Per chi ci č nato, non possono esserci motivi particolari di attaccamento alla propria terra. Vi č nato e basta: č detto tutto e per tutti, perché a tutti lo conferma la propria esperienza. In quelli che poi, per motivi di lavoro, dovettero lasciarla, alla causa primordiale d’amore naturalmente se ne aggiungono altre. La nostalgia consiste in questo: questa malattia, dai caratteri dolci e struggenti, i miei conterranei, cosģ numerosi come emigranti, la conoscono bene e quanti sono quelli che l’hanno vissuta una vita intera, l’hanno sentita diventare pungente a poco a poco sempre di pił, e si sono sentiti felici alla fine, alla fine dei propri anni, quando, col sudato gruzzolo, sono tornati nella terra natale solo per morirvi, per morirvi perņ guariti, guariti dalla nostalgia! Ricordo (non č cosa di molti anni fa) il contadino di Cappadocia, tornato vecchio al nido natio, spirato sulle pietre della piazza del paese, mentre, appena sceso dalla corriera, salutava i primi parenti ed amici. Chi puņ dire il sentimento che accompagnava l’anima del poverino nell’attimo in cui lasciava il corpo per librarsi finalmente nella libertą degli spazi immensi!?

Quanti sono veramente i misteri che corrono tra la terra ed il cielo! In ogni modo, nella vita di chiunque, č un sentimento sempre nobile l’attaccamento alla propria terra e chi lo trasforma, di volta in volta, in opere, azioni, che la onorano, la fanno crescere in prosperitą, ordine, bellezza, la propria vita nobilita, in qualche modo la propria vita eterna nel ricordo dei propri cari, dei propri amici, nel ricordo di quanti in quel buon operare hanno trovato un qualche personale profitto.

Pił bello č poi l’amore di cui parlo se non č legato a grandi cose, a gesti che scuotono la curiositą delle grandi folle: ritrovare l’amore alla propria terra perché esso coincide con un dolore che non ci lascia mai, č una bellezza che non si puņ dire, ma certamente č profonda e non la corrode il tempo: ritrovare lo stesso amore in un’amicizia che abbiamo apprezzato quando ci legava ad una persona viva, ma pił ci lega ad essa ora che non č pił tra noi, ci porta a sfiorare altezze morali che dąnno un senso all’esistenza stessa; ne fugano la nebbia, la noia, la santificano.

Fatti di questo genere, nel labirinto della mia memoria, ce n’č pił d’uno, e ne godo: la mia memoria li conserva gelosamente, mentre scansa, e rifiuta addirittura di ritenere le pił varie e pił stolte insolenze del nostro tempo,
Tra i fatti di cui ho accennato c’č Umberto Sclocchi: un ricordo colmo d’umiltą, libero d’ogni peso materiale, appena collocato nella cornice d’una semplice camera, che gli faceva da dormitorio, da studio, da ricevimento: fredda dapprima, nei giorni in cui inizialmente lo conobbi, riscaldata poi, ma anche a fatica, dalla poesia: dal ricavato dalla vendita della prima edizione delle sue poesie.

Devo raccontare come venni in contatto con lui. Umberto era nato a Pescina il 26 agosto del 1927; dopo le elementari credo che la famiglia si trasferisse a San Benedetto dei Marsi, per un impiego che suo padre ebbe presso quel Comune. San Benedetto dei Marsi, la cittadina ripuaria del Fucino, divenne cosģ la sua vera patria: vi giunse quando gli anni giovani cominciavano appena a schiudersi alle sensazioni pił vive e pił valide: amicizie, conoscenze, piccoli episodi di vita paesana, speranze, desideri, aspirazioni, e quanto rimase vivo nella sua coscienza nei lunghi anni dell’infermitą, sempre naturalmente rimase legato allo sfondo di San Benedetto, ed i pił vasti interessi, nei limiti in cui li coltivņ, vuoi di carattere sociale, vuoi comunque di gruppo, furono gli interessi della cittadina, caduti di riflesso su di lui.

