Comune di Scurcola Marsicana

Entrare nell’abitato non potrebbe essere più suggestivo per il raccoglimento che ispira la Chiesa di S. Egidio, con accoste alcune acacie. Sulla facciata rugosa spiccano il portale romanico-ogivale e il rosone sfilizzato che ricorda, nella imbastitura crocifera, il giglio dì Francia. Molti i particolari stilistici e costruttivi che la ricollegano a quello dell’Abbazia di Casamari. La chiesa venne ad erigersi su di un manufatto inferiore, come è dato rilevare dagli archi sottostanti, tanto che il piano strada doveva essere, in epoca anteriore, sicuramente più basso di quello attuale. Il restauro, ben condotto, ha preso in considerazione gli elementi originari conventuali, improntati a sobrietà esecutiva e li ha valorizzati rintracciandone i materiali pietra per pietra, in modo che il ripristino avvenisse fedelmente e tale da ridare la primitiva fabbrica; sicché la piccola chiesa, proprio per l’estrema semplicità architetturale, non fa che riprodurre o per lo meno ricordare la parca vita condotta dai Carmelitani; i quali, più portati a viaggiare che non a fissarsi stabilmente, accoglievano in forme grevi ed essenziali i caratteri costruttivi mutuati, in maniera più o meno latente, dai canoni francescani, quasi sempre schematizzati secondo criteri di economicità nei materiali e nelle soluzioni stilistiche.

Resta il rimpianto dì non avere sott’occhio il convento annesso alla chiesa superstite, nonché quello esemplato nelle forme ‘cappuccine’ di Santa Maria del Colle; un accostamento che avrebbe consentito agli studiosi di stabilire interessanti raffronti fra le modalità edificatorie dei seguaci dell’Assisiate e quellì del Carmelo. L’esistenza dì grandi cisterne, nello spiazzo adiacente, avvalorerebbe l’ipotesi che esse fossero ricavate da antiche latomie, probabilmente scavate per trarne blocchi da costruzione. L’interno appare semplice, quasi spoglio, con altare centrale e due laterali, pregevoli nella dinamicità di alcune lesene, e con armonici timpani; mentre più articolato si presenta quello centrale, inframmezzato in due colonne scannellate, e il soprastante timpano interrotto da lunetta quadrangolare, con santo benedicente. Interessanti particolari si possono notare, sotto l’aspetto scultoreo, negli elmi alla base delle colonne, che inducono ad un qualche collegamento di marca storico-guerriera (la battaglia dei Campi Palentini?). L’insieme vive della semplicità che proviene dalla copertura in legno, e perciò distingue un’immagine concreta di ciò che doveva essere la chiesa nel suo primo periodo conventuale.

Da rimarcare altresì la finestrella monofora, sulla destra, di una gentile eleganza, elemento costruttivo certamente attribuibile alla fabbrica più antica. Di contro alla parca compostezza della Chiesa di Sant’Egidio, quella della SS. Trinità si presenta con un impianto di certo imponente e meglio coordinato con i tempi e le soluzioni compositive del secolo XVI. Eretta in collegiata nel 1585, con aggregati beni e rendite, la chiesa poté godere della munificenza dei notabili cittadini, primi fra tutti quelli della famiglia Bontempi. La facciata, ampia e ben strutturata, e a cui non è estranea la misura del codice espressivo tardo-classico ispirato alle regole dell’Alberti, si incardina su tre timpani, quello superiore, l’altro immediatamente al di sopra della porta principale e l’ultimo sull’entrata laterale. La ripetizione del motivo è in perfetta sintesi col disegno dell’íntero complesso, volto com’è in direzione di una cuspide triangolare immaginaria.

La ripartizione delle appena accennate lesene con falsi capitelli, ne frena l’ascesa, mentre la piccola facciata della Confraternita del Santo Sacramento, a destra di chi guarda, non si appalesa come inerte addizione, ma coordina con l’intero prospetto in maniera accorta e bilanciata. L’architetto ha in qualche modo voluto spezzare la ripetitività dei timpani creando due diversioni: da una parte l’arco sovrapposto alla finestra, e dall’altro l’interruzione con nicchia soprastante l’entrata alla Confraternita. L’accessione successiva della scalinata barocca (1631) a due rampe laterali con prospetto e balaustra interni, lungi dall’insidiare la compostezza della facciata, la rende meno severa e più dinamica. Non si può dire altrettanto dell’altra facciata accanto che si risolve in supporto semplicemente aggiuntivo, se però presa per conto proprio e senza reinserirla nel disegno generale della Collegiata.

Il campanile, tuttavia, meriterebbe uno studio a parte. Infatti le varie sovrapposizioni (quattro differenti modalità di costruzione), denotano interventi distinti nel tempo, cui non sembra da escludere una base alto-medievale (o anche romana?) di torre di avvistamento, proprio sul punto estremo del costone, in grado di inquadrare perfettamente l’area circostante da tre angolazioni. In ogni caso le due facciate, la scalinata barocca e il campanile sono fusi in un insieme costruttivo di concreta suggestione, in cui l’elemento scenografico altera di poco il riassunto architettonico, contemperando due codici compositivi, dato che la scalinata, nel convergere in basso, non fa che ribaltare la cuspide dell’intero edificio. Il concorso del benefattore EX PIA DISPOSITIONE PETRI BONTEMPI I.C. AN. D. MDCXXXII è stato certo felicissimo per avere smussato le severe linee tardo-rinascimentali della chiesa, per convogliarle, invece, verso un’idea di forte movimento che suggerisce alla facciata uno slancio dinamico illusoriamente più elevato.
E la mancanza di inutili ornamenti non fa che accrescerne l’intimo equilibrio, esplicitamente disposto ad elargire un positivo impatto a chi si appresti a visitare la Collegiata. In effetti Scurcola adottava tempestivamente quanto di nuovo s’andava imponendo nell’edilizia sacra della Roma barocca. L’interno non tradisce le aspettative del visitatore. La navata è ampia, ben rifluita nelle cappelle laterali.

