L’importanza capitale, che rivestono nella storia d’Italia, e quindi della Marsica e di Avezzano, l’invasione e la dominazione dei Longobardi, spinge a fornire alcune sommarie notizie sulla loro esistenza e sul loro spostamenti in Europa e nella Penisola. Questo popolo dalla sua sede dell’Elba era arrivato fin sul medio Danubio, dove contese al Gepidi il possesso della regione, dietro istigazione della politica bizantina, che era solita seminare discordie tra i Barbari, rendendoli in tal modo divisi e meno forti, onde allontanare ogni pericolo per la sicurezza dell’Impero. Dopo avere stretta alleanza con gli Avari, che consistevano in una tribù mongolica fermatasi sul Carpazi, i Longobardi fecero guerra al Gepidi, distruggendoli definitivamente, e si stanziarono nella Pannonia. Da questa nuova sede mossero verso la Penisola, spinti da varie cause, tra cui le principali erano la molesta vicinanza dei loro ex alleati, il desiderio di terre migliori, e le sollecitazioni dei connazionali, che avevano militato al servizio di Narsete, durante la guerra greco-gotica in Italia, rimanendone ammirati per le bellezze naturali e per la fertilità del suolo, convinti della facile conquista.
I Longobardi iniziarono la loro discesa verso la terra del sole nell’anno 568, e più che un esercito costituivano un intero popolo nomade, che continuava nella sua trasmigrazione violenta, travolgendo il dominio imperiale bizantino in quelle regioni della penisola italica, ove giungeva a fissare la sua ultima sede. Il loro numero non doveva superare le trecentomila anime circa, comprensive dei vecchi, delle donne e dei bambini, formando fra tutte le stirpi germaniche una di quelle, che conservavano ancora immutata la condizione selvaggia della barbarie primitiva. Avanzavano senza alcun riguardo dell’autorità bizantina e distruggevano ogni cosa delle strutture del vecchio mondo romano, non risparmiando nulla ai saccheggi, alle devastazioni, agli incendi, al massacri. Le sventurate popolazioni italiche, superstiti alle violenze ed alle stragi degli usurpatori, venivano miseramente falciate dalla fame e dalla pestilenza, immancabili conseguenze di ogni invasione, come ai tempi più tristi della guerra greco-gotica.
In breve tempo, condotti dal loro re Alboino, si impadronirono della regione, che dal loro nome venne chiamata Longobardia, poi del Piemonte, del Veneto, tranne la parte costiera della zona occidentale dell’Emilia, e della zona interna dèlla Toscana. Proseguendo la loro marcia verso il sud, posero piede in quei territori, che successivamente costituirono i possedimenti di Spoleto e di Benevento. Tale invasione aveva il carattere particolare della mancanza di un piano di conquista e di ambizioni militari, perché consisteva propriamente nella ricerca di terre ubertose, nelle quali gli invasori si stanziavano. Questi infatti evitavano accortamente i luoghi fortificati, tranne Pavia, che venne assediata per tre anni, e dove arrendersi per fame, divenendo la nuova capitale del regno longobardo. Pertanto Ravenna non fu nemmeno sfiorata, essendo i Longobardi privi di flotta, ed ai Bizantini fu facile conservare tutte le zone costiere. Nacque in tal modo una duplice Italia: quella longobarda, cioè la Longobardia, e quella bizantina, cioè la Romania, con confini incerti e continuamente mutevoli: tale fatto diede inizio ad un fenomeno doloroso e funesto nella storia d’Italia, vale a dire alla rottura dell’unità della penisola, condannata a non risorgere se non verso la fine del secolo XIX.
