Nato il 6 novembre 1902, a Celano, da una famiglia di modeste condizioni, Osvaldo Costanzi fece quasi tutto da se, prima abilitandosi all’insegnamento nelle scuole elementari e poi conseguendo la licenza liceale e la laurea in lettere.
Insegnņ italiano e latino al “Cotugno” dell’Aquila e italiano e storia al “Margherita di Savoia”, a Roma, dove mori il 29 giugno del 1956.
Non vasta, ma significativa la sua bibliografia.
Opere: Momenti dell’anima, poesie, Off. graf. Vecchioni 1920; Foscolo, grossa monografia di 235 pagg., Editrice “Ausonia”, Roma, 1940; Canto effimero, con lo pseudonimo Aldo de Costis, Casa Editrice Tariffi, Pistoia, 1941. Opuscoli: Considerazioni sull’insegnamento dell’aritmetica e della geometria nelle scuole elementari, Introduzione allo studio della storia, La trascendenza in Platone e Cartesio, Il canto XVII del Paradiso letto e commentato nella “Casa di Dante” in Roma 1’8 gennaio 1956, ma apparso postumo nella collana della “Lectura Dantis Romana” (Torino, S.E.I., 1964).
Saggi minori ma non meno interessanti sull’Alfieri, sul Leopardi, sul Manzoni e su altri, apparvero in varie riviste culturali di cui fu stimato collaboratore, quali ad es. la “Rassegna Nazionale”, l'”Osservatore Romano” e “Responsabilitą del Sapere”.
L’accurata elaborazione di alcune liriche di Canto effimero ci aveva fatto nascere il fondato sospetto che Osvaldo Costanzi avesse in precedenza gia fatto un qualche tirocinio nel verseggiare.
Ci rivolgemmo, anni addietro, alla gentile Consorte del poeta scomparso, pregandola di darci informazioni al riguardo; ma fu inutile, perché tra le vecchie carte e pubblicazioni non si trovo nulla.
Eppure noi continuammo a credere e a sperare.
Finalmente, allo scadere dei marzo ’71, in una raccolta miscellanea di opuscoli della Biblioteca Tommasiana dell’Aquila riuscimmo a scovare un suo quadernetto di poesie dal titolo Momenti dell’anima, pubblicato nel 1920.
Indescrivibile la nostra felice sorpresa.
L’opuscoletto e dedicato ai “cari genitori” e contiene dieci sonetti e cinque “poesie varie”, nel seguente ordine: Al sole, Notte, Amore,
Alla donna amata, Per confuse passioni …. Futuro, Il terremoto del 131-1915, Il secol mio…, All’Italia, Oreste (leggendo la tragedia dell’Alfieri), Alla mia donna, Anniversario della morte di un amico, Da Dio alla Patria, Alla liberta.
Sono una trentina di paginette in tutto, precedute da una breve prefazione, che dice testualmente: “Giovane diciottenne, dotato piu d’ardire che d’ingegno, pubblico questi miei primi versi aspettandomi piu biasimo che lode.
Faro tesoro dei consigli che, que’ pochi e benevoli lettori, se li avrņ, mi daranno con sinceritą.
Io non posso giudicare questi versi, ma debbo pur dire che sono sinceri, perché esprimono sentimenti ispiratimi dall’esempio dei miei genitori e dalla lettura degli uomini grandi e virtuosi.
Ringrazio qui, chi gia m’ha dato consigli giusti e spassionati, e che non nomino perché chi compie azioni virtuose non vuol essere palese”.
Il giovanissimo poeta e ancora in prevalenza preso, come si vedrą facilmente, dai suoi modelli letterari (da Dante al Petrarca, all’Alfieri, al Foscolo, al Leopardi), ma pure si sforza di esprimere, in un linguaggio tra arcaico e libresco, i suoi primi sinceri sentimenti per la donna, per la natura, per la patria.
Canto effimero, opera piu matura, contiene una quarantina di liriche, alcune delle quali risalgono alla giovinezza. Gia nella prima pagina, che da il titolo al libro, si avverte la presenza di un “pathos” straordinario, indice di una sensibilitą duramente provata e ferita che nell’arte vuole trovare il riscatto dal proprio dolore.
