
Costruirono i primi fabbricati
E ci posero il nome da quel giorno
Feudo dì S. Angelo Menaforno

I signori ci formarono i giardini
E molta agricoltura i contadini
Impiantarono i frutteti ed i vigneti
E numerose piante d’oliveti

Ci avrebbe superata la migragna
Se eravamo ancora alla montagna
Per la stima che avevan gli antenati
Ci troviamo in pianura situati

Perciò ci abbiamo lunga l’estensione
Per l’accordo fatto Gioia con Sperone
Ma la frazione per l’accordo mal si trova
Che non ha neppure un pò di strada nuova

Al mille settecento novantaquattro
A Gioia vecchio fu un gran disastro
Si sviluppò un incendio accelerato
Che quasi tutto Gioia fu bruciato

Nel mentre che ardeva in quell’istante
Una vecchia spiritosa voltò le piante
Cacciò fuori S. Nicola dalla chiesa
e si fermò il fuoco in quell’attesa

S’incendiarono centoventiquattro case
E tutte quelle necessarie base
Perciò a Gioia non abbiam scrittura
Che l’archivio fu bruciato addirittura

Appena fu successo la rovina
Ci fu scritta una pietra in lingua latina
E questa andò sepolta al terremoto
Ed io per ricordarvi ve l’annoto

Ricominciò il sacrificio quella gente
E ricostruirono Gioia interamente
Senza scoraggíarsi mai alle sventure
Che l’industria riparava le sciagure

Se ognun sapesse bene il passato
Gioia come stava organizzato
Baroni Cavalieri ed avvocati
E tutt’impuglía stavano allocati

Gli Alesi alla Mendola e Posticciola
I Signori Nicolai a Cerignola
I Mascitelli a Orta e Ordone
E a S. Ferdinando il Signor Barone

Quanti Signori al nostro paesotto ù
I Novelli con vigneti a ponte rotto
Gli Incarnati D. Lorenzo e D. Giovanni
A Cerignola e posta delle canne

Per la Puglia Gioia era rispettato
Che ci avevamo il nostro sindacato
Comandavan tutto Foggia quei Signori
Il primo fu D. Clementino lori

E non mi son dimenticato mai
Ci fu anche D. Saverio Nicolai
Avevamo pure alla corte d’appello
Il Signore D. Luigi Mascitelli

E prima di tutti questi antenati
Ci fu D. Giustiniano Incarnati
Or quello era proprio avvocatone
Di Tribunale e della Cassazione

Era la prima scienza marsicana
Degli Abruzzi del Molise e Puglia piana
Delle Marche la Liguria e la Toscana
La cioceria e campagna Romana

Da ogni parte era rispettato
Per quanto era dotto e scenziato
Avevamo a Gioia una chiave forte
Che lui sapeva aprir tutte le porte

Un Sacerdote per una questione
Fece un micidio in mezzo alle persone
Con la difesa di D. Giustiniano
Se ne usci assolto il Cappellano

Un’altra grande scienza similmente
In D. Nicola Alesi anticamente
Socio dell’accademia economica
Di Aquila e di Foggia in quell’epoca

Regio Professore di Patologia
Dottore in medicina e chirurgia
Diplomatici di Roma in sua età
Carissimo per ingegno e per bontà

Al mille ottocento trentotto fu il dolore
Che morì a Foggia questo gran Signore
Cessò di vivere a trentanove anni
Lasciando moglie e figli fra gli affanni

I fratelli D. Luigi e D. Filippo
Chi restò addolorato e chi trafitto
Gli fecero una lapide per memoria
E Pò scritta a poesia in questa storia

Un altro Professor di testa fina
L’abbiamo perso alla Città di Atina
Per la bontà che aveva quel Dottore
Sposò la figlia di un Senatore

Fu D. Vincenzo Alesi l’entenato
Con la figlia di Visocco ebbe sposato
Ma il destino e la crudele sorte
Ai fior degl’anni gli colpì la morte

Al mille ottocento quarantuno
Miracolo fù che non morì nessuno
Alle nove in punto prima mezzogiorno
Crollò la nuova chiesa di Menaforno

Appena era stata ultimata
Con una grande cupola elevata
Crollò in tal maniera in quell’istante
Per l’edifizio fatto molto grande

La paura ed il terror di tutti quanti
Nel vedere una maceria di pietre e santi
Per lungo tempo Gioia fu condotta
Ad una vecchia chiesa mal ridotta

Al mille ottocento settantasci
Dovete ascoltar bene amici miei
Un’Ingegnere aveva tutta l’intenzione
Di far passar la strada per Ortone

Appena che senti quest’avvocato
Che il disegno si era già tracciato
Immediatamente ad Aquila fu partito
E svolse il disegno da Carrito

