Molte delle grotte che circondavano l’alveo del Lago di Celano servirono da rifugio al cosiddetto “Uomo del Fucino”, progenitore dei Marsi che popolò per primo le rive del grande specchio d’acqua e, con ogni probabilità, si avventerò nelle cacce lungo le valli e sui monti circostanti. Le prime tracce della presenza stanziale dell’uomo nella Valle del Giovenco risalgono al Neolitico, la nuova età della pietra, quando l’uomo divenne produttore di cibo attraverso la lavorazione della terra e l’allevamento del bestiame. E’ bene ricordare che le prime culture neolitiche in Italia risalgono al 6000 avanti Cristo. Ottomila anni fa, dunque, l’uomo fece la sua comparsa nella Valle del Giovenco lasciando i segni del suo passaggio: pietre lavorate risalenti a quel periodo, come riporta Vincenzo Amendola, storico e sacerdote di Ortona dei Marsi, nel suo studio “Ortona dei Marsi, 2300 anni di storia”, furono trovate nella campagna tra Carrito, Cesoli e Rivoli.
I primi abitanti della valle, molto probabilmente, si dedicarono alla pastorizia. La conformazione del terreno, la presenza del Giovenco e il clima temperato favorirono questa scelta che, unita alle possibilità di caccia offerte dagli animali che popolavano i boschi circostanti, consentivano all’uomo del Giovenco di vivere una vita priva di stenti.
Le cose dovettero filar lisce per diversi millenni, poi apparvero i primi Marsi, una popolazione fino ad allora sostanzialmente nomade, che deve il suo nome al dio Marte il simulacro del quale apriva la fila delle tribù che a primavera si mettevano in marcia alla ricerca di buoni pascoli. Queste migrazioni non avevano l’obiettivo della conquista di nuove terre né quello della ricerca di un insediamento stabile dove sistemare le proprie dimore. I Marsi vivevano una specie di lenta transumanza che li portava ad evitare scontri con le popolazioni locali, tanto che la loro trasformazione da nomadi a stanziali, avvenne più per costante infiltrazione che per conquiste guerreggiate. Furono proprio i Marsi, una volta insediati lungo la Valle del Giovenco, a dare il via alla transumanza verso l Apulia.
Una tradizione che si è ripetuta fino a pochi decenni fa. Prima di allora i pastori del Fucino erano soliti transumare verso l’Agro romano ma, l’aumento delle greggi e i non idilliaci rapporti con i romani, li portarono a stringere nuove alleanze con i Peligni costituendo la prima Lega Sabellica alla quale, poi, avrebbero aderito anche Vestini, Marrucini e Frentani. La potente Lega, sernpre per motivi di transumanza, si alleà all’altrettanto forte Lega Sannitica. Tanto sfoggio di potenza non poteva che infastidire i romani i quali non tardarono a farsi sentire. Il primo scontro importante, nel 302 a. C., si concluse con la distruzione già citata di Milonia, Visinio, Plestina e Fresilia da parte di Valerio Massimo. Ma dopo cento anni Livio scrive che Marsi, Peligni e Marrucini combatterono con i romani la battaglia di Zama dando un valido contributo allo sbaragliamento del forte esercito cartaginese. L’altro epico scontro, la Guerra Italica o Sociale, ebbe come principale animatore il condottiero dei Marsi Quinto Poppedio Silone, rampollo di una nobile famiglia di Marruvio, l’attuale San Benedetto dei Marsi.
La guerra, iniziata per il rifiuto di concedere la cittadinanza romana agli italici, si concluse con la disfatta della Lega Italica la quale, però, da sconfitta ottenne quanto voleva: la cittadinanza romana. Nel corso dei secoli successivi la presenza dei romani, nutrita attorno al lago, appare appena accennata nella Valle del Giovenco che viene apprezzata per la coltivazione delle mele, delle mandorle e come ricco territorio di caccia. A tal proposito Marco Valerio Glabrione, in viaggio nella Quarta Regione sotto il principato di Augusto nell’anno 755 di Roma, ci ha lasciato l’interessante resoconto di una giornata di caccia lungo la Valle del Giovenco:
“…man mano che la luce del giorno vince la bruma spargendo limbiche trasparenze, rallentiamo la marcia e diventiamo più guardinghi. Traversiamo il fiume Iuvencus, la cui acqua gelata strappa un nitrito al mio cavallo. A giorno fatto Caio Velabro, maestro di caccia, ci avverte che cinque cinghiali con un grosso verro pasturano in un querceto a qualche lega da noi (….) …mi distraggo dalla caccia e solo il grido del “magister dei venatores” mi richiama alla realtà. Un fracasso di rami spezzati, un rumore di tuono e venti passi davanti a me appare un accerrimus aper che si precipita a valle. D’istinto lancio il giavellotto che va a conficcarsi nel collo del verro il quale, rotolando più volte su se stesso finisce la corsa tra le gambe del mio cavallo che scarta impaurito… “. Da buon cacciatore, anche Marco Valerio Glabrione come si vede non disdegna i coloriti e spesso esagerati racconti di caccia. Testimonianze romane rappresentate da cippi e resti di ville sono state trovate sulla riva destra del fiume Giovenco, tra Ortona e San Sebastiano e, sempre vicino al fiume, a nord di Bisegna.
Il reperto di Ortona, un cippo sepolcrale della famiglia di Poppedio Silone, rinvenuto nel 1814 in località “Le Rosce”, per anni è stato conservato in casa Buccella e ora fa parte dei beni del Museo Civico di Avezzano. Tra Bisegna e San Giovanni, invece, sono venuti alla luce resti di una villa patrizia romana. Se si esclude il breve tratto di muro ad “opus reticolatum” della Ferriera, di quel periodo a San Sebastiano non si registrano altri ritrovamenti. Ciò potrebbe rafforzare l’ipotesi che l’attuale abitato in effetti sia sorto in epoca successiva, magari, come ipotizzavamo, dopo la distruzione del castello di Loe o, dopo la caduta dell’Impero Romano, nei secoli segnati dalle grandi invasioni barbariche.
La calata degli Ungheri, per esempio, spinse gli abitanti dei centri più a rischio a cercare rifugio in luoghi riparati, facilmente difensibili. E’ molto probabile che nell’Alto Medioevo la Valle del Giovenco rappresentasse un ideale rifugio per la gente del Fucino in fuga dalle orde barbariche. Passato il pericolo, poi, molti scelsero di restare, formando comunità e paesi che sarebbero fioriti nei secoli successivi. Lo stesso Di Pietro, nella sua “Storia della Marsica” accenna a “l’altro castello Marso chiamato Pecza che avea la chiesa di San Nicola, giuste le parole registrate nella Bolla di Clemente III ‘Sancti Nicolai in Pecza’. E’ probabile che gli abitanti di questo castello si riunissero al paese di San Sebastiano “.
Il castello di Pecza, nominato dal Di Pietro, si trovava sul monte Festo, al confine con i Peligni, nella località anticamente chiamata “Valle Putrida” segnalata anche sulla cartina del Febonio. La stessa località nel “Libro delle Decime dell’anno 1324”, viene chiamata Valle Rapindula. Dunque il castello di Pecza doveva trovarsi dietro a quella che oggi viene chiamata “Costa Rapindola”, nella parte alta del Festo.
Testi tratti dal libro Il Paese della memoria
( Testi del prof. Ermanno Grassi e del prof. Pino Coscetta )
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