Mentre nelle regioni soggette al Bizantini continuarono a vivere le istituzioni romane, in quelle occupate dai Longobardii e il mutamento fu radicale, perché questi Barbari nella loro rozzezza e ferocia non rispettarono la struttura politica e amministrativa romana, ma continuarono a reggersi secondo i loro usi e costumi, su cui organizzarono la nuova società ed il nuovo Stato. Anzi, incapaci di dare vita, almeno per un certo periodo di tempo, ad alcuna forma di ordinato consorzio civile, tolsero ai vinti tutte le libertà e tutti i diritti, persino quello di portare le armi. Uccisi i loro re, Alboino prima e Clefi non molto dopo, entrambi crudeli, i Longobardi nel loro innato anarchismo barbarico rinunziarono ad eleggersene uno nuovo; ed allora ciascuno dei loro capi se ne andò per conto proprio a sistemarsi in un suo dominio sul territorio conquistato, per vivervi insieme con la sua gente in tutta la sfrenata indipendenza della barbarie.
Questa anarchia barbarica durò dieci anni circa, ma poi i duchi longobardi sentirono il bisogno di un sovrano, che potesse dirigerli contro l’ostilità dei Bizantini che si erano alleati con i Franchi, ed elessero Autarì figlio di Clefi, al quale cedettero la metà delle proprie terre, per conferirgli potenza e prestigio maggiori. Autari sposò Teodolinda, figlia del Duca dei Bavari, gia convertiti al cattolicesimo, ed ebbe inizio quel lento mitigarsi della ferocia primitiva dei Longobardi, che, con la conversione poi al Cattolicesimo si adattarono ad entrare in relazioni meno disumane con le popolazioni italiche. Prima ancora che i Longobardi riuscissero a trovare una organizzazione civile, possibile e consentita dal loro stato di selvaggi primitivi, e precisamente al momento della occupazione dei territori della penisola e durante il periodo della loro decennale anarchia, le popolazioni soggette ed i territori invasi furono costretti a subire immani rovine ed un governo feroce e distruttore.
La Marsica soggiacque a tale tremenda invasione quando venne conquistata, come già le regioni degli Equi, dei Vestini e dei Peligni, da Ariolfo primo successore di Faroaldo, duca di Spoleto, dopo essere stata oggetto di varie crudeli scorrerie barbariche. San Gregorio Magno infatti nel suoi Dialoghi parla dì tali incursioni nella provincia Valeria (1) da parte dei Longobardi, e la leggenda di San Cetteo, Vescovo di Aternum, l’attuale Pescara, accolta dal Bollandisti (2) e dal Muratori (3), conferma e chiarisce le asserzioni del grande Papa. La leggenda di San Cetteo narra l’episodio del martirio del Santo Vescovo, il quale, al tempi del duca Faroaldo e di S. Gregorio Magno fu fatto annegare nelle acque del fiume Pescara da uno dei due rappresentanti del Duca di Spoleto in Aternum; la causa di tale azione delittutosa fu il nobile e caritatevole tentativo da parte di San Cetteci di salvare dalla morte l’altro rappresentante, accusato dal suo collega di tradimento, per avere offerto la città ai Greci; al detto tradimento si volle calunniosamente legare lo stesso San Cetteo, per meglio giustificare la sua uccisione.
Non si può escludere intanto che nella Marsica durante il VII secolo si siano avvicendate occupazioni greche o romane e longobarde per alterna fortuna di guerra, come possono confermare varie notizie storiche, per esempio quella del trattato di pace tra Callimaco, esarca, ed Agilulfo, re dei Longobardi, dell’anno 699, quella della sottomissione volontaria delle stesse popolazioni marse a Trasmondo, duca di Spoleto, nell’anno 739 ‘ e quella del ritorno alla sudditanza di Liutprando da parte delle popolazioni marse, che si erano ribellate in favore del Papa Gregorio 111 nell’anno 742. Nondimeno non v’è dubbio che la dominazione longobarda nella Marsica durò fino al tempo della dispersione silenziosa e quasi naturale dei Longobardi come nazione, avvenuta in parte per assimilazione o fusione con le popolazioni indigene, in parte per spostamenti o per altre cause, specialmente dopo il vittorioso avvento carolingio in Italia.