Se a Gioia non ci stava tant’impegno
La strada nuova era di Bisegna
Ma l’antenato D. Vincenzo Mascitelli
L’à fatta trovare a noi miei fratelli

Lui fu l’autore a farla qui passare
Ed a lui toccò il primo a lasciare
Iddio lo benedica eternamente
Dal beneficio fatto a questa gente

Un’altro beneficio più migliore
Lo fece Mascitelli D. Lindore
Andiede lui a Roma di persona
A provvedere terre alla popolazione

Essendo che era in piena conoscenza
Coi Ministri e con la casa d’Eccellenza
Riuscì a tutti quanti i suoi intenti
E pigliò in fitto undici appezzamenti

Le terre stavan quasi tutt’aperte
Che il bacinetto era ancora indeserto
Si dovette dissodare tutto a braccia
Per quanto eran profonde le crepacce

Da quell’epoca questa Gioia ci si trova
In possesso a terre vecchie e terre nuove
Iddio le possa dare pace e gloria
he lasciò a tanta gente la memoria

Al mille ottocento settantasette
Fu fatto un beneficio senza fretta
Sarebbe quel ricordo molto caro
La fontana che fu fatta al montanaro

L’autore fu un Sindaco antico
Che aveva nome Orazi D. Federico
Il capo mastro di quell’edifizio
Aveva nome Clementin Subrizi

Dopo ritrovata l’acqua da lontano
Cominciarono una conduttura a mano a mano
Con tutta cura e con tant’esattezza
Fu fatta una fontana di grandezza

Poi venne il terremoto maledetto
E tutto Menaforno fu disdetto
E pur ci fu un miracolo speciale
La fontana restò salva tale e quale

Al mille ottocento ottantacinque
Tutto vi deve dire la mia lingua
Del primo uom di Gioia coraggioso
Onesto tutto calmo e prodigioso

Nel detto anno questo antenato
al cavaliere Alesi fu chiamato
Lo mise in guardia a tutti i suoi armenti
Per ammazzare gli orsi a tradimenti

Quattordici ne fece dei maggiori
E due orsacchiotti più minori
In quell’anno a sedici orsi fece strazi
Il valente cacciatore Antonio Orazi

E tant’altri poi ne fece a mano a mano
Quantunque si era fatto molto anziano
Il primo cacciator di tiro esatto
Antonio Orazi detto Giosaffatte

I due cacciatori più sinceri
Furon Antonio Orazi e Francesco Neri
Antonio Orazi della Marsicana
E Francesco Neri della Saggritana

I primi cacciator di questa terra
Orazi a Gioia e Neri e Pescasserra
I due tiratori più precisi
Qarantadue orsi ann’uccisi

A l’Ente autonomo stanno registrati
I numerosi orsi ammazzati
E se non succedeva il terremoto
La vita sua stava ancora in moto

Al mille ottocento ottantanove
Fu fatto un’altro pezzo di strada nuova
La fece a spese sue un paesano
Che salísce dal casale a Montagnano

E questo è un ricordo miei Gioiesi
Che ci lasciò il cavaliere Alesi
La fece per andare al suo casone
E fu un bene alla popolazione

Un’altro scienziato forte paesano
Fu l’antenato Orazi D. Giustiniano
A Napoli dimorava anticamente
Alla corte d’Assisi primo Presidente

Quanto si riunivano quelle sponde
D. Giustiniano il primo ed il secondo
Per la tanta scienza e testa sua sottile
Volevan distruggere il codice civile

Erano ambedue di grand’impegno
Alle gran corti e tribunali di questo Regno
Se volevano salvare un disgraziato
Gli facevano scomparire il suo reato

Ce n’avevamo un’altro pur scienziato
D. Giustinian Novelli l’antenato
A Napoli anche questo abbiam perduto
Che faceva scuola a tutti i sordo muti

Quanti ce ne stavan di signori
Che davano a questa Gioia tanti onori
Quel tellurico maledetto di violenza
Distrusse a Gioia tutta quella scienza

Qualch’uno che ci abbiam vivente
Chi si trova a levante e chi a ponente
Chi a Roma chi ad Aquila e a Foggia
E alla nostra Gioia nessuno ci alloggia

Solo uno ce n’abbiamo alla dimora
L’avvocato Ludovici e la Signora
Hanno bene questo mondo rigoduto
Per lo scavo che gli fece un sordo muto.