Dopo la guerra non poté non interessarsi a quanto accadeva nella vasta plaga agricola del Fucino: Torlonia, dunque, andava via: la terra veniva assegnata ai suoi diretti coltivatori. Per realizzare la vasta trasformazione ad Avezzano veniva istituito l’Ente Fucķno. L’Ente naturalmente lavorava con diramazioni varie ed il giovane Umberto vi trovņ una sistemazione come commesso.
Il 5 settembre del 1954, mentre tornava in paese sulla sua motoretta, cadde e lģ per lģ pareva che non fosse accaduto niente o niente di eccezionale: nel corpo steso a terra non correvano segni di dolore particolare. Invece una vita stava lģ stroncata per sempre, rotto, quel corpo, nella sua spina dorsale.
Cominciņ la via crucis degli ospedali, lo sforzo d’inseguire a tutti i costi una speranza, finché il tempo impose le sue ragioni, e cominciņ lentamente la rassegnazione.

Davanti ad Umberto, perennemente disteso nel lettino, si pose il lento scorrere dell’esistenza; le brevi parentesi dell’uso della sedia a rotelle: l’affacciarsi raro, raro soprattutto nell’inverno, all’uscio di casa; uno sguardo all’aperto, il saluto ad un amico, le frequenti visite degli amici. Malato, seppe conservare amicizie e rapporti vari: si fece a poco a poco una piccola biblioteca, poi venne la compagnia della radio e poi della televisione.
Ma i giorni non passavano senza lasciare traccia. Nella mente e nel cuore cominciņ il lavorio insistente della riflessione, il tentativo di conoscere chi siamo e che cosa siamo, e via via le conclusioni malinconiche lasciavano il posto al nuovo sentimento che cominciava a premere dentro ed a sentire il bisogno di venire alla luce.

Non posso ricordare il giorno in cui ricevetti la sua prima lettera. Mi raccontava la sua vicenda, allegava una poesia che era tale in un senso e non lo era per altre ragioni. Andai a conoscerlo. L’impressione che ricevetti č quella cui ho accennato all’inizio: una memoria visiva che ancora oggi mi pone davanti un’immagine che riassume un giovane disteso in un letto, in un ambiente modesto ma lindo, con alcuni amici che gli tenevano compagnia. Gli amici, quando io entrai, si alzarono, salutarono Umberto, mi salutarono e ci lasciarono soli. Ora accanto ad Umberto c’era anche la sorella Luisa, la creatura dolce e rassegnata, che aveva lasciato la vita religiosa,
per assistere notte e giorno il fratello infermo.

La nostra prima conversazione fu subito disinvolta e fraterna. Parlammo di tante cose, importanti e non importanti, tanto per conoscerci, per smetterla subito di sentirci degli estranei. Il discorso giunse alla poesia e candidamente mi chiese come si scrivono le poesie. Nella sua mente c’era la convinzione
che io, come insegnante, sapessi anche come si scrivono le poesie. Continuammo a parlare, facendo una certa confusione, ma alla fine, sforzandoci entrambi a cancellare di qua ed a riscrivere di lą, venne fuori
« Il Pallone »:

Branchi di monelli,
creature rumorose, volti
gioiosi della scuola alla
libera uscita! Sulla pista
stradaiola, capelli al vento,
dagli dietro al pallone!
Con essi č il mio cuore e
il ricordo d’anni lontani,
quando, sano, della folla fui idolo anch’io!

Riflessi e gli chiesi: ti ci senti in queste parole? Il quadro dei ragazzi che giocano fuori la scuola lo vedi? Ti viene la voglia di correre con quel dągli dietro al pallone? Cosģ ami i ragazzi, ti ritrovi in essi? Mi rispose con un lento sģ ed un lento tremito delle labbra e dava segni di rendersi conto che il suo compito sarebbe consistito, d’ora in avanti, solo nel trovare le parole, e che per il resto la poesia ce l’aveva dentro. Una poesia legata al susseguirsi delle stagioni: ed il susseguirsi sempre punteggiato da una osservazione significativa:

Si scioglie la neve
nella mia valle,
nell’aria si sente
il respiro della primavera;
avanza lenta con passi
di colori e profumi.
Torna la rondine
sotto il vecchio tetto e si dispera;
il nido
lo ruppero con fionde
i fanciulli
per gioco.