Vi fanno bella mostra confessionali ben disegnati e un organo di raffinata fattura, donato da Zenobia Bontempi. Inoltre, la chiesa conserva la croce proveniente dalla distrutta Chiesa di S. Michele Arcangelo di Scurcola Marsicana [ … ], sulle cui lamine il Piccirilli vide impresso uno dei bolli quattrocenteschi [ … ] della corporazione degli orafi sulmonesi, bolli successivamente abrasi [ … ]. Ad avere alterata la primitiva bellezza del corredo sacro sembra siano intervenuti rifacimenti non propriamente impeccabili, con sovrapposizioni di parti di diversa datazione. Nondimeno, le rifazioni, pur se aggiuntive e stilisticamente estranee all’intima essenza della composizione, non hanno del tutto sommosso il conio originario e la datazione, circa la sua realizzazione che si fa risalire al’400, prova o per lo meno induce a rilevare la diramazione della scuola di Nicola da Guardiagrele anche in territorio peligno-marsicano.

Le parentele sono, di certo, di difficile collegamento, ma la finalità liturgico processionale risponde alle motivazioni della committenza. Sarebbe oltremodo profittevole riproporre, sulla traccia di qualche consimile opera d’arte, la penetrazione della scuola orafa guardiese nel circolo degli orafi sulmontini, al fine di una lettura comprensiva di una delle più significative pagine dell’arte orafa abruzzese del XV secolo. L’esplorazione attenta della Collegiata coglie alcuni influssi tardo-rinascimentali nell’altare con ricorrente timpano che lo sovrasta e con una lunetta che ne interrompe la modanatura. La volta è triripartita, fittamente affrescata. Da notare i due stemmi che sigillano la balaustra marmorea, il pulpito seicentesco e due confessionali del ‘600. Osservando i pilastri della chiesa, in particolare sulla sinistra, si rinvengono alla loro base le antiche pietre provenienti da Albe, usate in parte anche nella costruzione dell’Abbazia di Santa Maria della Vittoria. Ma le sorprese, per chi vuole cercarle, non mancano. Fin qui sono state prese in esame, per la Collegiata, le presenze d’arte più autorevoli con i simulacri stessi di una civiltà nella sfera religiosa, espressa ingegnosamente in alcuni raffinati manufatti, certamente assai notevoli perché aiutano a ritessere la storia di un centro con irradiazioni di sensibilità creativa anche all’esterno.

Se, ad esempio, si vogliono considerare testimonianze pittoriche posteriori a quelle del maggiore artista presente a Scurcola, l’inquietante figura di Saturnino Gatti, non può sfuggire all’attenzíone l’Angelo custode, devozionalmente offerto da una coppia di coniugi e i cui nomi sono apparsi nel contenzioso della “Cardosa” ed ora allocato nella SS. Trinità. Il soggetto non è fra i più originali, ma il suo studio potrebbe aprire nuovi spiragli esplorativi nel manierismo accolto nell’ambiente scurcolano, magari dietro suggestioni del clero locale. La maniera (ma qui va esclusa ogni esemplificazione riduttiva) risente abbastanza di un indirizzo didascalico proprio di scuola romana, attardata su forme compositive di tranquilla fase architetturale. L’intento del dipinto è dunque asseverativo: viene ciò a ratificare, nelle proporzioni simmetricamente bilanciate, il precetto della custodia, un aspetto non trascurabile nella dogmatica cattolica. L’allusíone protettiva produce un’impressione rassicurante, ove si voglia porre a confronto l’imponenza dell’angelo con la figura del bambino. L’elemento e lo sfondo localistico e concettuale del lavoro sono definiti nel paesaggio dietro le grandi ali dell’angelo e servono a costruire un ripiego illusionistico; e la mano dell’angelo ubbidisce alla intenzionalità di un’indicazione ultraterrena, che è poi lo scopo insegnativo del dipinto.

Il quale si inserisce nel circolo della pittura prettamente devozionale, destinata quindi a tradurre sinteticamente un ammaestramento ed un’ammonizione. Si ricava tuttavia una osservazione: il quadro è in precarie condizioni; perciò il suo restauro si impone con assoluta priorità anche per tenere presente, a livello di inventario critico, le diramazioni di scuole prestigiose all’interno del territorio abruzzese, che cominciavano ad adottare canoni meno trionfalistici quanto ad agiografie pittoriche per mediare, al contrario, un più stretto colloquio con i fedeli. Per quanto riguarda il fabbricato del Santo Sacramento, l’interno, più da cappella che da chiesa, presenta una volta con notevoli affreschi. L’altare è immesso fra due colonne scannellate con timpano contenente una raffigurazione con due medaglioni ai lati. I due affreschi laterali, Definizione del dogma dell’Immacolata a sinistra e la Natività a destra sono in mediocre stato di conservazione. Nel vano retrostante, Cappella dell’Immacolata Concezione. Gli altri oggetti d’arte che vanno enumerati si restringono ad un Calice di scuola napoletana “tutto pervaso dalla pastosa decorazione barocca, che gli effetti chiaro-scurali accentuati dalla lavorazione “a getto” rendono ancora più vivace. L’articolata composizione di volute e di testine di cherubini, che si fanno preminenti sul nodo, intrecciati con i simboli della passione ripetuti sulle varie componenti del manufatto, riconducono agevolmente alla bottega dell’argentiere Gaetano Starace, attivo a Napoli tra il Sei e il Settecento” . Per la sua ricca, minuta ornamentazione l’opera traduce e porta al parossismo decorativo quegli elementi canonici propri dell’arte orafa napoletana che, nei grovigli marmorei dei suoi obelischi, hanno trovato una collocazione scenografica all’aria aperta. Non meno importante l’ostensorio “caratterizzato da una base adorna da coppie di testine di cherubini e sormontata da una figurina angelica a tutto tondo che sorregge una cornucopia, da cui emerge un cuore fiammeggiante posto a supporto della fenestrella raggiata, circondata da tralci e pietre verdi”.