E pur ci abbiamo un padre di famiglia
Ci guida ci difende e ci consiglia
Qualunque occorrenza che abbiamo
A casa D. Clemente ce ne andiamo

Quanto eravamo più infelici
Se non ci era l’avvocato Ludovici
Gioia andava sempre di male in peggio
Che nessun capiva articoli di legge

Degli assenti rimpatriò solo un signorone
Il nostro D. Domenico Falcone
Dopo fatto circa anni trentatre
A Lanciano il Procurator del Re

Ora per l’anzianità stà in riposo
Ma di Gioia Vecchio ne sta sempr’ansioso
Appena che ritorna la stagione
Alla soprastante il sig. Falcone

Si alza appena giorno la mattina
E si prende il bastone e l’ombrellina
Salisce dove vede un’alto monte
Per godere il panorama a se di fronte

Quanto si è del tutto divertito
Che si sente avvicinare l’appetito
Si riprende l’ombrellina ed il bastone
E torna in casa a far la colazione

Poi al terremoto il Più che ci fu grato
D. Clementino Iorí l’avvocato
Lasciò la sua tant’occupazione
E venne a soccorre la popolazione

Parti da Foggia a tempo di bufera
A soffrire in mezzo a noi in ché maniera
A dispensare a tutti pannamenti
E da mangiare tutti fornimenti

Senza far nessuna dipendenza
Distribuiva quella provvidenza
E non cessò le cure ai paesani
Anche le baracche dai Foggiani

E questo lo sappiamo tutti quanti
Che allora ognuno di noi si fece avanti
Camicie maglie giacche e pantaloni
E da mangiare ogn’un le sue porzioni

Fu l’unico soccorso ai Gioiesi
Eccettuato quello degli altri paesi
Perché i falchi che l’andavano a prelevare
Al popolo non ce lo facevano arrivare

Quanti di quei soccorsi giornalmente
Spedivan da lontano la buona gente
Brunetto biancolino e Rusticone
Si beccavan tutto senza compassione

Tutti i giorni erano banchetti
Pollastri, uova, agnelli e capretti
Durò per lungo tempo il baltorio
Ed il popolo alle pene del purgatorio

Perfino una baracca particolare
La spedì una signora di Castellamare
La indirizzò ad una povera disgraziata
Anche questa da quei falchi fu beccata

Ma questi non eran mica i signori
Che erano dei cafoni più peggiori
Non bastava il flagello a tutti quanti
Anche alla trafila dei briganti

Perciò chiunque acquista questa storia
La conservasse bene per memoria
Per ricordarci sempre dei signori
Che sono stati a noi benefattori

Specialmente tutti quelli antenati
Che ci hanno i benefizi a noi lasciati
Portarono questa Gioia in alta stima
Per la tanta scienza che ci stava prima

Quanti ne avevamo di avvocati
Tutti all’altro mondo trapassati
Cominciando le famiglie Mascitelli
D. Luigi e D. Lindoro due fratelli

D. Umberto, D. Vincenzo e il suo papà
Tutti morti ai fiori dell’età
D. Giulio e D. Peppino il nipote
Chi mori a Napoli e chi al terremoto

Gli Incarnati D. Giovanni e D. Lorenzo
Dei Panfili D. Nalate e D. Vincenzo
Il commendatore D. Gennaro e la signora
Tutti morti flagellati alla dimora

Un’altro signorone tale e quale
Era D. Peppino Iori l’ufficiale
Il fratello D. Luigi similmente
Notaio e religioso seriamente

Era una famiglia d’affezione
Amavan tutta la popolazione
Carissimi di cuore e di bontà
Era il soccorso della povertà

Un’altro vero padre di istruzione
Fu D. Vincenzo maestro Falcone
Quantunque alunni aveva a se presente
Nessuno ne riusciva negligente

Era l’unico maestro Marsicano
Istruiva il latino e l’italiano
I conti l’aritmetica e la grammatica
Era il primo maestro a Gioia per la pratica

Ecco perché ci abbiam l’educazione
Per la scuola avuta dal signor Falcone
Iddio gli dasse pace e gloria eternamente
Per la tanta scuola fatta a questa gente

Un’alunno suo maestro tale e quale
Fu il signore Giannantoni D. Pasquale
Nel miglior tempo che insegnava l’istruzione
Il tellurico lo mandò in perdizione

I moderni non la sanno la rovina
Il macello al caffè di Mariannina
Artigiani campagnoli ed impiegati
In chè maniera stavano abbloccati

Stava tutta a faccia a terra quella gente
Sembravan tante pecore alla giacente
Tutti stretti come grano alla trimonia
Col maestro D. Pasquale Giannantoni

I primi gentil nati in questa gente
Furono i Lattanzi anticamente
Specialista e di buon cuore all’occorrenze
Gli antenati D. Nicola e D. Vincenzo

Solo uno ce n’abbiam vivente
Il Signor D. Vittorio e sta assente
Per la scienza che lui tiene tale e quale
Fa residenza nella capitale

Un’altro di buon cuore cittadino
L’antenato D. Nicola Berardini
Per la calma, il decoro e la dolcezza
L’amavan tutti con una tenerezza