E’ altresì certo che nel primo tempo dell’occupazione i Barbari ridussero i vinti alla misera condizione di coloni, con il dovere di coltivare i campi e cedere a loro la metà dei prodotti, di avere la cura dei ponti, delle strade, di arginare fiumi e torrenti, e si riservarono il diritto del governo della cosa pubblica e delle armi con due rappresentanti del duca di Spoleto, similmente a quanto si apprende per Aternum dalla narrazione della leggenda di San Cetteo. I nuovi usurpatori spazzarono via, senza alcun riguardo, i Municipi ancora in vita ed ogni facoltà di governarsi secondo le proprie leggi, prerogative che gli stessi Goti avevano rispettate; furono quindi disciolti gli Ordini e le Curie, sicché le popolazioni marse furono costrette a seguire tutti gli ordinamenti barbarici dei Longobardi, che massacrarono quanti uomini e paesi ebbero il coraggio di ribellarsi. Tale stato di cose si protrasse per tutto il periodo, durante il quale i vari duchi governarono secondo il loro arbitrio, fino alla elezione di Autari a loro re, come è stato ricordato in precedenza.
Tra le questioni più controverse della conquista longobarda v , è proprio quella che si riferisce alle condizioni di trattamento, nelle quali gli invasori tennero i vinti latini. A tale riguardo si ha una sola fonte, come risulta da due passi della Historia se una idea del tutto esatta degli avvenimenti, verificatesi in una epoca tanto lontana da Lui. Gli storici italiani sono concordi nel rappresentare la desolante distruzione di ciò che era ancora rimasto in vita, dopo le prime invasioni barbariche, in conseguenza della discesa dei Longobardi in Italia. Su tale argomento la bibliografia è ricchissima; però è più che sufficiente ricordare il Gregorovius (5) ed il Cattaneo (6), nelle cui opere sono riassunti i caratteri di questo periodo storico. Scrive il Fatteschi (7) che, nel secoli VIII e IX, nell’intera regione Sabina non vi era che un solo castello e lo dichiara con le seguenti parole: ” Bisogna ben dire che l’sterminio qui fatto dal furore prima dei Goti e poi dei Longobardi, siccome il macello dei miseri abitatori, fosse il più lagrimevole”, e, quale esempio, specificamente menziona la Marsica, aggiungendo: ” … come della Valeria, ossia del paese dei Marsi, scrisse l’addolorato Pontefice San Gregorio al libro IV dei suoi Dialoghi, cap. 21, 22, 23 “.
Ed inoltre la Cronaca Volturnese (8) informa che, quando gia da cinquant’anni era scomparso il dominio longobardo, i castelli negli Abruzzi erano rari; la quale notizia prova la spietata distruzione che se ne era fatta da parte dei Longobardi specialmente nel primo periodo dell’invasione. Scrive il Gavini (9): ” Rattrista il pensiero dell’aspetto, che doveva offrire l’Abruzzo al passaggio di queste orde seminatrici della morte, che per la conquista dell’Italli meridionale, lasciata in disparte Roma, si addensavano sui monti inospitali e nelle spiagge popolose dell’Adriatico. Le città vestine, peligne, ed i centrì marsicani si riducevano ad un cumulo di rovine; gli abitanti, fuggiti dalla città, si rifugiavano nei paghi o paeselli, colpiti dalla fiera pestilenza, che invadeva tutta L’Italia; si abbandonava la coltivazione dei campi, la maggiore risorsa di queste genti, si interrompevano le comunicazioni lungo le vie consolari, che da secoli portavano il sale a Roma.
Era questo il periodo di massima decadenza per l’arte, periodo che abbraccia tutto il secolo settimo ” Anxantium ” era uno dei centri marsicani, che non poterono sopravvivere a tanta rovina, anzi è da ritenere che sia stata la città, su cui maggiormente avrà infierito la ferocia annientatrice dei Longobardi, che si erano insediati nel suo stesso territorio. Sta di fatto che soltanto in questa località, a distanza di secoli, sono emersi i segni inconfondibili della loro funesta presenza nella Marsica. La totale scomparsa di Anxantium ha sempre riempito di stupore gli storici per il mistero impenetrabile, che l’ha circondata per più di un millennio, ed ancora si potrebbe dubitare della sua esistenza, se il rinvenimento della necropoli, di cui si è parlato, non fosse venuto a porsi con tanta evidenza, in diretto rapporto con gli altri elementi di capitale importanza per l’ubicazione di detta città precisamente nel territorio della vecchia Avezzano, ove gli elementi descritti sono venuti alla luce.