Quanto valore superiore assume quella disperazione della rondine, cui, per gioco, i fanciulli ruppero il nido. I fanciulli i piccoli dčķ capricciosi e violenti, emblemi del fato capriccioso e distruttore. Nella meditazione e nella rassegnazione non poteva essere assente il senso religioso ed il malato che vedeva lontano l’ultimo bagliore del sole, ascoltava dalla torre campanaria l’Angelus, e dal cuore gli nasceva la preghiera « che sola m’aiuta
a sopportare / la vita ». Cominciano a mordere i ricordi, accompagnati al rimpianto, e non credo che il lettore abbia bisogno di parole per intendere certo profondo struggimento:

Poter tornare indietro,
di nuovo arrampicarmi
sulle falde del monte
alla sorgente del fiume!

oppure:

Oh, dissetami con l’eco
dei ricordi,
Fontevecchia!

E Fontevecchia appare in mezzo alla verzura, che si fa sempre pił bruna per l’incalzare della sera. E il poeta ricorda:

Maestose in processione
avanzavano le fanciulle del Fucino
con l’anfore in capo.
Qualcuna sfuggiva sotto i platani …

E viene il rķmpianto:

Oh Fonteveccbia,
perché tanto tempo
č passato?

E il lettore nota quanta differenza corre tra una mente che si limita a constatare (si chiede come mai sia passato tanto tempo) un fatto, ed un’altra che vuol saperne la ragione: la ragione dei tanti misteri che corrono tra la terra ed il cielo, e tra questi, non menzionata mai, la sventura stessa del poeta. E si renda conto il lettore di quanta trepida tenerezza si colma il sentimento del poeta, quando tra i ricordi affiora quello della madre: tenerezza, ma anche pudore, candore, santitą, venerazione, e che stretta drammatica nel rapporto tra madre povera e figlio infermo! Nemmeno il Pascoli ebbe note cosģ delicate; non le ebbe cosģ realistiche:

Da che la vita
mi respinge,
dal cielo, madre mia,
pił vicina ti sento.
Al mattino,
come era tuo costume,
mi saluti con tacito cenno,
e dall’angoscia nera
le strade mi sgombri!
A mezzodģ,
quando miracolosamente
ritrovo una minestra,
te rivedo
nella dolce sorella
che me l’offre.
La sera,
tra il crepuscolo dei monti.
nella prima stella ti rivedo,
e nella tenue brezza
che mi soffia in fronte
il tuo bacio distinguo,
che ancor mi dice:
Buona notte!

Ma errerebbe chi credesse assente nella poesia di Umberto Sclocchi i dolori degli altri e la giusta comprensione. La poesia La Bettola, in questo senso, č un bozzetto ed uno scorcio di vita fortemente incisivi: la bettola sta all’insegna del Morrone, sulla strada principale; all’intorno c’č odore di stallatico e di concime; irsuti, stanchi, vi sostano i bifolchi:

A breve distanza mi osservano
ed io li osservo:
di chi č pił grama la vita?
Poi uno di essi
alla mia direzione
leva il bicchiere
e da lontano grida:
Non prendertela!
Infame č per tutti …
Gli altri assentono
col dondolio lieve
dei capi.

In altri momenti la comprensione dei sacrifici altrui č pił serena: come nella preghiera del contadino, identificata col suo lavoro, quando si rende conto che č duro sfamare per dodici mesi cinque bocche:

Pure questo sereno cielo questa
infinita pace sempre nuovo
ardore infondono ad affondar
la vanga fra zolle nere al caldo del sole.