Eran tre fratelli di bontà eguale
D. Nicola, D. Peppino e D. Pasquale
Sembrava una famiglia specialista
Un dottore, un sacerdote ed un farmacista

D. Achílle Gíannantoni pur speciale
Farmacista e Maestro Musicale
Si salvarono solamente due gemelli
D. Mario e D. Camillo due fratelli

Quanti ne avevamo di Dottori
D. Federico Orazi e D. Alessandro jori
L’antenato D. Samuele dei Novelli
E il signore D. Enrico Mascitelli

D. Modesto Alesi a Secondigliano
E a Foggia il fratel D. Gaetano
Tutti Dottori della tanta scienza
Ed ora a Gioia abbiam rimasto senza

Quanti sacerdoti antenati
Di vera religione e timorati
Cominciando dal sig. D. Luigi Fazi
D. Stanislao e D. Orazio Orazi

Vi erano i fratelli Incarnati
D. Giovan Vincenzo e D. Fortunato
D. Nicola Orfè e Galli D. Massimino
Ed il canonico D. Peppino Berardini

Tutti sacerdoti paesani
Come pure D. Antonio dei Graziani
D. Achille Mascitelli e D. Eduardo
E l’Arciprete D. Maurizio Sinibaldi

Un’altro sacerdote veramente
L’avevamo a Gioia Vecchio residente
Onesto, generoso e di bontà
Specialmente a quelli che erano di povertà

Quante ne faceva di viaggiate
Di notte tempo e in mezzo alle nevate
Radunava tutti quanti quei pastori
Con le pale a far le tracce ai viaggiatori

All’arrivo che facevano i patriotti
A casa D. Baldassarre Barilotti
Gli preparava cena e vino buono
E fuoco accelerato di carbone

Lo serviva a tavola con perfetto amore
Meglio di un padre genitore
Iddio gli dasse Paradiso eterno
Che fu un padre dell’amor fraterno

Al mille novecento quindici fu la rovina
Ai tredici di gennaio la mattina
Alle sette un terremoto come un volo
Il quinto e sesto paese rasato al suolo

Colpì tutto il circondario Marsicano
Gioia, Ortucchío, Trasacco ed Avezzano
Luco, Paterno e S. Pelino
Celano, Aielli, Cerchio e Pescina

Nell’insieme a quel castigo maledetto
Venere, Collarmele e S. Benedetto
Aschí, Sperone e le frazioni Leccesi
Con tremila morti solo i Gioiesi

Non bastava quel castigo al marsicano
Un’altro movimento da lontano
Scoppiò una guerra tanto accelerata
Che solo la vecchiaia fu lasciata

Insomma eran tutti pianti amari
Distrutta gente ed abbandonati affari
E dopo i dolori raddoppiati
Dei figli morti in guerra ammassacratí

Si aggiunse ancora un’altra batteria
Quella brutta puzzolente malattia
Di sera, di mattina e in giornata
Andava tutta gente sotterrata

Si unirono tutti e tre i macellai
Guerra, spagnola e tredici di gennaio
Chi al fronte, chi in casa e chi in città
La morte li assaliva senza pietà

Seguitiamo in Gioia Vecchio la parola
Chi sente questa storia si consola
Da Foggia, Roma e Napoli ognuno richiama
Alla nostra Gioia al meglio panorama

Quanti signori ne pigliavano impegno
Per venire alla megl’aria di questo Regno
Lasciavan le città vicino al mare
Per venire a Gioia Vecchio a villeggiare

Le curiosavan tutte le campagne
In queste nostre alture di montagne
Sceglievan le più splendide giornate
Per cavalcare e far le scampagnate

Traversavano i confini di Bisegna
Per fino alla montagna terraghegna
Altra contrada molto più lontana
Pietre gentile e coppo di genzana

Insomma da vicino e da lontano
La Mantrella, Campomizzo e Montagnano
L’ortella, valle piana e la nevera
Valle lunga, monte turchio e la miniera

Non avevan parimenti quelle feste
A mangiare e bere dentro alle foreste
Si mangiava, si beveva e si fumava
E sotto al fresco ognuno riposava

Non si può rappresentare l’allegria
Quando tornava quella compagnia
Le signore, signorine e signoroni
Godevan le miglior consolazioni

Appena scavalcati in quelle sere
La nostra Gioia era un bel vedere
Balli, canti e divertimenti d’ogni sorte
Con chitarre, mandolini e pianoforte

Poi c’era il gran caffè a cappitello
Figurava più migliore di un Hotel
Anche le signore ristorava
Per la grande pulizia che ci regnava

Aveva tutte sorte di liquori
Per ristorare tutti quei signori
Dispensavan vino annoso e la barbera
Fortunato Ludovici e la mogliera

Gioia era fornita a tutta forza
Di automobili, di cavalli e di carrozze
Di pecore, di vacche e di giumenti
In tutte le contrade erano armenti