I Barbari non si limitarono soltanto ad atterrare definitivamente la capitale dei Marsi Anxantini, ma giunsero persino a profanare il loro vicino sepolcreto, nella località denominata Colle del Sabulo, disperdendo quanto di sacro vi era custodito, dopo avere scelto quel luogo per la sepoltura della loro gente come nelle pagine 56 e 57. In tanta calamità gli Anxantini superstiti dovettero rifugiarsi nei luoghi vicini, tra gli altri abitanti, colpiti dalla stessa sorte, contribuendo a dare nuova vita al vichi sparsi dal Salviano al piano fin presso le rive del Fucino. Certo non pochi paesi scomparvero dalla superficie terrestre sotto la violenza delle bufere barbariche, specialmente quella dei Longobardi, senza lasciare alcuna traccia della loro esistenza, neanche nella memoria dei posteri, chissà per quale strano, inspiegabile destino, come è accaduto di Anxantium.
E come se ciò non bastasse, secondo quanto ricorda il Muratori nel suoi Annali, nell’anno 589, durante il regno di Autari, abbattendosi un vero diluvio su tutta l’Italia, una in solita escrescenza del lago Fucino, di cui non si era mai verificata una simile, recò danni gravissimi a tutte le città e paesi rivieraschi (10), e quindi quel che era potuto rimanere di Anxantium non fu certo immune da tale flagello. Il silenzio, che d’ora innanzi serba la storia intorno a questo antico centro dei Marsi, costituisce la prova che la sua esistenza, quale città, ormai fosse cessata definitivamente, ed il suo ricordo sperduto nelle nebbie più fitte del primo medioevo. Non ha torto chi intende che l’inizio dell’età medioevale debba essere indicato dal momento dell’invasione longobarda, perché essa aveva sommerso il mondo romano, almeno per quanto riguarda l’Italia, e non si può disconoscere che fu sul punto di sommergere la civiltà europea: l’ultimo scorcio del VI secolo ed il VII intero sono i più squallidi ed i più oscuri della storia medioevale. E cosi fu della Marsica: ” Una densa oscurità ricopre le sciagure di quella nobile nazione, e quando essa riappare nella storia, tutto è mutato, sol rimanendo il nome della regione e la memoria delle virtù dei suoi prischi abitatori… “, i cui discendenti conservano tutti i caratteri dell’antica stirpe (11).
Pur dovendosi riguardo a Paolo Diacono, per avere lasciato una preziosa fonte di storia del medioevo italiano nel suo scritto maggiore, Historia Langobardum definita vera opera d’arte, composta con calda passione e vivo interesse per l’argomento, e malgrado la voce che, con spirito fraterno, egli levò in difesa dei suoi connazionali, il giudizio intorno al Longobardi, come, fra gli altri, dimostra il Manzoni, nella sua migliore opera storica, non può non rimanere severo (12). I duchi, che alla morte di Clefi, come è stato detto, si erano impadroniti del supremo potere, dopo dieci anni circa di completa anarchia, eletto re Autari, gli cedettero regalibus usibus la metà di ogni loro spettanza; ed il re affidava l’amministrazione di questa metà ad un suo rappresentante, che era denominato gastaldo e durava in carica un anno. Questo ufficiale aveva funzioni militari, giudiziarie ed amministrative: governava quindi la gastaldia, ne comandava l’esercito, giudicava le cause minori con sentenza appellabile al duca; riceveva i reclami di coloro che si ritenevano offesi dal duca e li trasmetteva al re; amministrava tutti i beni della corona, ne esigeva le rendite, trattenendosi il suo stipendio, quando non aveva alcun fondo in godimento per concessione reale, quale compenso per il suo incarico.