La derivazione del lavoro è di schietto ambiente napoletano, segno ancora una volta dell’attrazione esercitata dalla capitale del reame per ordinazioni del genere. La ricognizione su altri reperti permette di avere sott’occhio alcune testimonianze di apparati liturgici di gran pregio, la cui preziosità è peraltro da ricollegare alla funzione capitolare della Collegiata. I lavori possono essere rimessi, per origine, all’ambiente romano e napoletano. I vari moduli decorativi, infatti, presuppongono scuole autorevoli per la loro realizzazione, che denotano tendenze prossime ai laboratori di ricamo sacro centro meridionali.
La datazione degli apparati è da farsi risalire al XVIII secolo. Ciò apre una interessante ipotesi su di un periodo che dovette essere di splendore per la Collegiata, nel cui ambito il Capitolo dei canonici riusciva ad esprimere le funzioni vicariali di una cattedrale e il cui numero, nel Settecento, passò da dieci a cinque, ben sostenuto da vaste rendite quantificabili in ducati e chiese aggregate. Sempre per quanto riguarda la Collegiata non va trascurata la cosiddetta ‘porticina’ in legno intagliato, anch’essa databile al XVIII secolo, di estremo valore per la sua particolare ornamentazione: “le due ante recano tre listelli a modanatura varia, due pannelli decorati con volute arricciate, armoniosamente composte a suggerire l’idea della croce, e includenti due angeli” . Si tratta, dunque, di un pregevole lavoro che, nella esiguità dello spazio, ha saputo offrire all’intagliatore la possibilità di eseguire rilievi con evidente capacità di attrazione dinamica, specie nella lieve divergenza dei due angeli. Nell’uscire dalla SS. Trinità si noti, sul lato ovest, l’inclusione di una porta, con fregio sovrastante e pietre squadrate connesse con nuovi sistemi murari.

E’ probabile che la porta possa essere stata ricavata da chiesa anteriore, dato lo stile che appare superstite a quello attuale. Infine, la torre, presenta, appena si salga il ripido pendio, due bassorilievi, una leonessa e una zampa, sempre di leone, con tracce di pietre ben lavorate e di un piccolo timpano, Rivaleggia con la rocca, alla sommità dell’abitato, la nuova chiesa di S. Maria della Vittoria, eretta accanto ad un manufatto che avrebbe avuto tutto da guadagnare se fosse rimasto completamente esposto allo sguardo del visitatore. In realtà la chiesa della Vittoria crea una situazione di appesantimento nella ingiunzione delle sue linee architettoniche, chiaramente disarticolate dal contesto ferrigno del castello, la cui fiancata viene quasi preclusa all’accesso. Contrasto avvertito anche in passato, ma oramai talmente consolidato che gli scurcolani stessi non sanno più fare a meno di questi due simboli (ciascuno per la sua parte di potere), che riassumono visivamente la loro storia. Tuttavia l’inserimento di un edificio del genere in cima all’abitato apre una doverosa congettura: la tradizione, oralmente consolidata e con qualche addentellato storico, vuole che gli scurcolani fossero dalla parte di Corradino, almeno il popolo minuto, e che l’insediamento dell’Abbazia della Vittoria nel XIII secolo nel sito già Villa Pontia ed ora Setteponti fosse accettato con qualche riserva, benché la realizzazione dell’imponente opera apportasse ristoro alla economia del modesto centro di allora. Perciò, a voler credere alle poche edificanti vicende aleggiate intorno ai frati cistercensi, custodi dell’Abbazia, e di fronte alla rovina della stessa nel corso del tempo, con i materiali asportati per farne nuovi manufatti, il minimo che ci si potesse aspettare era di dare ragione alla fatalità delle cose: tempus edax rerum. Ma l’avvenuta edificazione della chiesa accanto al castello, in grado di perpetuare il ricordo di quella diruta, potrebbe. far smentire certe simpatie, magari “ricostruite” a posteriori e far emergere stavolta altre di natura devozionale. Urgeva dare, quindi, a tale irisorto sentimento un luogo cultuale, quasi a somiglianza delle are erette dai progenitori nei recinti inaccessibili, alla portata dei fedeli.

Il pensiero di raggentilire le severe asperità del mastio non fu completamente immotivato. Il potere feudale dei Colonna veniva così a smussarsi in sorta di allegoria edificatoria, rispetto alla pur arbitraria collocazione dell’edificio sacro che, d’altronde, non comprometteva le esigenze e le finalità della fortezza, scaduta probabilmente a residenza signoriale sporadica. Ma la sensibilità e la continuità storica degli scurcolani nel 1525, anno della erezione della nuova chiesa (ma restaurata e modificata nel 1849), portarono a legare in qualche modo il vecchio edificio abbaziale dei Campi Palentini col più recente. L’incorporazione di un portale ogivale, con lunetta trilobata, proveniente dalla diruta abbazia cistercense, sta a significare la riconsiderazione del fatto d’arme in aggiornate forme espressive. Nel suo disegno, alquanto semplice e poco innovativo, la chiesa non dice granché sotto l’aspetto architettonico, ora sottoposta a restauro, salvo per il ricordato portale d’una eleganza goticamente pura anche sul piano della concettualità storica e sopra tutto per la statua lignea della Madonna col bambino del secolo XIII assieme alla cassa istoriata (o tabernacolo) che la contiene. Il legno scelto per la realizzazione della scultura – l’olivo – vuole forse significare un latente omaggio alla pace?

