Stando alle illazioni personali di alcuni studiosi dell’otto e novecento (1), si dovrebbero nutrire seri dubbi circa il nome e la patria d’origine di questo nostro illustre umanista e poeta; ma, in effetti, nessuno e riuscito a dimostrare che il soprannome « Epicuro Napoletano », quale appare nelle edizioni cinquecentesche della « Cecaria », costituisca una prova decisiva della sua nascita al di fuori della regione abruzzese. Anche Benedetto Croce, ad esempio, passa come « il filosofo napoletano », eppure tutti sanno o dovrebbero sapere che egli nacque in Abruzzo e precisamente nella Marsica.
E’ risaputo che, per una consuetudine seguita largamente in ogni luogo e in ogni tempo, figure di una certa notorietà vengono indicate spesso col nome del paese natio o con quello della regione da cui provengono o, infine, con quello del regno a cui appartengono. Si potrebbe fare un elenco interminabile di esempi. Non v’e, dunque, alcuna solida ragione d’invalidare tutta una tradizione di testi e manoscritti, risalente ai tempi del Nostro, dalla quale si desume facilmente che Antonio (o Marcantonio) dovette essere il suo nome di battesimo, che l’epiteto Marso o dei Marsi sta a indicare la sua patria d’origine (si vedano casi analoghi in questa stessa antologia), e che « Epicuro Napolitano » e una sorta di pseudonimo che si scelse da sé per motivi ideali (come fecero molti umanisti) o che fu dato da altri quando divenne celebre nella sua patria di adozione (2). Non si allontana forse dal vero Scipione Ammirato, anche lui letterato e umanista, quando scrive che Antonio « nella sua giovinezza più per esser lieto et sollazzevole che per non credere fu cognominato Epicuro (3).
Irrefutabile poi, a nostro parere, la precisazione del Quadrio, che dipende dall’Ammirato: « Antonio Epicuro, nato in un Castello d’Abruzzo, che per essere uomo sollazzevole fu chiamato Epicuro, e per esse, venuto giovine in Napoli, e quivi vissuto, si chiamò anche l’Epicuro Napolitano » (4). Accennando inoltre alle qualità fisiche morali del Nostro, il Quadrio ha l’opportunità di riferire, attingendo sempre alla stessa fonte, una notizia tanto strana quanto interessante: « … essendo egli uomo di fattezze assai bello, e oltre a ciò d’animo regio, non che nobile, soleva dire, motteggiando di se egli stesso, essere impossibile, ch’egli fosse nato d’uomo di basso affare; ma che stimava di fermo sua madre essersi impacciata con Virginio Orsino, di cui era vassallo; e cosi essere stato generato » (5). Non essendo controllabile questa notizia, si deve credere piuttosto che Antonio Marso ebbe oscuri natali anche per linea paterna, se e vero che, per far dimenticare il suo nome di origine contadinesca, si vide costretto a farsi chiamare l’« Epicuro napnletano », come vuole il Palmarini, o ad assumere il nuovo cognome Epicuro, come pensa il Percopo.
Che Antonio Marso provenisse da umilissima famiglia e confermato anche da un breve, recente studio di Giovanni Pagani, il quale, prendendo lo spunto da un passo del Corsignani e soprattutto facendo leva su alcuni documenti privati, ha creduto di poter portare nuova luce sulla vita del Nostro affermando tra l’altro: « Antonio Epicuro nacque in Avezzano… intorno all’anno 1472 da una famiglia di contadini a nome Pacchione, abitante nella contrada Vicenna, dove si trovavano alcune terre della chiesa collegiata di San Bartolomeo, date a coltivare alla stessa famiglia, per cui l’abate della Collegiata non dove essere estraneo all’educazione di Antonio, che fu avviato allo studio delle lettere, e dove trovare facilitata la strada per Napoli, capitale del Regno, per l’interessamento e l’aiuto della nobile famiglia Felli, alla quale il « Marso » dimostro devozione e gratitudine, come appare dal Corsignani. Tali notizie si apprendono da appunti scritti in un foglietto, conservato con altri tra vari manoscritti di don Giuseppe Lolli, di Mons. Luigi Colantoni e dell’avv. Francesco Lolli, in mio possesso. » (6)
Se fosse reperibile il « vecchio libro della Parrocchia », da cui furono tratti gli appunti di cui parla il Pagani, allora non potrebbe sussistere alcun dubbio circa il cognome e il paese d’origine di Antonio Marso; mancando la possibilità di una tale verifica, ci contenteremo di rivendicarne l’origine marsa, lasciando nell’incertezza l’indicazione del « castello » che, come scrisse il Corsignani (7), potrebbe essere quello di Avezzano o di Tagliacozzo o di altra città della Marsica. Un po’ vaghe e scarse sono anche le altre notizie che ci restano sulla vita di Antonio Marso. Sappiamo che, « venuto giovane in Napoli, insegno le lettere latine a Bernardino Rota, scolare degno di tanto maestro » (8). La fama di dotto umanista fu ben presto accompagnata da quella di gran poeta, come si rileva da un inequivocabile apprezzamento del Sannazaro che dice: « Ma a guisa di un bel sol fra tutti radia / Epicuro, che ’n sonar zampogne e cetere / Non troverebbe il pari in tutta Arcadia ».