Durante l’intero dominio longobardo la Marsica, costituita in gastaldia, come si apprende dal Liber Pontificalis (13) fece parte del Ducato di Spoleto, che comprendeva parte dell’Umbria, parte delle Marche, la Sabina e l’Abruzzo, e fu una delle gastaldie più importanti, specie all’inizio, quando, come provincia Valeria, si estendeva nel territori reatini, furconese, amiternino e valvese; in seguito venne divisa, rimanendo circoscritta nel territorio propriamente marsicano e conservando il nome di gastaldia dei Marsi. Frattanto i Longobardi venivano mitigando la loro primitiva ferocia e disciplinando la loro condotta, ed ai vinti si presentava possibile una vita meno disumana: si cominciavano quindi a stabilire fra i due popoli di diversa origine rapporti di convivenza pacifica, auspicata e favorita da Autari, che considerava i sudditi membri di un unico popolo. Allora si attese ad assegnare un governo più proprio e stabile alle città ed ai villaggi, ed ebbe inizio lo sviluppo di quella forma di municipio longobardo, il cui germe di natura romana era sempre vivo, per quanto latente, in qualche congrega di ecclesiastici (14).
I Benedettini di Montecassino svolgevano la loro meravigliosa opera di rigenerazione nelle campagne in un raggio molto esteso dalla celebre abazia e si adoperavano presso i Longobardi a diffondere qualche lume di civiltà e un po’ di mitezza di costumi; la Marsica non tardò a risentire del benefico influsso della loro presenza e della loro azione risanatrice fra tanto sfacelo e tanto abbandono. Sicché verso la seconda metà del secolo VII, confortate dall’assistenza morale e sorrette dall’ausilio portentoso dei Monaci di San Benedetto, le popolazioni, che abitavano i vichi sparsi per il territorio anxantino, si riunirono in un unico centro, perché i loro interessi pubblici e privati avessero il vantaggio di un’amministrazione ordinata e la sicurezza di una difesa comune, che ispirasse maggiore tranquillità. Per concorde decisione si stabili di riunirsi nel Pantano, borgo che aveva già accolto le antiche glorie anxantine, ed al paese cosi rinnovato dal concorso dei vari villaggi anxantini fu dato il nome di Avezzano, che venne a identificarsi col Pantano medesimo, destinata a perpetuare mirabilmente la vita della città madre, Anxantium. Né questo avvenimento importantissimo può dirsi unico nella Marsica, perché gli storici locali ricordano che Pescina sorse in seguito alla riunione di più frazioni, e Tagliacozzo ebbe origine dal restringersi nel suo sito di tutte le popolazioni disseminate nel vasto territorio circostante (15); non se ne conosce però l’epoca con precisione.
Come si è potuto notare nel capitolo ” Le origini ” di questo libro, gli storici marsicani ci riferiscono in maniera pressoché uniforme sul raggruppamento di più villaggi nella fondazione di Avezzano, e tutti muovono dal Febonio, il quale conclude l’argomento con le seguenti parole: ” Haec quidem antiquata vetustate hulus Illustris Oppidi initia fucrunt, et ante annis octingentis insurrexisse evidenti assertione probatur ” (16). Intanto nessuno dei detti storici ha ritenuto di impegnare a fondo la propria reputazione di studioso, azzardando qualche opinione assennata, dopo seri riscontri, circa l’epoca precisa o il più possibile approssimativa dell’inizio della nuova città, e soltanto il Febonio ha asserito che l’avvenimento dovette aver luogo anteriormente all’anno 800 dell’era cristiana. Come è evidente, con tale affermazione, l’illustre storico concittadino non aveva risolto la questione, né in verità si era spinto troppo, ma aveva tuttavia fornito motivo di formulare ipotesi varie ed attendibili e di approfondire maggiormente le indagini, avendo fissato come punto di partenza a ritroso nel tempo l’anno 866 (circa annum fere DCCCLXVI) (17); tale anno era stato citato nel Chronicon Monasteri Casinensis da Leone Marsicano, il quale per primo fece conoscere la notizia dell’esistenza nel detto anno, di Avezzano come paese, in cui fiorivano la chiesa ed il monastero benedettini di San Salvatore.