Leggiamola: “A che vale? L’effimero canto / del mio cuore si disperde nel vano / del1’aria e, forse, nessun’anima sorella / lo ascolta; si disperde lontano / e nessuno vi scorge il pianto / represso, il nascosto dolore. / Io sono come un uccello che trilla / solitario, nel cielo, la tristezza / per il nido distrutto, per la madre / dispersa, e soltanto 1’azzurro / lo sente quel suo disperato trillare”.
Ad una prima lettura, si ha l’impressione che si tratti solo dello sfogo di un’anima tardoromantica, come puņ far intendere 1’uso di accoppiamenti cari a certo Ottocento (cantopianto, cuore-dolore), di aggettivazioni un po’ trite (represse, distrutto, disperato) e 1’immagine finale dell’uccello solitario, di sapore leopardiano, nonché quella del nido distrutto, chiara reminiscenza pascoliana; ma, se si rilegge con piu attenzione, si scopre che c’e anche dell’esperienza vivamente sofferta, tensione liberatrice dei sentimenti, bisogno di intima purificazione.
Le composizioni migliori della raccolta non si discostano essenzialmente dalla prima lirica, la quale offre, per cosi dire, il perimetro ideale entro cui si muove l’ispirazione del Costanzi.
La sua, e una tematica semplice cosi come semplice e il suo eloquio. La natura non e da lui sentita nelle sue forze di bellezza e d’incanto, si invece come “un eterno rimpianto” e “un’amara nostalgia” (cfr. Rimpianto).
Il silenzio e la solitudine sono un rifugio sicuro dal “tiranno destino” e stimolo ad impegni sempre piu coraggiosi (cfr. Labor et perseverantia).
L’amore e come per lo stanco pellegrino il verde di un’oasi “che ai raggi del sole sorride / lontana”, oppure conforto alla malinconia “attorcigliata nel suo cuore”, o infine rifulgente gioia “per confortare 1’anima assetata / con un ultimo sorriso di bellezza” (cfr. A Liliana).
Il ritorno nella casa natia, tra le braccia della madre invecchiata, fa piangere “lacrime vane / rifugiati nel vano ricordo, / stretti nell’ora che fugge” (cfr. Ritorno).
La notturna visione di luci in “villaggi sparsi su per le montane / solitudini” dischiude il pensiero al mistero della morte (cfr. Luci lontane).
La fanciullezza viene rievocata non come una aurora splendente di promesse, ma come un “deserto spinoso”, tormentato da incubi che alle labbra tremanti strappavano la forza della preghiera (cfr. Pausa primitiva).
Un suono di ciaramelle, nell’alba decembrina, gli ricorda la sua casa “che piu non esiste”, la madre che devotamente “accendeva il suo cero” nella speranza che ai suoi figliuoli Gesu Cristo desse “piu calore e piu pane” (cfr. Ciaramelle). La purezza del canto e invocata a cullare 1’anima stanca / dal molto doproposito di trascurare 1’Ortis, e non tanto come Costanzi confessa nella Prefazione – per non “ripetere le stesse cose, dette dai numerosi critici del Foscolo, sui pregi, che pur molti ve ne sono, di quel romanzo”, quanto piuttosto – a me pare perché egli ne avrebbe “dovuto fare una critica negativa per la diversitą dello stile, per la poca omogeneitą delle parti e per altri difetti gia da altri notati”.
Altra lieve manchevolezza del lavoro mi sembra l’assoluto silenzio sul Foscolo tragico e traduttore, silenzio determinato dal convincimento che “ne 1’esame delle tragedie, ne quello della traduzione omerica avrebbero aggiunto nulla alla conoscenza della figura foscoliana”.
Orbene, se e vero che il Foscolo “non e tutto nell’Ortis”, che nelle tragedie “egli ricalco malamente le orme dell’Alfieri” e che nelle traduzioni “non riusci mai eccellente, talvolta anzi inferiore a se stesso, per l’incapacita di tutto trasferirsi nel poeta da tradurre”, e altrettanto vero che una ricostruzione integrale del mosaico spirituale e artistico di uno scrittore si puo ottenere solo con una giustapposizione di tutti gli elementi della sua vita e della sua arte, anche di quelli apparentemente poco o punto significanti.