L’attribuzione dell’opera alla scuola di derivazione gotico-francese, sempre del secolo decimo terzo, non fa che confermare la prosecuzione e l’omogeneità sia dell’Abbazia della Vittoria sia dei suoi arredi. Gotici gli architetti, gotici gli artisti: un lembo della Francia mistica nei compatti Piani Palentini.
In effetti la composizione scultorea (provvisoriamente situata nella Collegiata) si articola secondo una cognizione compositiva ascensionale che riprende, nei panneggi e nei particolari della figura, la tormentata sinuosità propria del tronco d’olivo; anzi va detto che tutta la figura, espressivamente escavata dalle fibre del legno, viva questo patema tegumentale, partendo da una base, dove la larghezza indica quella più consistente del ceppo e si commisuri “goticamente” al capo della Vergine e dell’Infante.

Certamente abile nel raffigurare i volti dei personaggi, l’artista ha concesso ai tratti del viso verginale l’armonico allungamento delle sculture immesse nelle nicchie delle facciate gotiche, accentuandone lo slancio d’insieme frenato dal faccino rotondo del Bambino. Lo sguardo della Madonna appare assorto, mentre quello della sua creatura mira a comunicare con i fedeli attraverso una partecipazione più attiva, meglio esplicitata dal palmo della mano sinistra. Le due sculture, sensibilmente’assemblate’, sono frontali; e ciò è maniera canonica di coinvolgere lo spettatore; ma è la convergenza diversificata dei due sguardi a sollecitarne l’attenzione e la convergenza in un ambito attivamente spirituale. Le corone d’oro e lo scettro, offerti più tardi (1757 e 1857) non aggiungono altro alla grazia e alla maestà della scultura, improntata per corrispondere ai vecchi interni, rigorosamente spogli ai quali adduceva l’arte cistercense. Rispetto alla statua, anche la cassa che la custodisce ha un notevolissimo valore artistico, specie per le pitture che adornano le parti interne delle ante. Il fondo della cassa è di colore azzurro, tappezzato di gigli angioini, mentre i dipinti sono stati eseguiti a tempera su tela.

Esplicito l’impiego della cassa in vista di un pellegrinaggio espositivo ed itinerante nei vari centri della località o, da supporsi, all’interno del tenimento dei De Ponti. I soggetti riportati sulle ante sono quelli classici cristologici: a sinistra l’Annunciazione, i Re Magi, la Presentazione al tempio; a destra la Crocifissione, la Sepoltura di Cristo, e la Consegna di Gesù ai soldati (?).
Sfortunatamente resta ben poco del lavoro originario. Intanto va detto, per inciso, che la consuetudine ostensiva è tuttora praticata in Abruzzo, almeno nei piccoli centri, limitandosi a piccole casse contenenti la Vergine o qualche Santo che vengono traslate da famiglia a famiglia, per la durata di un giorno. Un pio compito che viene disimpegnato comunemente da monache laiche. Per tornare al tabernacolo di Santa Maria della Vittoria, molti studiosi concordano sull’autore dei dipinti.

La maggior parte inclina a considerare Saturnino Gatti (di lui lostorico Bindi dice: “alcuni suoi dipnti a temperasono davvero ammirevoli per la innarrivabile freschezza del colorito e per un fare franco e corretto”. Cfr. V Bindi, Artisti abruzzesi, Napoli, 1883, Bologna, Forni, 1970), il pittore delle tempere, noto artista abruzzese del XV secolo. La resa compositiva delle figure, inserite in ambienti prerinascimentali, fanno insorgere una stretta parentela con le botteghe di Antoniazzo Romano, del Verrocchio e con tendenze assimilate dalla maniera di Luca Signorelli, benché si avanzino dubbi sulla autenticità della mano dell’artista abruzzese. Il critico francese Emile Bertaux non ha dubbi sul tratto del Gatti, e le ricerche più recenti non fanno che confermare questo indirizzo.

Nondimeno tali influenze che si fanno risalire ad artisti prestigiosi, a tratti o a particolari rivelatori di scuole o di tendenze non infirmano il chiaro gusto eclettico dell’intero lavoro, la cui ripartizione forza a meditare una lettura separata e ben circoscritta. Infatti, a voler analizzare l’Annunciazione si può notare come tutto il complesso compositivo adduca ad una estraniazione extratemporale della Vergine. La sua collocazione nella scenografia che le è stata addotta, non suona localistica, ma si risolve in una metafora che rapprende e comprende ogni luogo. L’attualizzazione operata dal Gatti non fa che ripercorrere l’indirizzo del suo secolo, per una trasposizione ambientale o paesaggistica dei fatti della passione in grado di legare i fedeli ai particolari del mondo che li circonda, in una sorta di annullamento temporale, anche al fine di evitare l’arcaicità della proposta iconografica.

E gli stessi abiti della scena dei Re Magi o dell’Epifania, nel grande scorcio del portico aperto su di uno sfondo – che nella sua asprezza preannuncia il Golgota riecheggiano l’imbastitura raffinata della corte medicea o urbinate, segno dell’avvertenza sociale sempre vigile alla sensibilità del pittore. Il quale ha saputo attrarre in forme del tutto originali i lasciti propri delle avvisaglie compositive, che si aprono ad una più diffusa solarità. La stessa distribuzione dei personaggi, alternata dalla imponenza del corsiero alla sinistra dell’osservatore e nella raccolta simmetria della Vergine fanno presupporre una filtrata disposizione dei vari personaggi, mentre il profilo genuflesso del Mago, che scruta la preannunciata divinità del Bambinello, arreca al dipinto un contenuto accidente dinamico, subito riequilibrato dalla figura centrale, omaggio ad un obbligato esotismo. Il Piccirilli si sofferma, in particolare, sulla Presentazione al tempio “ove le figure e la prospettiva sono disegnate e dipinte con una diligenza sorprendente”. In effetti la costruzione concettuale del dipinto, con al centro il sacerdote e la Vergine a sinistra recante il Bambino, è strutturata secondo una largura di fondo, nel cui spazio le figure rappresentate muovono con composto ordine; il che prova che la capacità del Gatti andava più in là di una raffigurazione canonica devozionale.