Non è superfluo a questo punto insistere nel ricordare che Avezzano, che diede il nome al nuovo paese, doveva essere il vico più importante e piu antico di tutti quelli che si riunirono nel Pantano, come si può dedurre dalla chiara testimonianza del Corsignani, il quale nella sua opera De Viris Illustribus Marsorum fa menzione di un tal Raynerlus figlio di Teutone di Avezzano, vivente nell’anno 411 d. C. (18). A quale epoca risalisse la sua origine come vico, quale fosse la consistenza numerica dei suoi abitanti, e fino a qual punto giungesse la sua importanza come centro abitato, non è dato conoscere con esattezza. Tali questioni nondimeno possono risolversi, almeno per approssimazione, solo se si tien conto sia dell’antichità della Gens Vettia originaria de’ Marsi, presso i dium”, in territorio anxantino, sorgeva il villaggio, che prese il nome della detta Gens, sia del costume tradizionale del popolo marso, il quale, pur potendo vantare città splendide, non disdegnava per la maggior parte vivere vicatim, cioè sparso in víchi o villaggi, come nella sua età più lontana.
Non si può quindi fare a meno di ritenere che il vico di Avezzano, riportato, fra gli altri, dal Febonio nella sua opera (19), esisteva già da molto tempo e la sua popolazione contava un numero maggiore di abitanti rispetto agli altri vichi límitrofi: donde la sua preminenza, resa più prestigiosa, oltre tutto dal lustro conferitogli dalla Gens Vettia, e riconosciutagli infine con la scelta del nome, dato al nuovo paese che nacque nel Pantano sulle fondamenta dell’arifica Anxantium. Questa città, quando cominciò ad essere riabitato il suo antico sito, non conservò il nome, subendo cosi lo stesso destino di Marruvio, che, distrutta probabilmente durante la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, risorse al tempo di Teodorico col nome di Marsi o Marsia (20). Il nuovo paese di Avezzano intanto fece il suo ingresso nella storia con il vanto del glorioso passato del suo popolo, sicuro ormai di poter affidare alla memoria degli uomini le notizie della sua esistenza, che nella vita variamente movimentata dei Marsi venne dispiegando, sempre più meritevole dell’orgogliosa ammirazione e dell’attaccamento possente di tutti i suoi figli.
La dominazione longobarda, durata due secoli circa,, era scomparsa, senza alcun rimpianto, nell’anno 774, per le armi dei Franchi, ed ignara aveva conferito alle popolazioni vinte un solo beneficio, quello cioè di avere risvegliato in loro il coraggio e la coscienza del valore atavico in pace ed in guerra, smarriti nello sfacelo dell’Impero. Gli abitanti del nuovo paese recarono, nella rinascita, ì segni di queste virtù e ne fecero subito mostra con l’organizzare provvidamente la difesa comune e l’amministrazione pubblica, disdegnando ormai la condizione rassegnata di ogni forma d’ avvilente servaggio, a cui furono miseramente ridotti dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente fino ai giorni della loro decisione di riunirsi in un unico centro. Essi cosi poterono, con nuovo fervore, dare inizio ad una alacre attività nell’agricoltura, nella pastorizia e nella pesca, le quali rifiorirono in misura straordinaria rispetto al tempi allora correnti.
I campi, che si estendevano dalle rive del Fucino al margini dei boschi del Salviano fin verso Petonia, detta oggi la Petogna, ed al territorio di Alba Fucense, erano ben feraci e non tardarono a mostrare, nel pieno rigoglio, la loro opulenza per le colture dell’olivo, e di ogni altra pianta da frutto, prima fra tutte la vite, che potevano facilmente essere coltivati in terreno, reso ancor più fertile dal clima dolce e dalle acque irrigue che scendevano dai monti circostanti. L’allevamento del bestiame in genere, e particolarmente la pastorizia, ebbero impulso tale da tornare all’antica floridezza. E si continuò ad esercitare la pesca nel lago secondo le consuetudini secolari, disciplinata e controllata nondimeno da apposite disposizioni dell’autorità gastaldica, e successivamente dei Conti dei Marsi, onde evitare controversie con gli altri paesi ripuari, ai quali era concesso il medesimo diritto di esercizio; si riuscì pertanto a soddisfare non solo i bisogni locali, ma anche le richieste delle zone non rivierasche.
