Arte e cultura della Marsica

Romolo Liberale č nato il 1 febbraio 1922 in S. Benedetto dei Marsi. Autodidatta. Prima di impegnarsi totalmente nell’attivitą politica, impegno che risale al periodo dell’occupazione nazista e per il quale pił volte č stato arrestato e processato, ha fatto il contadino nel Fucino e l’operaio in una officina di Roma. Da alcuni anni vive e lavora ad Avezzano svolgendo attivitą politico-sindacale, di cui considera fatto essenziale la componente culturale. Collabora a vari giornali e riviste.
Ha pubblicato: ” Ce vo ne munne gnove “, Tip. Polla, Avezzano, 1952; ” Parole all’uomo “, editrice Convivio Letterario, Milano, 1963; ” Parabole “, editrice Eirene, Avezzano, 1971.

Opere inedite: ” Racconti “, ” Fucino mio paese ” (liriche). Ha conseguito i seguenti riconoscimenti: 1′ segnalato per l’Abruzzo al Premio Cattolica 1952, per ” La sciagura della galleria “; Premio ” Ascanio da Tagliacozzo ” 1959, per il racconto ” Mbecate “,’ 1′ Premio Marina di Massa 1966, per la ” Ode ai 33 di Capistrello “,3′ Premio Marina di Massa 1967, per la lirica ” Mio fratello negro “, Premio Marina di Massa 1969, per la lirica ” Come prega un cristiano povero “.

Giudizi critici

Amato Amans: ” Il poeta sa trasfigurare il pił crudele fatto di cronaca in vera poesia, spesso raggiungendo note di una commossa umanitą ” (” La Procellaria “, Reggio Calabria, aprile giugno 1964). Alceste Santini: ” Dalla lettura attenta delle sue poesie una cosa rimane inconfondibile: il suo sentimento sincero e parco, senza effusioni, senza retorica “.
Annibale Luigi Corvi: ” La lirica del Liberale, superando l’angoscia dei limiti spaziali e temporali donde trae i suoi spunti, subito si dilata e con un colpo d’ala balza su un piano di universalitą, che č il piano naturale della poesia. “

Filippo Fichera: ” I suoi canti sono squilli di schietta poesia. Sembrano scaturiti improvvisi da una fornace di puro metallo incandescente. “
Romolo Liberale

DA ” PAROLE ALL’UOMO “

Ode ai 33 di Capistrello
I
Salivano sui monti conosciuti
come salgono i pensieri nel tempo
come salgono le parole dei poeti
e salgono le preghiere dei fedeli
e salgono i sentimenti dei puri.

Salivano sui monti conosciuti
come salgono le rondini nel cielo
come salgono le cime degli alberi
e salgono i canti nella notte
e salgono le pene dei poveri.

Salivano, salivano, salivano
come sale l’implorazione dei deboli
e sale il grido degli eroi
come sale l’affetto delle mamme
e sale la speranza degli umili.

Ogni giorno salivano,
salivano come il canto del gallo all’alba
come le note di un concerto
come l’amicizia degli uomini
che vanno incontro allo stesso destino.

Ogni giorno salivano, salivano,
salivano sui monti conosciuti.

II

Conoscevano ogni filo d’erba
ogni sasso e ogni sentiero.
Conoscevano il caldo dell’estate
e il vento che si alzava leggero
quando la notte calava sui monti
e si accendevano piccoli fuochi.

Conoscevano il nome d’ognuno
e il richiamo dei muli vaganti
e il tenero belato dell’agnello
e il trotto del cavallo sbrigliato
e il muggito delle docili mucche.

Il bianco del latte fresco
della lana e della notte di stelle,
della loro innocenza e dei primi biancospini
e il fruscio dei castagni
e l’ombra delle rocce pallide
erano il loro mondo chiuso
all’odio sofferto dal tempo.

Avevano nelle mani e nel volto
i segni del loro mondo nudo
e portavano nell’anima le speranze
nate dalla fatica e dal sudore
che si consumano serene
nelle ore lunghe del giorno
e nelle ore stanche del riposo.

III

Vennero i giorni della primavera.
Il Liri si copri d’allegria
cantņ ai colori delle pratelline
andņ a piangere sui seminati.
Nella valle fiorirono i ciliegi
e il grano si fece alto.

I campi non furono pił tristi
quando sopra vi sbocciarono gentili
i fiori portati dal maggio.
Nessuno parlņ di morte
tra le spine dei rossi lamponi.
Ma la morte era in ogni pietra
in ogni filo d’erba e in ogni foglia.
La morte vagava per le rive del fiume,
negli occhi delle bestie inquiete
ed era nel taglio affilato della scure.

La morte era nell’odio tra gli uomini
veniva dai motori del cielo
e dalle armi infuocate di Cassino.
Ed era nascosta nel cuore dell’uomo
che ha visto sangue senza piangere
che non ha pianto quando ha visto morire
che non ha chiesto la luce della luna
sul lamento soffocato degli insepolti.

La morte, la morte, la morte!
Era il tempo che finiva
rompendo la catena delle ore.

IV

Quando iniziarono a scavare la fossa
tacque il mormorio del ruscello.
Una nube sali nel cielo a nascondere col suo nero di lutto
la rosa calda del sole.

Anche la lucertola fuggi lontano
e la lepre spaventata
e l’odore dei bianchi sambuchi.
Solo la vipera alzņ la testa
immobile sulla terra calda.

Le mani strinsero le mani.
Le parole e il pianto
narrarono di sogni incompiuti
e degli occhi delle madri
e del bacio dei figli e delle spose.
E l’ultimo pensiero andņ lontano,
ai focolari spenti e alla terra arata,
alle spighe ancora verdi
e ai giorni del domani,
ai canti che si spegnevano in pieno giorno
e al volto degli amici,
a se stessi che salivano il Calvario
e a noi a noi che siamo rimasti
a cogliere i frutti della stagione
nata dal loro martirio.

V

Erano trentatré come gli anni di Cristo
che si consumano nelle ultime ore
dello spasimo, dell’agonia e della morte.
Non li chiamavano per nome
perché erano li senza colpa.
Un cenno, una spinta, un urlo
e la morte li coglieva alle spalle
unendo il gemito di chi andava
all’angoscia di chi attendeva.

La fossa si fece bara di morte
nel tiepido meriggio di giugno.
Noch ein! Noch ein! Noch ein! “
E un colpo dopo l’altro
rompeva il grido del sangue vivo
e il sangue si fondeva insieme
nella coppa umida della terra.

Quando il silenzio raccolse dai pendii
l’ultimo colpo e l’ultimo grido
lontano, oltre la malinconia dei roveti,
un requiem si scaldava al lume dei casolari
e gli uomini attendevano il mattino.

LA RANOCCHIARA

Ricordo solo che cantava
con una rosa rossa tra i capelli
e che la sua canzone,
rubata dal vento,
si perdeva tra i rami del pioppeto.

Ricordo il colore della sua pelle
macchiata dai succhi del trifoglio
quando veniva l’ora dell’amore
e la sua bocca inquieta
diventava fuoco.

Ma non ricordo il suo nome!
I giovani del villaggio
la chiamavano ranocchiara
quando scendeva nelle cinte del Fucino
e la sua gonnella scarlatta
si alzava leggera sull’acqua.

E quando l’ultimo caldo di settembre
ci portava sotto i pioppi giganti
nel suo corpo sentivo
l’odore del fiume
e quieto mi addormentavo sull’erba
accarezzando le sue perle vive
che accese nel suo petto
sfidavano la luce della luna piena.

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