La stessa scelta di una superficie così ristretta riesce a metter su una scommessa, condotta su coordinate specificamente tecniche; ma è da tale circostanza che la stessa esecuzione riesce ad offrire una presa emotiva in cui l’episodio riferito assume un ruolo persuasivo di racconto compiuto.
Il cattivo stato di conservazione per i notevoli danni subìti, a seguito di furto, non permette di condurre l’analisi oltre un certo limite; ma sono sufficienti i residui segni d’un così penetrante indizio per far annoverare le pitture della ‘Vittoria’ nella convergenza di più esperienze d’arte, ben recepite in terra d’Abruzzo. Va altresì convenientemente ricordato l’altro capolavoro conservato in Scurcola, esempio di quel filtro tardorinascimentale cui poc’anzi si accennava e di certo opera di intagliatori itineranti, attribuiti alla grande famiglia antoniana.

La diramazione di tale ceppo, già raccoltosi nella Chiesa di S. Antonio sulla Via Valeria, esprime di per sé una fioritura orgogliosa proprio sulle vie consolari, quasi a mescolarsi con i viandanti. L’iscrizione sulla facciata, intanto, fa esplicita allusione al Terzo Ordine Francescano, che la realizzò “cum favore et auxilio” della comunità scurcolana e di altri benefattori. La data è il 1518. Secondo alcune fonti la costruzione dell’edificio può farsi risalire al 1506 partendo da un ambito conventuale. L’interno è abbastanza sontuoso, con evidenti rifazioni barocche, ad una nave e con cappelle laterali. L’altare maggiore è modellato secondo un concetto di dinamica borrominiana.

Sulla volta l’effigie del Taumaturgo, nonché pure sovrapposta sull’altare. Notevoli e di valore i confessionali con stemmi francescani. Fuori, il chiostro riprende il motivo dei due lati coperti, con ampie arcate e corridoi laterali. Gli archi sono in pietra, come pure il residuo muro esterno che delimitava il chiostro-giardino. Nella sagrestia un pregevole armadio in noce, di recente ben restaurato. Sorprende il chiaro stile gotico del portale con lunetta trilobata e crocefisso esposto al centro. Perché tale sopravvivenza del gotico in una situazione artistica che si andava delineando verso nuove forme espressive? Permane in Scurcola la tendenza alla conservazione di un modulo architettonico mutuato in forme originali dall’esterno; e sembra, che in questo convincimento la tradizione cistercense non sia passata inosservata.
Ma il capolavoro al quale si accennava in precedenza, la cui destinazione conventuale si immette nel più antico alveo francescano, è rappresentato dalla grande porta lignea incastonata nel portale appena ricordato. Essa è strutturata in tre riquadri per ciascuna anta e con doppie cornici.

“Nel primo riquadro dell’imposta di destra è riprodotto, inscritto in una cornice circolare, il simbolo dei francescani; il riquadro centrale presenta due grifi ai lati di un’anfora, e sotto, un fiore inserito in una cornice a fasce. L’imposta di sinistra è decorata in alto con l’immagine di S. Antonio, inscritto in un tondo nel centro è il monogramma di Cristo, mentre l’ultimo riquadro è decorato con un fiore”. I critici sostengono che le imposte hanno impronta stilisticamente rinascimentale e per molti versi presentano affinità con le decorazioni della Chiesa di S. Giovanni Battista ed Evangelista di Celano. Ciò verrebbe a provare come i modelli seguiti dagli artisti francescani non fossero spunti isolati, ma consentissero con una tendenza alquanto omogenea, a riprova della capacità penetrativa dell’Ordine anche nei manufatti edilizi e negli accessori prioritari.
L’ignoto esecutore ha saputo modellare la fibra legnosa in una ornamentazione non risolta in semplice compiacimento, ma ricondotta ad un rituale di simboli che nel laicato di certi suoi sodali trovava spunti in grado di esaltare la stessa compostezza formale.

E se da un lato può esservi dissimmetria fra l’elegante cuspide del portale e le massicce quadrature delle imposte, dall’altro ciò prova che il loro inserimento non incrina altro stile, anzi ne viene proposto il contrappunto. La lezione del Ghiberti per chi allora vagheggiasse, nella propria chiesa, le porte del suo 66 personale” paradiso, si è soffermata – chissà per quali positivi viatici – anche a Scurcola e ha preso l’ossatura, l’incavo e lo sbalzo della pianta che è più consentanea alla terra d’intorno: la quercia. Alla fine del XVI secolo la popolazione scurcolana poteva stimarsi in poco meno di mille abitanti (in realtà, per il XVII secolo il Febonio le assegna all’incirca mìlle), una cifra abbastanza considerevole se il centro poteva annoverare tre conventi e tre grandi chiese, oltre a cappelle minori. Non si conosce il numero dei religiosi addetti ai monasteri e alle chiese, ma le deduzioni possono concretarsi nella stima delle rendite e dei privilegi assegnati.

“A circa due chilometri di lontananza verso l’Ovest aveva la Scurcola sopra un colle ridente il Convento dei Cappuccini colla chiesa detta di S. Maria del Colle. Questo fu fondato dalla famiglia Orsini, fu ampliato dalla famiglia Colonna, ed ora nel nuovo ordine di cose è rimasto anche chiuso” . Una delibera del Consiglio comunale di Scurcola, datata ventotto ottobre 1894 ne certifica l’abbandono ma, in pari tempo, determina alcune condizioni perché il luogo possa evi tare di deperire del tutto.