Questo, almeno, mi sembra il principio piu durevolmente acquisito dalla critica neo-storicistica degli ultimi anni, che tende ad una visione ideale unitaria dell’opera d’arte pur nella sua varia molteplice concretezza, piu che ad una compenetrazione e fusione delle parti genuine (poesia), discriminante arbitrariamente dai cosiddetti “elementi allotri” (non poesia).
Non so se il Costanzi, quando manifestava ai suoi amici il proposito di rielaborare il suo saggio, intendesse di volerlo fare tenendo in considerazione queste “scoperte” della critica post-crociana.
Certo e che crociano, in senso stretto, egli non fu mai, a ben considerare 1’impostazione generale del suo lavoro, e, in particolare, certe sue,affermazioni a proposito dell’estetica foscoliana, fra le quali spicca la seguente per la sua coraggiosa polemicita: “L’idea che la poesia non possa essere disgiunta da un fine morale, potrą far ridere qualche critico contemporaneo che riduce la poesia a pura intuizione, ma non solo non bisogna dimenticare i tempi in cui il Foscolo scriveva e la natura di chi scriveva, ma e problema, secondo me, ancora oggi discutibile; e non si puo troppo facilmente negare un fine etico alla poesia”.
Coraggiosa polemicitą, ho detto e lo ripeto; perché in essa e evidente la allusione a colui che, per un cinquantennio circa, ha esercitato con le sue idee come qualcuno ha detto recentemente – una vera e propria dittatura sull’estetica combattendo aspramente, col supremo magistero della sua parola, la diffusione dei sistemi di pensiero che non si conciliassero con il suo.
Ebbene, il solo aver osato di dire una parola nuova contro una siffatta “dittatura” col porre un giusto accento sulla necessiti di un diretto rapporto tra Pathos ed ethos nella creazione poetica, e per me un merito grandissimo di Osvaldo Costanzi, poeta e critico.
Altro ancora si potrebbe dire di questo illustre Celanese, per lumeggiare almeno fugacemente i pregi di un altro suo saggio, breve ma ponderato, sull’Alfieri minore, edito anch’esso dalla “Ausonia” di Roma, e di numerose pagine di varia cultura che, per un lungo arco di tempo, egli andņ pubblicando sulla “Rassegna Nazionale”, sull'”Osservatore Romano” e sulla rivista “Responsabilitą del Sapere”.
Ma, poiché lo spazio occupato e gia strabocchevole, mi piace qui riferire a mo’ di conclusione, il giudizio autorevole di Giovanni Pischedda, allora docente di Lingua e di Letteratura italiana presso l’Universitą dell’Aquila: “E stato – mi scrisse del Costanzi, il caro amico, scomparso recentemente il mio primo e vero Maestro, avendo egli insegnato italiano al Liceo dell’Aquila quando frequentavo nell’ormai lontano 1935 quella scuola.
Notai subito in Lui lo straordinario fervore, la singolare umanitą e lo squisito buon gusto. E la Sua cordialitą non generica, ma viva e pensosa, non potrņ mai dimenticarla”. Fervore, umanitą, buon gusto, cordialitą: apprezzamento pił elevato credo non si possa esprimere, per esaltare debitamente le virtł e l’opera di Osvaldo Costanzi, uomo e scrittore.
Pagina scelta: da Momenti dell’Anima
Per confuse passioni
Per confuse passioni e per l’amore,
Stan sempre in lotta l’anima e la mente,
Ora vivo contento ora il dolore
Mi travaglia lo spirto crudelmente.
Ora trascorro solingo tutte l’ore
Di che e composto il giorno, or tra la gente
Parlo, ragiono, or freddo, or con fervore
Ed or fo’ compagnia tacitamente.
A volte veglio mentre il mondo dorme;
Ora del vizio or di virtude premo
Le sempre ingannatrici e caduch’orme.
I n terribil cosi contrasti, gemo
E seguo dei pensier le varie torme
E fra tante passioni vivo e fremo.
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