A Roma, tenuto consiglio con Federico d’Austria, Arrigo di Castiglia, Galvano Lancia, Corrado d’Antiochia ed altri nobili, e considerato chiuso dalle armi angioine il passo di Ceprano, Corradino decise di entrare nel Regno dalla parte dell’Abruzzo. Quindi, il 10 o il 18 agosto 1268, egli mosse verso Tivoli e pervenne a Vicovaro. Quivi fu ospite degli Orsini feudatari del luogo; indi con pochi intimi salì a Saracinesco, feudo dei d’Antiochia, per salutare nel locale castello la moglie di Corrado, che era figlia di Galvano Lancia. Dopo breve sosta nel castello di Saracinesco, Corradino, ricongiuntosi col grosso dell’esercito, attraverso Arsoli e il Piano del Cavaliere arrivò a Carsoli.
Prendendo come documento basilare la lettera con cui, il 23 agosto 1268, Carlo d’Angiò comunicò la sua vittoria a Clemente IV, si legge: per Ciculi partes ingressi et inter Sculculae et Carchii montes quindi si deve ammettere che Corradino, informato delle perlustrazioni di Carlo d’Angiò, per evitarne agguati lungo la via Valeria, abbandonò questa a Carsoli e si diresse verso il Cicolano per penetrar da esso nel Regno di Napoli.
Infatti secondo lo storico marso Febonio, Corradino, che cercava ” nascosti passaggi “, volse in direzione delle boscose contrade di Pietrasecca, Luppa e Castelvecchio e, risalendo, verso S. Stefano di Sante Marie, il Faito, attraverso il valico che si apre a nord-ovest di questo monte, calò a Torano presso il fiume Salto, nel Cicolano; donde poi proseguì per i Campi Palentini.
E’ altresì verosimile che Corradino da Carsoli salisse a Tufo e attraverso Leofreni e Pescorocchiano, scendesse a Civitella Salto, pure nel Cicolano.
Tale tragitto èseguito specialmente dai pastori abruzzesi che conducono le greggi a svernare nel Lazio.
Attendibile appare l’itinerario prospettato dal tedesco Ficker che fa andare Corradino a Scurcola passando per Scanzano, San Donato e Sorbo. Questo percorso richiama alla nostra memoria quel braccio della via Valeria che distaccatovi a Carsoli da Manfredi re di Sicilia, risaliva verso Luppa e conduceva ai paesi posti alle falde meridionali della catena montuosa cui sovrasta la cima del Faito; diramazione che ai giorni nostri è stata in buona parte ripristinata dalle strade Variante del Monte Bove e Dorsale dei Campi Palentini.
La battaglia
Corradino, giunto ai Campi Palentini il 21 agosto 1268, avendo probabilmente saputo che Carlo d’Angiò non era lontano, pianto’ i suoi accampamenti sulla riva sinistra del Salto, proveniente da Cicolano. Indi, diviso l’esercito in tre schiere: di una, formata prevalentemente di tedeschi, prese il comando lui con Federico di Baden; un’altra comprendente in maggioranza soldati spagnoli, la affidò ad Arrigo di Castiglia, e la terza, che riuniva in gran parte italiani, la pose agli ordini di Galvano Lancia. Carlo d’Angiò, appreso che Corradino da Roma si accingeva a penetrare nel Regno dalla parte degli Abruzzi, lasciata sotto assedio la ribelle Lucera, mosse verso L’Aquila e la Marsica e scese dall’alto di Ovindoli ai sottostanti piani fucensi.
Nell’Aquila re Carlo, presentatosi di notte ai custodi di una porta (che dovrebbe essere quella detta di Bazzano) e fatto sicuro, senza darsi a conoscere, che la cittadinanza propendeva per lui e non per Corradino, fece chiamare il capitano di città (governatore) e, fattoglisi riconoscere, lo pregò, poiché ne aveva assoluto bisogno, di provvedere vettovaglie per la truppa e foraggi per i cavalli; approvvigionamenti che, subito forniti, gli consentirono di affrontare la battaglia con maggior fiducia.
Assicuratosi della fedeltà dell’Aquila, Carlo d’Angiò si spinse con l’esercito ai prati di Ovindoli, donde, dopo essere stato da solo il 4 agosto a Castel Ponti e il 9 a Scurcola (14), scoperto che Corradino dal Cicolano era entrato nella Marsica, porta principale del Regno, il giorno 22 avanzo con le sue milizie in prossimità del lago di Fucino e della terra di Avezzano e subito poi in territorio di Cappelle e di Magliano. Qui assistito da Erardo de Saint Valery, esperto condottiero, affidò le sue schiere a Enrico di Cousance, che per ingannare il nemico indossava paludamenti regali, a Guglielmo d’Estendart, a Giovanni di Clary, a Guido di Monfort, a Guido di Villehardonin e all’italiano Iacopo Cantelmi; mentre, per consiglio del di Valery, metteva in riserva a suo comando, uno squadrone di cavalleria ” ponendolo in agguato dietro un poggio in una stretta valle presso la terra di Cappelle “.
I due eserciti, avendo principalmente di mira quello svevo la conquista e quello angioino la difesa non già del ponte che, tra Scurcola e Cappelle, sta sul fiume Imele-Salto, bensì del Castello dei Ponti, punto nevralgico di primaria importanza poiché apriva l’accesso al Fucino, iniziarono lo scontro nella mattina del 23 agosto 1268. Entrambi, animati da grande coraggio e sorretti da tenace volontà, si contesero la palma della vittoria per circa tre ore.
Allorché la sorte sembrò arridere ai tedeschi, specialmente dopo la morte del maresciallo Cousance, finto re e costoro credettero di aver ucciso quello vero; e quando, a breve distanza di tempo, videro Arrigo di Castiglia, che al mattino per primo aveva oltrepassato il Salto ed aveva attaccato battaglia, inseguire i francesi fuggenti verso i monti, i soldati di Corradino, ritenendosi finalmente vittoriosi, smisero di stare sul piede di guerra e, dopo aver depredato i nemici morti, i feriti e comunque quanti erano caduti nelle loro mani, si diedero con eccessivo tripudio a festeggiare la vittoria. In quel momento Erardo di Valery suggerì a Carlo d’Angiò – che seguiva il combattimento da ” un colle vicino ad Alba – di lanciare sulle sbandate milizie teutoniche i cavalieri tenuti in riserva.
L’attacco, da esse inatteso e ritenuto superiore a quel che era, le impressionò talmente che né ordini, ne richiami, né esortazioni od altro valsero a fermarle e, in preda a terrore, si diedero a fuggire specialmente verso il Ciccolano e Rieti, città cui Clemente IV il 26 agosto, inviò da Viterbo una risentita lettera per aver loro permesso libero passaggio. Allorché Arrigo di Castiglia dall’inseguimento tornò sul campo di battaglia, e, con sbalorditiva sorpresa, lo trovò occupato dai nemici, lasciato il proprio cavallo, da prode si divincolò da essi e poté seguire i fuggitivi commilitoni. Intanto anche Corradino, vistosi in pericolo era fuggito, accompagnato da Federico di Baden, da Galvano Lancia, da Gerardo da Pisa da altri notabili e dai soldati che erano rimasti con lui.
Carlo d’Angiò, temendo un contrattacco, vigilante restò sul luogo del combattimento sino a sera, ma nessuno marciò indietro a contrastargli la vittoria fortunatamente conseguita. Indi con euforica soddisfazione, scrisse a Clemente IV la lettera-relazione con la notizia della vittoria riportata.
Testi a cura del prof. Aulo Colucci
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