La preoccupazione dei consiglieri è opportunamente fondata perché, accosto, vi è il cimitero, alla cui cura i frati avevano fino ad allora cristianamente provveduto. Del resto l’annessa chiesa, ora in completa rovina e meta di quotidiane intemperanze, e che conserva su di un muro affrescato le sembianze della Vergine, serviva certamente, pur se in modo occasionale, alle pratiche liturgiche in favore dei contadini del posto. Il Consiglio comunale ne decide l’affitto ventennale per la somma di L. 184, annue a condizione però che l’affittuario sia “persona onesta e morigerata” e con “l’obbligo di mantenere continuamente nel Convento un custode in persona di un frate che possa sopraintendere alla sorveglianza del Camposanto con condizione che ivi dovrà risiedere anche la notte, nonché di provvederlo di un altro frate sacerdote che dovrà celebrare la messa in questa chiesa in tutti i giorni festivi e ciò per comodo dei contadini che abitano in quei d’intorni… ” .

Praticamente il Convento dei Cappuccini di S. Maria del Colle ha avuto una durata di trecento anni, passando da una condizione decorosa ad un sempre più accentuato impoverimento. Eppure un elenco delle terre possedute dal Convento, di incerta datazione, ascrive sedici immobili sparsi nei territori contigui, anche oltre il comune scurcolano. Inoltre, una nota delle offerte, nel decennio 1839-48, annovera rendite e offerte in denaro, espresse in grani (15). Il Convento dei Cappuccini, a quota più alta rispetto al centro cittadino, si oppone, come ubicazione, alla già diruta abbazia angioina in basso.
La stessa allocazione cimiteriale ne sanziona il criterio logistico: meno condizionato dalle nebbie della pianura, il Convento esprimeva un’autonoma cellula cultuale ed economica. Il filosofo peripatetico Antonio Rocco ebbe qui la sua prima formazione culturale? Tutto vi propende. Al pari del Convento dei Terziari Francescani e di quello dei Carmelitani, quello di S. Maria del Colle costituiva un centro presso il quale venivano impartite le prime nozioni didattiche. Nell’insediamento dei Cappuccini si può anche presumere una reazione localistica al primitivo nucleo cistercense; ma tale congettura è da scartare a causa del generale stato di crisi che questo ultimo ordine si trova ad affrontare nei secoli XV e XVI.

La diffusione della famiglia francescana, nei suoi vari rami, appare piuttosto fiorente in Abruzzo in quegli anni; e la vicinanza confinaria con l’Umbria ne favorisce facilmente la penetrazione nella Marsica. Quel che sorprende, in ogni caso, è il fatto che una comunità non troppo numerosa riuscisse a mantenere istituzioni così impegnative, fra chiese e conventi e numero di religiosi. Anche se esse traevano sostegni da donazioni e cespiti o da terreni, che per la natura dei luoghi non potevano essere molto estesi, nondimeno il consentimento popolare ne sosteneva l’attività in vista di una ‘rappresentazione’ sociale esterna. La fioritura d’un clero, nelle varie espressioni, arrecava lustro all’abitato, ne misurava la funzione energetica e spirituale. Via Corradino rappresenta la strada che meglio interpreta la dorsale dello sperone roccioso. Naturalmente può essere superata con cordonate, e ciò permette un’ascesa meno faticosa; ma la salita stessa viene premiata dalla prospettiva che si riesce a ricavare, come in un succedersi di quinte in un teatro popolare.

La stessa pendenza consiglia di guardare in alto, certi di trovare, oltre la salita, una sosta. Gli aggetti dei tetti, piuttosto sporgenti rispetto ad altre case abruzzesi dello stesso tipo, sommuovono anche la parte alta del paese. Nel salire un rimarchevole indizio di pietra lavorata: si tratta dell’Arco Ansini (1723) con stemmi e motivi floreali adiacenti. Più avanti un arco a sesto acuto e piccole finestre, dalle imposte di pietra finemente lavorate. C’è da osservare che, mentre nella parte bassa dell’abitato, vi sono state manomissioni dei portali di pietra, qui nella frazione alta essi sono stati per lo più conservati; il loro incastonarsi nelle rugose pareti dei fabbricati danno un che di aristocratico e di decoro individuale, da parte delle famiglie che li hanno realizzati.

Non sarebbe del tutto peregrina l’idea di catalogare, con fotografie o disegni, tutti i superstiti portali in pietra di Scurcola, in modo da disporre di un inventario attendibile, prima che innesti costruttivi ne alterino la grazia o, al limite, ne decretino la scomparsa. Il gioiello di Via Corradino è costituito da una civile abitazione, risolta in pietra discontinua e databile, per lo stile, al XV secolo. t un vero unicum perché introduce una idea stilistica di alto interesse, anche in relazione a quelle che potevano essere, nello stesso periodo, le case del patriziato locale, per sfatare cosi il luogo comune di un abitato senza edifici architettonici di rilievo. Innanzitutto la porta che immette nei vani al piano strada, bene movimentata nelle imposte diseguali, e l’ingresso laterale, arieggiato in alto da un verone.

Accanto una minuscola finestra; la porta di accesso al piano superiore ripete il motivo di quella in basso (nr. civico 43). Va osservata la finestra bifora, con i vari elementi accuratamente lavorati, con motivi gotici nella ripartizione degli archi a sesto leggermente acuto. Non va dunque escluso che la classe scurcolana più agiata si servisse di lapicidi in grado di rielaborare motivi e risvolti architettonici, quanto a ornamentazione, appartenuti all’Abbazia della Vittoria, volgendoli magari a convergenze più al passo coi tempi. Al termine della strada, proprio sull’irto ripiano dove sorge l’attuale santuario di Santa Maria della Vittoria da notare, sul lato sinistro, l’antico portale della Cappella del Palazzo gentilizio Bontempi, sorinontata da una finestra che ne ripete in piccolo le suggestioni decorative.