Nel 1523 fece rappresentare un’opera drammatica dal titolo « Cecaria » o « Dialogo di tre ciechi », con la quale diede l’avvio al genere della tragicommedia. L’opera ottenne strepitoso successo per tutto il secolo. Segui subito dopo la « Luminaria » o « Illuminazione dei tre ciechi », che fu poi stampata sempre come un secondo Atto della prima opera. Ma un altro genere letterario trovo pure in lui l’iniziatore o, per lo meno, il perfezionatore. Dice infatti il Palmarini: « Ingegno nato per il nuovo, l’Epicuro pose in moda certi motti sentenziosi che esprimendo insieme ad allegorie figurate l’indole bellicose, letterarie ecc. o le imprese fatte da alcuno, furono dette « Imprese ». Molte dovette scriverne, ma più nota d’ogni altra altra fu quella dedicata all’imperatore Carlo V D’Asburgo, disceso in Italia ed entrato in Napoli nel 1535. I versi riuscirono senza dubbio molto graditi all’imperatore, se e vero che il nostro poeta gli divenne « molto caro » (9), al punto che poté indurlo a concedere l’onorificenza cavalleresca a Tiberio Felli, Nobile avezzanese e suo protettore d’un tempo.
Dal 1531 al 1538 fu incaricato di dirigere le Dogane nella provincia di Terra di Lavoro e del Molise. Intorno al 1545 scrisse un’altra opera teatrale intitolata « Mirzia », che defimì « favola boscareccia » e che segno un passo decisivo nella tradizione del dramma pastorale. E’ merito del P.almarini averla ritrovata nel 1887 in un manoscritto dell’epoca presso la Biblioteca Alessandrina di Roma, dov’era pervenuto con altre carte dall’Archivio della corte di Urbino. L’opera, pur essendo tecnicamente più pregevole, non ebbe la fortuna della « Ce”aria ». Un valido contributo alla fama del Nostro dette anche la sua ragguardevole produzione nel campo della poesia lirica, di cui ci restano dodici sonetti, cinque canzoni, quattro madrigali e tre capitoli, oltre ad una piccola raccolta di componimenti in latino, per lo più epigrammi. Antonio Marso mori nel 1555 a Napoli, dove aveva trascorso quasi tutta la sua vita, e fu sepolto nella Reale Chiesa di Santa Chiara. Sulla sua tomba il discepolo Bernardino Rota, anche lui poeta, fece incidere le seguenti parole: « Antonio Epicuro Musarum alumno Bernardinus Rota primis in annis posuit socio moritur octuagenarius unico sepulto filio. I nunc et diu vivere miser cura MDLV ».
Giudizi Critici
Luigi Settembrini:
« … Antonio Epicuro fu uno di quegli abruzzesi buoni, belli e pieni di versi che si fanno voler bene da tutti. Egli era figliuolo di poveri genitori, ma lieto e sollazzevole fu cognominato Epicuro; e fu detto ancora Caracciolo forse dal signore del suo paesello nativo o da un suo protettore. Antonio ebbe bella donna, bellissimi figliuoli, indole buona, e una beata vena di poesia, onde fu caro a molti signori napoletani e insegno lettere a Bernardino Rota. Non rimane di lui che una favola lirica, intitolata la « Cecheria », o « Dialogo di tre ciechi », a cui segue la « Luminaria », libro assai raro e dimenticato dai napoletani che poco si curano di molte cose. » (da « Lezioni di letteratura italiana », vol. II, cap. XLIX)
Benedetto Perotti:
« Il componimento più meritevole di essere ricordato in questa storia e la Cecaria di Antonio Epicuro, che può considerarsi come una spezie di pastorale, ed anche come il primo tentativo di cotal genere che ebbe origine nel sedicesimo secolo. » (Cinguene: « Storia della letteratura italiana », continuata e tradotta dal Perotti, Milano 1825)
Benedetto Croce:
« L’Epicuro fu una delle voci di siffatta letteratura amorosa e voluttuosa, che nell’Italia del Rinascimento, e non meno o forse più che altrove in Napoli, fiori ed ebbe nella prima generazione, maggiore fra tutti i suoi rappresentanti il Pontano, e nella nuova generazione un amico dell’Epicuro, Luigi Tansillo. E continuò anche nelle generazioni prossime seguenti, e diè la più ricca materia all’arte di Giovambattista Marino. Senonché il Marino e i suoi v’introdussero e vi portarono in primo piano il concettismo e altresì la coltivata « lascivia », come la chiamavano compiacendosene, o peggio ancora la non infrequente oscenità; e se spesso avevano vivi tocchi di colore, continua era la loro tensione e gonfiezza e indefesso il loro esercizio di contorsioni e prodezze ginnastiche, onde mancavano di grazia e riuscivano pesanti e freddi. Nell’Epicuro c’e ancora alcunché di semplice e d’ingenuo, come di chi veramente creda alla religione dell’amore; e questo lo rende amabile e caro; e nella sua arte c’e una temperanza nella intemperanza. Era un umanista e non un funambolo. »
NOTE
1) Palmarini, Percopo, Parente, le cui opere sono cit. nella Introduzione.
2) E’ importante notare che quasi tutte le edizioni cinquecentesche dell’opera che gli dette fama, prescntano questo titolo: « Dialogo di tre ciechi dell’Epicuro Napolitano ». Una ventina di quelle edizioni avvennero mentre era ancora in vita il poeta.
3) Cfr. « Opuscola », tomo II, pag. 260.
4) Cfr. « Della storia e della ragione d’ogni poesia », vol. II, pag.
5) Ibid.
6) Cfr. « Storia e leggenda » di Antonio Epicuro detto « Il Marso » (« Reg. Abruzzese » agosto 1966). 7) Cfr. « viris illustribus Marsorum », Roma, 1712. 8) Cfr. S. Ammirato, op. cit.
9) Cfr. Corsignani, op. cit.
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