Pur non rinvenendosi notizie dirette in proposito, varie circostanze inducono a ritenere che la ripresa della piena vitalità degli abitanti del territorio anxantino, che si riunirono nell’unico centro, che prese il nome di Avezzano, si sia verificata non diversamente dalla narrazione fatta. La prima circostanza si rinviene nella tradizione, dalla quale si è costantemente appreso dell’infaticabile attività degli Avezzanesi sin dai primissimi tempi della loro esistenza e della capacità di rinascita, sempre dimostrata anche dopo le più tremende sventure. La seconda deriva da ciò che la storia riferisce circa l’ordine ed il riassetto, che Rotari (636-652) avrebbe impresso al suo regno con il famoso Editto recante il suo nome (643) e con la retta condotta, tanto che Paolo Diacono lasciò scritto di lui che ” fu uomo energico e valoroso e segui le vie della giustizia “; tenne a freno con la forza i duchi minori e con i tre maggiori, cioè i granduchi del Friuli, di Benevento e di Spoleto, visse in buon accordo, la qual cosa fu motivo di vita pacifica in quelle terre.
Avezzano dipendeva dal ducato di Spoleto, al quale dove certamente fare spontanea professione di obbedienza sin dal suo primo nascere nel Pantano, onde ottenere l’adozione del sistema di pubblica amministrazione o curia improntata all’usanza romana, rispondente alla natura dei suoi abitanti; nei luoghi conquistati, infatti, i Longobardi non lasciavano alcuna traccia delle istituzioni amministrative o curie, pur rispettate dai Goti, se le popolazioni non si sottomettevano spontaneamente, patteggiandone la conservazione (21). Che Avezzano avesse adottato il detto sistema amministrativo, sin dalla sua origine, non si dovrebbe dubitare, perché lo lascia tranquillamente ammettere tutta la sua storia successiva fino alla geniale creazione dello Statuto del Comune o Universitas (Sec. XIV), che fu il primo della Marsica del Medioevo a dimostrare anelito di libertà sempre vivo nell’animo della sua popolazione. La circostanza più importante infine si deduce dall’azione risanatrice dei Benedettini, i quali già operavano fra le popolazioni ripuarie del Fucino, come è stato detto, al fine di risollevarle dalle miserande condizioni, in cui versavano sin dalla guerra greco-gota: esse, stremate del tutto, rinvennero nell’ausillo fraterno dei monaci il segno provvidenziale della propria rinascita, accogliendo con fiduciosa gratitudine quanto veniva sapientemente elargito dalla carità vigilante ed operosa della Regola di San Benedetto.
Lo spirito delle libertà municipali di Roma, fra tante distruzioni, invece di dissolversi, aveva trovato, si può dire, il suo rifugio naturale nei chiostri benedettini, ove venne conservato ed a tempo trasfuso nelle popolazioni, facendo loro sentire il desiderio di una vita rinnovata nelle libere romane istituzioni, la cui essenza costitutiva fu sempre parte integrante dell’anima italica, malgrado la soggezione allo straniero barbarico. Si era quindi pervenuti a quella forma di municipio, di cui si è fatto cenno, e che aveva di longobardo solo una esigua patina, tanto perché fosse, almeno in apparenza adeguata al tempi, mentre la sua essenza era di carattere assolutamente romano, nutrito a lungo di alimento cristiano. Avezzano iniziò cosi la sua nuova vita, ricevendo dal fervente lavoro dei suoi abitanti l’impulso costante, che la condusse in breve ad un ruolo preminente di paese civile nella Marsica, come fanno concordemente risaltare tutti gli scrittori, che di essa si sono interessati attraverso i secoli trascorsi.
Giovanni Pagani
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