A sinistra una finestrella ricavata da un solo blocco di pietra, che attesta, ancora una volta, la valentia. dei locali marmorari. Il castello, a due passi, spicca sull’abitato interpretando due situazioni: l’una orografica, l’altra sociale. Il groppo roccioso su cui sorge permetteva agli antichi custodi di abbracciare con lo sguardo la pianura ai piedi della montagna e di vigilarne i contigui accessi. L’ideale forcina che si diparte ai piedi del monte, nel luogo di congiunzione dei due bracci, è stata pienamente utilizzata, come s’è visto, in età romana e oltre; e non senza ragione i residenti dell’ocri del M. S. Nicola ne avranno tenuto conto ai fini di un primo ostacolo per chi si fosse arrischiato a salire più in alto.

La primitiva fabbrica, presumibilmente d’epoca romana, si adattò alla necessità orografica, ne sviluppò la capacità di difesa offerta dal rilievo. Del resto sarebbe stato piuttosto disagevole per i guerrieri dell’ocri scendere a precipizio per un pericolo imminente o risalire. Di qui la posteriore affidabilità del sito anche in connessione con l’insediamento in “Case della Madonna”, la cui quota è leggermente superiore all’abitato scurcolano (c.a. m. 800). Inclinò, forse, alla scelta definitiva della odierna localizzazione la possibilità di sorvegliare più da vicino i due accessi e, come già stato rilevato, la facilità di accorrere in tempi molto brevi ai piani sottostanti. Eventuali opere di stratigrafia archeologica permetterebbero di sgomberare il campo dalle illazioni e di accertare, in via definitiva, il primitivo presunto nucleo della fabbrica; a meno che la successiva ‘incrostazione’ alto medievale, forse longobarda, non sia venuta a modificarne sostanzialmente la fattura.

E il toponimo passerebbe, di conseguenza, a enfatizzare la “funzione” svolta dal luogo in vista di una divisione politico-militare avvertita lungamente nella guerra gotico-bizantina. Ma tale obiettivo avrebbe bisogno di una campagna di scavi ben articolata, cui dovrebbe essere consorziato il restauro completo del castello. Per una migliore comprensione del rapporto Castello/abitato giova mettere idealmente in giunzione i due triangoli, dell’uno e dell’altro. Probabilmente i due vertici non coincideranno, anzi si può dire che l’abitato sia stato, ai suoi timidi inizi, ai piedi della rocca, la sua blanda ripetizione.
Tale fatto è dettato essenzialmente dalla quota del maniero, cui l’abitato sembra assoggettato. Viene così a esplicitarsi la dipendenza gerarchica dei residenti e la loro funzione economica, che in passato non poteva essere di opposizione. Il rilievo stesso del terreno opera in favore della costruzione, se oggi è possibile scorgere la stretta porta d’ingresso, certamente servita da un ponte levatoio e con su l’epigrafe accuratamente abrasa (?), a circa quattro metri “rispetto al piano di campagna” .

Ovviamente l’architettura, e quella dei castelli in maniera più serrata, divenne consentanea con la storia, con l’attrarre più scaltrite forme di difesa, insieme con compiti civili. Il rozzo propugnacolo dei De Ponti, che può essere ristretto al corpo centrale della fabbrica, tardò ad accogliere i motivi angioini, prova di un tardivo ossequio per il nuovo ordine politico, a cui supplirono più tardi gli Orsini. Ne risulta, ancora oggi, un impasto equilibrato di due inserti costruttivi che trovano, nel triangolo di base, un convincente manufatto militare.
Le mutate condizioni architettoniche sono state però in diretta relazione con l’accresciuta importanza del centro il cui castello, seppure in funzione subalterna “rispetto a Tagliacozzo, centro del potere prima comitale, poi ducale” , segue di pari passo l’insediamento umano. Infatti, la lettura del prospetto est permette intanto di rilevare la dissimmetria dei due bastioni a causa probabilmente di rifacimenti non contemporanei, mentre armonico risulta incastonato il fronte fra di essi.

Qualche perplessità si può desumere dalla posizione della porta di accesso, non al centro della facciata, ma la sua localizzazione può essere stata dettata dal rilievo tortuoso del terreno. La forma triangolare poi, abbastanza singolare per la località, può essersi sviluppata per vari motivi, prima di tutto legati alla conformazione del sito, che avrebbe richiesto lavori più dispendiosi per un ingombro costruttivo con maggiore area e con differente impianto planimetrico. Altri motivi premono invece verso altre direzioni, in quanto la sua forma, dichiaratamente fallica, è di notevole interesse nel quadro degli studi che si operano nel ‘400 sui castelli i quali, a dire degli architetti militari del tempo, dovevano avere sembianze “zoomorfe e apotropaiche”. La disposizione a triangolo al culmine del ripiano in effetti attesta una garanzia ossidionale “non solo di difesa esterna, contro eventuali assalitori, ma altresì interna per arginare eventuali sommosse popolari”.

Di certo, l’intervento orsiniano nel manufatto militare documenta l’accresciuta importanza del centro, da agguagliarsi, in qualche misura, a quella di Celano e di Tagliacozzo. Benché non sede del potere, la rocca scurcolana disimpegnò egregiamente un proprio ruolo prima di entrare in crisi nel secolo XVI al pari di altre similari costruzioni, a seguito del sempre più massiccio impiego dell’artiglieria. La sua forza di attrazione resta però inalterata, e la sua presenza ancora oggi, indice di sicurezza. Ed è in base a tale sua intrinseca qualità che gli sparsi centri, eredi dei primordiali vici trovarono la capacità di aggregazione sotto le sue mura. Gli abitanti erano consapevoli che, così riuniti, sarebbero stati facilmente assoggettati al potere feudale; ma era un prezzo da pagare, se la comunità voleva raggiungere la dignità di un vero centro urbano. Le propaggini d’intorno, sedi di modesti raggruppamenti umani, si concretarono in nuove forme di socialità abitativa. La lezione degli ocres non era rimasta del tutto ignorata se, attraverso nuove proposte urbane, veniva a reinventarsi il loro impianto più funzionalmente mediato con i tempi.