Quando tornavan quelle masserie
Tutte incampanate per le vie Buttari,
massari e capo galani
Ritornavan tutti dalla Puglia piana

Quando arrivavano alla giacente
Capre, pecore, vacche e le giumente
Tutti andavano a vedere i Gioiesí
L’armentizio del fu Cavaliere Alesi

La maffia che faceva il Barone
Con sei cavalli in mezzo alle persone
Faceva una figura da lontano
Veramente un barone Napoletano

Innanzi cavalcava la baronessa
Ed il baron con la carrozza appresso
Cocchier, sotto cocchiere e famiglia
Chi alla frusta e chi guidava la briglia

Indietro ancora un’altra carrozzella
Di lusso, colorata e molto bella
Faceva una figura in che maniera
Con le signorine e con la cameriera

Dopo fatte quelle lunghe passeggiate
Tutti andavano a vedere le serate
Quei cavalli tutti in fila e ben ornati
Che da Gennarino stavano ammaestrati

Ed ora dove siamo miei fratelli
In mezzo alle macerie dei flagelli
Non c’è casa, né sottano e né soprano
E tutto spiano fatto da Palazzano

Solo a rammentare miei Gioiesi
Che abbiamo spigionato a sei paesi
E questa non è mica una menzogna
Che a dire la bugia è una vergogna

Potete domandar a qualunque anziano
Che c’era Campomizzo e Montagnano Templo,
Gioia Vecchio e Gioia al piano
E l’antico paesello di Magrano

E non credete che sia bugia
Che c’è stata fino a ieri S. Lucia
La chiesa, la fontana ed i fabbricati
Tutti a Gioia eran gli antenati

Vedete quanto è certa questa cosa
Che c’è ancora una stradella ripidosa
Il passaggio che facevan gli antenati
Per andare a soccorrere gli appestati

Ogni due giorni era il viaggio atroce
E passavan sotto al balzo della croce
Andavano diretto a quella zona
A soccorrer gli appestati della cona

Potete andare a veder quanto vi pare
Che quello che vi ho detto non scompare
C’è la grotta che esiste ancora adesso
Chiunque va a vedere ne resta impresso

Il pane si scendeva da lontano
Per mezzo di una corda piano piano
Con ansia aspettavano i disgraziati
Che soffrivano fame e panni lacerati

Proibita gli fu ,acqua della fonte
Che dovevan andare al pozzo senza fondo
Vivevano esiliati a una foresta
Per la pessima malattia della peste

Al mondo qualche giorno è da godere
Perché non manca mai il dispiacere
Anche noi abbiam passati alla tagliola
Fra la guerra il terremoto e la spagnuola

Il settimo s’impiantò al confine
Fra Lecce e la contrada fossanina
Cantone alto le ripe e di rimpetto
Le tre querce, le pescine ed il pozzetto

Ora abbiam varcata tutta l’estensione
Che stiamo al confin d’abitazione
E non si può far più lo spostamento
Che ce ne andiamo fuori del tenimento

Dio voglia che l’ottavo non ci sia
Da farci retrocedere alla pazzia
Ma se il tellurico si rimette nell’attesa
Allora Gioia resterà arresa

Di questa lunga storia fu l’autore
Angelo Aureli antico agricoltore
Padre di famiglia numerosa
A cinquant’anni privo di ogni cosa

A cinquant’anni questo vecchiarello
Restò alla nuda come un’orfanello
Gli scomparse moglie e figli ed ogni bene
E restò il vecchio fra miserie e pene

Lascio considerare a te caro lettore
Quanto gli fu acerbo il suo dolore
A vedersi a fuoco i figli e la compagna
E lui a la nuda in mezzo alla campagna

I giorni dopo furon lunghi assai
Che non trovava più la pace mai
E per divagarsi un poco l’invernata
Fece questa antica storia completata

Sessantacinque anni conteneva
Quando questa storia componeva
Non dormiva quasi mai il disgraziato
Per registrare tutto del passato

Nessuno se lo può immaginare
E nemmeno gli si può rappresentare
Le pene, i dolori e quant’oltraggio
Soffri Aureli Angelo fu Biagio

Il tipografo di questa storia antica
E’ stato il nostro Berardini Enrico
Figlio di capomastro muratore
Di disegno, di scalpello e di pittore

Al terremoto fu la sua disdetta
A quella catastrofe maledetta
Si salvò un’orfanello e un’orfanella
Enrico ed Elisabetta sua sorella

Ma perché Enrico era tenerino
Fu portato al Patronato da bambino
Dopo fattosi un bel giovan di energia
Volle studiare la Tipografia

E per quanto s’impegnò questo Richetto
Ce ne stampò trecento di libretti
Tutti fatti ben con attenzione
Per soddisfar la sua popolazione