Il trenino della mia valle, tra i tanti versi che ricordano la fatica comune, č un piccolo gioiello a sé:

tuf tuf del trenino
nella lunga valle …
le bietole sono il suo carico;
se arranca,
se sbuffa,
se lacera col fischio
la volta del cielo
non penso a immagini poetiche:
penso al fratello contadino!

E cosģ, mentre il non comune sodalizio tra Umberto Sclocchi e me col trascorrere del tempo si consolidava con la corrispondenza e con le visite che di tanto in tanto mi riusciva di fargli, anche i frutti del sodalizio stesso si moltiplicavano, sģ che ad un certo momento mi ritrovai tra mani un bel grappolo di componimenti poetici. Umberto cominciņ (non lo diceva, ma a me non poteva sfuggire il legittimo desiderio) a sperare ch’io da un momento all’altro prendessi una decisione; ed io cominciai contemporaneamente a far qualche progetto.

Innanzi tutto lessi le poesie ai miei alunni del liceo classico; ad una classe seconda liceale proposi di prendere l’iniziativa, scegliendo le poesie, raccogliendo prenotazioni fra probabili futuri lettori, tenersi pronti per la correzione delle bozze e poi per la distribuzione del volume. Nel frattempo io avevo preso i contatti con l’editore Loffredo di Napoli, col quale ero in rapporti: l’editore s’offrģ di contribuire col mettere a disposizione la carta a prezzo di costo e assicurando un consistente sconto sulla stampa. Ci fissņ, stabilito che il volumetto si sarebbe aggirato sulle ottanta pagine, il prezzo definitivo per mille copie. con gli alunni fissammo il prezzo di vendita a lire mille il volume, sģ che, calcolando 1Incasso di un milione, detratte le spese per la stampa, all’autore sarebbe pervenuto un guadagno pari al costo… del modesto impianto di riscaldamento tanto necesssarķo alla sua abitazione.

Era la primavera del 1969: quella splendida seconda liceo fece tutto con un entusiasmo gentile e goliardico e certo fu un pomeriggio particolare quello in cui Umberto vide giungere nella sua casetta di San Benedetto i miei ragazzi sventolando (faccio per dire) l’assegno, prodotto d’una fatica poco o punto comune, poco o punto popolare e che tuttavia, devo aggiungere, aveva incontrato tra gli studenti e altra gente molta pił comprensione di quanto mi aspettassi.

Fu un successo. Non alludo alla critica (quando mai! … ), alla gloria mondana, alludo al consenso dei mille lettori a quella poesia semplice, valida perché nasceva dalle radicķ stesse dell’esģstenza. Silone la defini poesia esile: mi dispiace per il famoso conterraneo, ma non usņ l’aggettivo giusto. La poesia di Umberto Sclocchi č il contrario d’una poesia esile: tutt’al pił casta, pudica, desiderosa di nascondere la profonditą del dolore (tuttavia cosģ evidente) e per questo poesia forte, consolatrice e poesia vera anche per quel non insistere su un tema solo, sfiorarlo al pił e lasciare poi alla comprensione dei lettori, alla loro fantasia, il resto. Non č poesia esile questa che legittimamente puņ dire:

Ma sono
di quella strana razza
che resiste ai colpi,
solo avendo pietą
di se stessa … !

Parole come queste, sulla punta della penna di taluni maniaci, certo sono retorica, suonano a vuoto lontano assai, ma chi le colloca nella prospettiva che giustamente le riguarda, sente che non sono vuoto suono, riflettono il senso originario per cui nacquero, dicono una veritą, ristabiliscono un ordine.
Il collega professor Angelo Melchiorre volle spiegare, in un conciso articolo pubblicato sul Tempo del 12-4-69 i motivi per cui tanto lo aveva colpito l’iniziativa degli alunni del Liceo « Torlonia ». « Mi č parso », egli scrisse, « la miglior forma di contestazione o di protesta nei confronti di una societą che spesso dimentica o disprezza la poesia e le cose belle, o che trascura e mostra piena indifferenza della infelicitą e della solitudine; (il gesto dei giovani studenti) ha smentito il concetto che io avevo dei giovani d’oggi, che cioč fossero incapaci di saper distinguere ciņ che č vero, bello e buono, da ciņ che č falso, brutto e volgare.