Mettendo a confronto, sia sul piano urbanistico che su quello scenografico, Via Corradino e Via Carlo d’Angiò, si può notare che la prima risulta più spettacolarmente disposta rispetto all’appartata sobrietà della seconda.
Non è poi un caso che le due strade siano congiunte da una intitolata a quell’Araldo che sanz’arme vinse, quasi a ribadire come il destino del vincitore e del vinto si intreccino anche nella toponomastica. E notevole risulta altresì la sede del vecchio municipio la cui Porta è sormontata da due stemmi, con chiare allusioni all’antica famiglia De Ponti e ai gigli angioini. La Via degli Orti incantati non smentisce la particolarità della sua denominazione. Essa costeggia qualche residuo hortus conclusus entro il ferrigno ammasso delle case. Gli alberi che sporgono dalle sommità dei muri danno agli interni, o fanno immaginare, lo sfogo di minuscoli giardini adiacenti alle case gentilizie. Malgrado l’esiguità degli spazi urbani e le difficoltà dovute ai dislivelli, Scurcola conserva tuttora piccole oasi di verde, la maggior parte appartenute alla famiglia Bontempi e che vedeva nei modesti ambiti scorrere ore di vita domestica, in un sodalizio unico fra signori e famigli, che la stessa angustia spaziale rendeva più stretto. Fra gli angoli ove sostare, non dimenticare Via delle Grazie, articolata con copertura sottostante un’abitazione e con all’ingresso una casa cinquecentesca, dalla trave munita di epigrafe latina. Il luogo è una specie di salotto ombrato, particolarmente ricercato nelle sere estive.

Nei pressi di Via degli Orti incantati rimarcare l’accidentata porta di Cantalupo che bilancia quella della Portella alla estremità degli avanzi delle antiche mura. Qua e là si è in grado di cogliere particolari curiosi. In più di un caso vanno rilevate alcune feritoie accanto alle porte d’ingresso, attraverso le quali i proprietari, dall’interno delle dimore, potevano scorgere le facce dei visitatori da accogliere, in circostanze ostili, con verrettoni o, in tempi più vicini, a colpi di archibugío. La loro conformazione spesso varia, e non di rado assomigliano a piccole finestre. In Via dell’Arco è possibile constatare sezione urbana, un residuo di avancorpo dall’attuale disposizione urbana, un residuo di avancorpo che potrebbe far supporre una seconda cinta muraria, allorché l’abitato tendeva che sanz’arme vinse, quasi a ribadire come il destino del vincitore e del vinto si intreccino anche nella toponomastica. E notevole risulta altresì la sede del vecchio municipio la cui Porta è sormontata da due stemmi, con chiare allusioni all’antica famiglia De Ponti e ai gigli angioini.
La Via degli Orti incantati non smentisce la particolarità della sua denominazione. Essa costeggia qualche residuo hortus conclusus entro il ferrigno ammasso delle case.

Gli alberi che sporgono dalle sommità dei muri danno agli interni, o fanno immaginare, lo sfogo di minuscoli giardini adiacenti alle case gentilizie. Malgrado l’esiguità degli spazi urbani e le difficoltà dovute ai dislivelli, Scurcola conserva tuttora piccole oasi di verde, la maggior parte appartenute alla famiglia Bontempi e che vedeva nei modesti ambiti scorrere ore di vita domestica, in un sodalizio unico fra signori e famigli, che la stessa angustia spaziale rendeva più stretto. Fra gli angoli ove sostare, non dimenticare Via delle Grazie, articolata con copertura sottostante un’abitazione e con all’ingresso una casa cinquecentesca, dalla trave munita di epigrafe latina. Il luogo è una specie di salotto ombrato, particolarmente ricercato nelle sere estive. Nei pressi di Via degli Orti incantati rimarcare l’accidentata porta di Cantalupo che bilancia quella della Portella alla estremità degli avanzi delle antiche mura. Qua e là si è in grado di cogliere particolari curiosi. In più di un caso vanno rilevate alcune feritoie accanto alle porte d’ingresso, attraverso le quali i proprietari, dall’interno delle dimore, potevano scorgere le facce dei visitatori da accogliere, in circostanze ostili, con verrettoni o, in tempi più vicini, a colpi di archibugío. La loro conformazione spesso varia, e non di rado assomigliano a piccole finestre.

In Via dell’Arco è possibile constatare sezione urbana, un residuo di avancorpo dall’attuale disposizione urbana, un residuo di avancorpo che potrebbe far supporre una seconda cinta muraria, allorché l’abitato tendeva ad espandersi naturalmente verso il margine dello sperone roccioso. La Cappella delle Anime Sante, corrispondente al n. 15 di Piazza Risorgimento è storicamente importante per i fatti cruenti che vi sono accaduti. Presenta un magnifico portale, con arco a sesto acuto, ben istoriato di bassorilievi e colonnine.
Nei pressi delle attigue aiuole spicca un cippo romano con gladio. Va inoltre ricordato, poco discosto, il palazzo Tuzi d’Andrea al n. 8 con all’interno una serie di affreschi, purtroppo in cattivo stato di conservazione. In Via Alba Fucens interessanti pitture murarie, risalenti alla metà del XVI secolo.

In una probabilmente l’effigie di S. Cristoforo con sulle spalle Gesù Bambino.
La rifazione di portali e di facciate in chiave moderna ha seriamente compromesso la loro lettura che, con ogni probabilità, era correlata a stazioni processionali. Fuori l’abitato non si dimentichi di dare un’occhiata alla Villa Caprera, immersa nel verde, e che ospitò i garibaldini di quel ricordato Serafino De Giorgio. Il luogo stesso, data la posizione fuori mano, permetteva raduni abbastanza inosservati

Testo a cura di Tito Spinelli  

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