Io autorizzo la tipografia
Di pubblicare questa poesia
A te Enrico dò tutto l’impegno
Di farla pubblicar per tutto il Regno

Conchiudo e metto termine signori
E perdonate tutti i miei errori
Saluto tutti quanti interamente
Chi legge e chi ascolta la presente. Miei superstiti vi annoto
Quel che fece il terremoto
Ascoltate con riflesso
A quanto io vi dico appresso

Al mille e quindici del novecento
Fu il flagello e lo spavento
Fu per noi l’eterno lutto
E la perdita di tutto

Nessun mai al mondo nato
Tal dolor giammai provato
Dal vecchio e nuovo testamento
Mai un tale movimento

Fu quel fiero macellaio
Il giorno tredici di gennaio
Alle sette di mattina
Tremila nostri alla rovina

E talun che fu salvato
Alla nuda spiggionato
A soffrir in tal maniera
Fra la neve e la bufera

Chi languiva e chi esclamava
Chi ognuno i suoi chiamava
Ma le scosse erano spesso
A star li non fu permesso

E chi mai credeva questo
Un dolor così funesto
Tutti a piazza di Savoia
Non c’è più la nostra Gioia

Si piangeva ad una campagna
I cari figli e la compagna
Chi il fratello e chi il padre
Chi il marito e chi la madre

Tutti privi di ricetti
Tutti sotto a quei carretti
Senza panni e senza pane
Tutte quelle carni umane

La dura terra fu il letto
In campagna come ho detto
Ne lenzuola e ne coperta
Si tremava ad aria aperta

Con ferite e con rotture
In quelle rigide freddure
Con lamenti gridi e pianti
Come anime purganti.

Con preghiere e penitenze
In quelle dure sofferenze
Ognun sperava da lontano
Qualche aiuto paesano

E nel mentre si soffriva
Un automobile si sentiva
Tutti andammo per vedere
Fu quel grande Cavaliere

Voce sparsa interamente
In quella sbalordita gente
Ognun correva ad incontrarlo
Con rispetto a salutarlo

Ma nel vederci in quello stato
Ne restò rammaricato
Con cuor contrito ed occhi bagnati
Fu D. Nicola Incarnati

Partì da Roma con violenza
Fra la neve in sofferenza
Per veder gli estremi punti
Se eran salvi i suoi congiunti

Figuratevi il dolore
Di quel gran benefattore
In mezzo a tanti pianti amari
Andava in cerca dei suoi cari

Ma per suo crudel destino
Non trovò sol che un cugino
La zia e zio sorelle e madre
Volarono in ciel dal suo buon padre

Ma con tutto quel dolore
Fu per noi benefattore
Quanti pani e quanti panni
Procurò ai nostri danni

In quelle pessime giornate
Notti e giorni alle viaggiate
Dormiva come un miserabile
Al sedín dell’automobile

Non dimentichiamo mai
Di quel ben che fu assai
Siamo sempre affezionati
A D. Nicola Incarnati

Ci fu pure assai cortese
Per il povero Gioiese
Partir volle da lontano
Il gran professor Romano

Con supplenti a se vicino
Il professor Alessandrino
In quei tempi di freddure V
enne ad offrir medicature

Parimenti quei signori
I fratelli di casa jori A
l colmo inverno in sofferenze
Per le sue beneficenze

Visitavano uno per uno
Chi era ignudo e chi digiuno
Portaron tutta provvigione
Per rivestire le persone

Le mutande e le calzette
Le camicie e le magliette
Pantalon giacche e pastrani
Tutt’offerta dei Foggiani

Della Pasta riso e pane
Ci fornivano a settimane
Furon proprio di affezione
Per la sua popolazione

Fece pure quel signore
Fu l’Illustrissimo Dottore
Che si riebbe a quei flagelli
D. Guglielmo Mascitelli

Con la testa fracassata
Andava sempre di scappata
A soccorrer medicazione
Alle superstite persone

Qual martirio più di quello
Del notaio a quel flagello
Esclamava fortemente
Fra le scosse continuamente

E i dolori che passava
Mentre un muto lo scavava
Non guardava al suo segnale
E seguitava a fargli male

Appena uscito all’aria aperta
Si accampò con una coperta
Al cancel di sua villina
Lui e D. Concettina

A dormire alla leggera
Il notaio e la mogliera
In quelle rigide freddezze
Quelle carni non avvezze

E pur si chiamavan fortunati
In mezzo a tanti disgraziati
Hanno il mondo riveduto
Per bontà di un sordo muto

Il coraggio dei soldati
Appena furono arrivati
Tutti pronti a quei trasporti
Con carretti i nostri morti

Quanti sfregi a quei defunti
Nel passare all’altro mondo
Si buttavano a tutta gara
Senza preti e senza bara