I giovani del << Torlonia >> infatti hanno saputo apprezzare e, vorrei dire, scoprire un fiore di poesia semplice, chiara, veramente immediata e sincera in mezzo alla congerie di versacci, versetti e versucoli che da troppo tempo ci stanno sommergendo e soffocando; ha fatto sentire a me ed alle mie alunne, alle quali ho letto in classe alcune poesie dello Sclocchi, il valore della solidarietą e il significato profondo del dolore in chi da esso parte per dare un senso a tutta la sua vita; č servito pił di qualsiasi lezione e di qualsiasi esortazione. Vorrei veramente che tanta gente leggesse le poesie di Umberto Sclocchi, non solo per il giusto riconoscimento che si deve alla poesia quando essa č tale, ma anche per far sģ che si realizzi l’augurio che gli stessi studenti editori hanno formulato nella presentazione del libro: ch’esso possa andare lontano, non certo per desiderio di successo, ma perché possa ripetere al maggior numero possibile di lettori l’esortazione che essi credono d’aver raccolta da queste pagine, persuasiva e mite, che vivere si deve anche nel dolore ».

Seguirono riconoscimenti in vari concorsi, poi giunse il premio della cultura da parte della Segreteria della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Nel febbraio del 1973, l’iniziativa degli studenti del liceo classico di Avezzano fu ripresa da un gruppo di Insegnanti elementari di San Benedetto ed il volumetto uscģ in seconda edizione per l’Editrice Eirene. In una serata ufficiale esso fu presentato al pubblico di Avezzano nel teatrino di Don Orione. Umberto Sclocchi fu presente nella sua sedia a rotelle e non credeva a se stesso.
Fu questa forse la sua ultima gioia. La salute riprese a peggiorare. Nei primi giorni del gennaio del 1976 fu ricoverato nell’Ospedale di Pescina. Appena lo seppi andai a trovarlo. Era una mattina fredda, ma col cielo limpido e sereno. Lo trovai in una stanza discretamente accogliente, assistito amorosamente da medici e personale di quell’Ospedale.

Ma egli non si faceva pił illusioni; sentiva che il grande viaggio s’era iniziato e quando, rimasti soli, mi fece cenno di sedermi vicino a lui, ed io mi sedetti vicino e presi tra le mie una sua mano, raccolse le sue forze, parve aggrapparsi alle mie mani con la mano che stringevo tra le mie, sorrise e infine mi disse: fą che qualcuno si ricordi di me. Povero Umberto! Morģ il giorno 8 di gennaio, qualche giorno dopo la mia visita, e non in Ospedale. Sera fatto riportare a casa. San Benedetto onorņ le esequie del suo caro figlio adottivo con una partecipazione piena e profondamente commovente. Durante la Messa funebre, l’insegnante Ivana De Nicola lesse, con una bravura pari solo alla profonda emozione, alcune liriche di Umberto e la folla che gremiva la chiesa, la moltitudine contadina di San Benedetto, non si rendeva conto se stesse lģ pił ad onorare un santo o un poeta. Il corteo sostņ per un ultimo saluto attorno ad una Croce che sta proprio al centro della strada su cui si trovava la casa di Umberto. Nascosto tra la folla posai gli occhi ancora una volta sulla finestra che dava luce alla stanza dell’infermo e mentalmente ricordai:

Dentro la solitaria stanza
vagano senza posa i sogni,
come branchi di cavalli
allo stato brado.
Superbi corsieri di razza,
nei verdi sentieri
dei liberi pascoli del cielo
galoppano da padroni incontrastati
con impetuosa foga
e carica selvaggia,
rovinano in neri baratri
da dove riaffiorano ed emergono
e svaniscono nel nulla,
come bolle di sapone.