Chi rammenta questo fatto
Resta sbalordito e matto
Di persuadersi è impossibile
Perché è troppo indigeribíle

Credevamo in quei momenti
Ch’eravam tutti pezzenti
Ma ci furon dei campioni
Che si fecero le posizioni

Pannamenti di valori
E coperte di colori
Di ogni sorta lana e seta
E le somme di moneta

Volle Iddio col suo potere
Darci questo dispiacere
Di flagellare i buoni padri
E salvar malvagi e ladri

Vi ripeto l’attenzione
Che vi fò la spiegazione
Cominciando dalla piazza
Buona gente d’ogni razza

Ognuno era necessario
L’esattore e il segretario
1 Farmacisti e i caffettieri
I baroni e i cavalieri

I Dottori ed avvocat
E tant’altri magistrati
La caserma e la pretura
Tutti sotto alla sciagura

Seguitando per Toledo
Ciò che dico è quel che vedo
Della posta l’ufficiale
Ed il distretto forestale

Dei Virgili l’ingegnere E
quel bravo cancelliere
Quanta bella gioventù
Non la rívedrem mai più

Quante tenere bambine
Artigiane e contadine
Istruite a tante cose
Dalle suore religiose

Quante donne timorate
Giovanette e maritate
Si sciupavan in orazione
Per la santa religione

Confessioni in settimane
E digiuni in quarantane
L’elemosina alle porte
Per non far la mala morte

Quale morte più spietata
Peggio a quella che gli è stata
Quella fu la ricompensa
Della tanta penitenza

Quanti artisti e negozianti
E pittori e musicanti
Locantieri e cantinieri
Contadini e carrettieri

I stagnini e cementisti
E ciclisti elettricisti
Quanti mastri e capomastri
Tutti sotto a quei disastri

E chi furono salvati
Certi uomini invecchiati
E le donne maliziose
Che fan le finte religiose

Alla messa ed alla chiesa
Fan peccati a tutta presa
Ad intascarsi quel villano
Il ritratto siciliano

Alla strada degli Aratari
I superstiti son rari
Quanta gente di morale
Tutti morti senza male

Dove andò quella bellezza
Di Donato e di Saltezza
Quanti inni e quanti canti
Quanti vespri a tutti i santi

Quante messe e quanti uffízi
E tant’altri sacrifizi
Canzoncine e litanie
Quando andavano per le vie

Contemplavano tutta quanta
Quella settimana santa
Notte e giorni con amore
Alla passione del Signore

E con tutte divozioni
Recítavan le funzioni
Le lezioni e profezie
E le tre ore d’agonie

E con voci si sincere
Intonavano il Miserere
Poi cennavano il rumore
Alla cena del Signore

Facevan commover le persone
A quella bella processione
All’accompagno di Gesù
Ed ora non esiston più

Similmente fu distinto
Angeluccio di Florindo
Il cantore dell’Unione
Di santuari e processione

Se vogliamo rammentare
Ci starebbe da pensare
Quella lunga fratellanza
Vederla più non c’è speranza

Quelle numerose donne
Che accompagnavan la madonna
Con la musica luttuosa
E stabat mater dolorosa

E poi tutte le Signore
La direttrice con le suore
E le figlie di Maria
Si sol piangeva in quella via

Non mentiva mai nessuno
In quel giorno a star digiuno
Si completava la giornata
Con processione e desolata

Si faceva poi la Pasqua
Ognun col ciambellone in tasca
E si faceva dei bicchieri
Con parenti e con stranieri

E tant’altre belle cose
Tutte oneste e religiose
Con i figli e le consorti
Ed ora sono tutti morti

Marsicano era lo specchio
Quella chiesa a Gioia Vecchio
Dove andava ogni fedele
La fratellanza di S. Michele

Appena l’alba del cinque maggio
Eran pronti al santo viaggio
Tralasciavan ogni servizio
Qualcuno anche il vizio

Tutti al suono di campana
Si riunivano alla fontana
Poi con canti e con rosario
S’incamminavano al santuario

E per tre giornate intere
Inginocchiati alle preghiere
Ascoltavan con amore
La parola del Signore

E con tutte sofferenze
Discipline e penitenze
Confessione e Comunione
Per ottener da Dio perdono

Al ritorno in quelle sere
Era proprio un bel vedere
Con le sue candele accese
Illuminavano il paese

Ricordata dei trapazzi
Che si davan quei ragazzi
A tutta fuga in lontananza
Ad incontrar la fratellanza

Seguitavano il santuario
Per la strada del calvario
A fare una visita molto breve
Alla Madonna della neve

Poi con mente persuasa
Ognun riandava alla sua casa
Dov’eran i figli e le consorti
Ed ora sono tutti morti

A quel vico della scuola
Tutti morti alla tagliola
Fra migliaia di Gioiesi
Si salvò D. Carlo Alesi

Ma però si deve dire
Che fu quasi per morire
Di ferite eran parecchie
Alle gambe ed alle orecchie

Seguitando alle froscete
Come tutti ben sapete
Quella numerosa gente
Morta tutta interamente

Quanti buoni agricoltori
E dell’industria quei pastori
Artígian di tutte sorti
Calzolai barbieri e sarti

Quanti padri americani
Che degl’anní eran lontani
Non appena eran tornati
Con moglie e figli flagellati

Si salvò qualche canaglia
Chi consuma e chi travaglia
Il vecchio storto ed impotente
Poco vede e niente sente

A quel vico del calvario
Tutti in chiesa in quell’orario
Furono tutti in un secondo
Trapassati all’altro mondo

Chi salvò il Dio severo
Il macellaio forestiero
Il più reprobo del mondo
Protestante e vagabondo

Alla via della fontana
Fu il macello di carne umana
Tutti morti all’improvviso
Eccettuato Paradiso

Quante donne contadine
Lavoravan senza fine
Alla montagna ed in pianura
Morte sotto a quelle mura

Alla strada soprastante
Dove ognun si è fatto grande
Alle robe ed ai contanti
Furon eredi a tutti quanti

Con le accette e con picconi
Alle casse ed ai stiponi
Fù come un grido di Savoia
Quando cadde la nostra Gioia

Furon anche riavuti
Tutti e cinque i sordi muti
E l’acerbo melo amaro
Quella matta di Gennaro

In sostanza ed in conclusione
Fate bene l’osservazione
Fù salvato interamente
Il malvagio e il negligente

Protestanti e prepotenti
Ed ogni sorte di mal viventi
Ed i superstiti di morale
Perduta gente e capitale

Fù salvata a quel flagello
La famiglia di Gabriello
Al più sgarbo di montagna
Salvi i figli e la campagna

Dove sono quei fratelli
Tutti sotto a quei flagelli
Dove son le timorate
Fra le pietre ammassacrate

Dove sono quei Signori
Avvocati e Dottori
E signori e signorine
Tutti sotto alle rovine

Dove sono gli innocenti
Infantili e nascenti
Senza macchia e senza colpa
Frantumati ossa e polpa

Ho dovuto spiegar tutto
Per sfogarmi a questo lutto
E lasciar la storia dei flagelli
Ai nascenti confratelli

Metto termine miei cari
A questi lunghi pianti amari
E chi si offende alla presente
Si dichiara che è fallente

Conservate questa storia
Che sarà eterna memoria
E frattanto il mondo dura
Ci ricorda la sventura.

Di detta storia l’inventore è stato
Non sol terremotato anch’incendiato
La moglie e cinque figli e quanto aveva
Considerasse ognun come piangeva

La sua balzata fù a terzo piano
E pronto si trovò un paesano
E fù Filippo Incarnati il vicinato
Che lo salvò a non essere incendiato

Con mezza giacca lui fù restato
Che fù da certi travi contrastato
E senza scarpe e tutto scappellato
Piangeva come il primo disperato

Viveva in una buona condizione
Con la famiglia in gran consolazione
Si sprofondò il mondo in un istante
E lo ridusse ad una miseria grande

Aveva ogni sorte d’animali
Vaccine mule ed i grandi maiali
Si firma Aureli Angelo fu Biagio
Senza nessun sussidio e ne suffragio

Le sue domande fatte ad ogni parte
Respinte gli son state le sue carte
Ogni paese è stato sussidiato
Ed il Gioiese è stato abbandonato

Fu sussidiata qaulche vedovaccia
E certe concubin di mala faccia
L’agricoltor che regge tutto il Regno
Di un sussidio non è stato degno

L’Aureli è stato sempre agricoltore
E sempre ha lavorato a gran sudore
In mezzo alla miseria e la sventura
Lui deve seguitar l’agricoltura

Se ognuno avesse stato di coragio
Come l’Aureli Angelo fu Biagio
Da circa cento coppe e dissodate
Con le vaccine che ha r’acquistate

Per la cagion di terremoto e guerra
quasi tutta inculta questa terra
Perciò i prezzi sono esagerati
Per i terreni che stanno abbandonati

Coraggio lui vi dice miei Gioiesi
Che dalla terra vengono gli tornesi
L’Aureli ad ogni costo ve lo giura
Che la megl’arte è a far l’agricoltura

Ne chiede scusa a tutti miei Signori
Se numerosi sono i suoi errori
Si arrancia un pochettino non ce male
Ma lo studio suo non fu grammaticale

Conchiude il suo dir novellamente
Che troppo ci starebbe alla sua mente
Saluta tutti con la sua memoria
Distintamente chi legge la storia.

avezzano t2

t4

t3

avezzano t4

t5