Quando fu eretta la chiesa gotica di San Francesco nella prima metà del secolo XIV, il contado di Albe con capitale Avezzano, in seguito alla morte della contessa Filippa, che non lasciò eredi, passò direttamente sotto l’amministrazione della corte reale di Napoli, o demanio reale, divenendo poi dominio della casa regnante angioina, come è stato ricordato: sicché il re Roberto, alla sua morte, avvenuta nell’anno 1343, per testamento ne aveva fatto donazione, assieme a vari altri feudi, a sua nipote ex filio Maria di Durazzo. Tale denominazione le derivava dal primo marito, Carlo duca di Taranto, che fu tra i massimi responsabili nella congiura per l’uccisione di Andrea d’Ungheria primo marito di Giovanna I. regina di Napoli. Nella storia degli ultimi Angioini, il crimine accennato rievoca inevitabilmente avvenimenti e vicende di straordinaria importanza, che sono degni di una particolare trattazione, per le dolorose conseguenze, che si verificarono in tutto il regno, compreso il contado di Albe e specialmente Avezzano.
Mentre l’antica prosperità economica del Mezzogiorno scompariva piano piano irrimediabilmente, la sua compagine statale veniva indebolendosi sempre più. Il regno normanno e quello degli Svevi, in confronto all’anarchia europea del periodo feudale, apparivano come un’anticipazione dello Stato moderno per la uniformità legislativa, per la organizzazione amministrativa progredita e per il sicuro controllo, che l’autorità regia esercitava su tutto il paese. Il sistema feudale degli Angioini invece aveva in sé motivi gravi, per condurre il trono ad un immancabile cedimento di fronte al suoi vassalli, i quali nelle loro turbolenze venivano repressi con mano di ferro dallo spietato Carlo d’Angiò e malgrado i colpi della guerra del Vespro, erano ancora fronteggiati da re Roberto. Ma non appena il potere centrale si fosse paralizzato o non avesse più la forza di esercitare un controllo efficace su tutto il regno, i feudatari avrebbero senz’altro mostrata la propria indole e la propria disposizione ad usurpare violentemente il potere, alla indisciplina ed alla ribellione: l’ascesa al trono di Giovanna I, in seguito alla morte di suo nonno Roberto, determinò il verificarsi di quanto ormai si poteva ritenere ineluttabile, gettando il regno nel baratro delle lotte intestine e la corona nello svilimento davanti ai suoi vassalli.
La casa D’Angiò contava vari rami; quindi oltre al ramo napoletano, di cui era erede Giovanna I, esisteva un suo ramo che aveva raggiunto la corona d’Ungheria per il matrimonio di Carlo Il d’Angiò con l’erede di detto regno, un altro ramo aveva il titolo di principe di Durazzo, un altro ancora quello di principe di Taranto. Il re Luigi I d’Ungheria intanto aveva chiaramente manifestato le sue ambizioni alla successione al regno di Napoli, tanto che il vecchio re Roberto, nella speranza di evitare una guerra di successione, fece sposare sua nipote Giovanna I con Andrea, fratello di Luigi I. Ma il matrimonio fu causa di gravi disastri: Giovanna non tardò a rivelare la sua natura frivola, sensuale, corrotta, ed i contrasti con Andrea culminarono con la uccisione di quest’ultimo, come sopra narrato. Per vendicare il fratello, Luigi 1 re d’Ungheria, alla testa del suo esercito, invase il regno di Napoli nel 1348, e per quattro anni seminò vendette, stragi e saccheggi, culminati in una peste, che costrinse il re d’Ungheria ad allontanarsi.
Durante la detta invasione, Maria di Durazzo e sua sorella la regina Giovanna, che a stento si erano salvate con la fuga, rimasero al sicuro nella Provenza, e fecero ritorno a Napoli, solo quando Luigi I se ne era andato. La regina Giovanna allora non tardò a riempire di scandali la corte, sposando successivamente tre mariti, e compiendo una serie di gravi errori, che portarono nuove desolazioni nel Mezzogiorno, finché nel 1382 fini i suoi giorni di morte violenta, soffocata nel suo letto per ordine di Carlo III di Durazzo, pretendente al trono di Napoli. Maria di Durazzo, il cui marito fu ucciso per la vendetta del re d’Ungheria, passò a nuove nozze con Filippo di Taranto, al tempo del quale il contado d’Albe, ed in particolare Avezzano, che ne era il centro, furono devastati da una invasione terribile ed inattesa. La causa ne fu la lotta, che si era scatenata, esautorato il controllo del potere monarchico, tra il detto Filippo, principe di Taranto, ed il duca d’Andria, il quale per non soccombere chiamò in aiuto tale Ambrogino, bastardo di Bernabò Visconti di Milano, al cui comando ubbidivano dodicimila masnadieri, capaci di ogni sorta di crimini; costoro, senza indugio, si posero in marcia.
Era l’anno 1363, quando pervennero nella Marsica dal contado aquilano, atttraverso la valle del Cicolano. – Avendo Ambrogino saputo che Filippo di Taranto aveva dei possedimenti in questa regione d’Abruzzo e che Avezzano ed altri paesi della Marsica parteggiavano per lo stesso Filippo, non si lasciò sfuggire l’occasione per danneggiare il nemico e permettere libero sfogo alle sue orde fameliche nella malvagia depredazione di Avezzano e delle belle contrade della contea. – Con marce forzate si avvicinarono alla città, del tutto ignara della calamità, che stava per colpirla, e l’assalirono di sorpresa tanto repentinamente, che a mala pena gli abitanti si resero conto di quanto stava accadendo. Il cronista aquilano Buccio di Ranallo afferma:
” Non se ne accorse nullo quanno nella terra entraro, fierovi molto male e tutto derubaro “
Il saccheggio compiuto fu oltre ogni dire atroce e nefando, come il medesimo poeta-cronista chiaramente narra col verso ” Ma laidu saccu in Avezzano per illi fatto fune “, riempiendo poi tutto il territorio del contado degli stessi latrocini e delle stesse rovine. Ambrogino aveva interesse a raggiungere la Puglia al più presto, perciò la permanenza sua e delle soldatesche fu breve, ma bastante per ridurre Avezzano ed ogni altro paese vicino alla desolazione più luttuosa; e come se ciò non bastasse, lasciarono una peste si micidiale e tremenda, da falciare quasi completamente le popolazioni di alcuni centri abitati: il Brogi riporta la notizia, tratta da un manoscritto, che ai suoi tempi era conservato presso la nobile famiglia Tavani di Magliano dei Marsi. Annota il Di Pietro: ” Riparò subito Avezzano i danni sofferti, e ritornò nell’antica floridezza ” , mostrando, come in altre dolorose circostanze, l’incredibile capacità di recupero dei suoi laboriosi cittadini. Anche quando sopraggiunse la pace fra i due feudatari di Puglia, Ambrogino continuò ad imperversare nelle città e nelle contrade della detta regione, compiendo misfatti di ogni genere e seminando ovunque il terrore. “
Ma la regina con quell’animo suo virile e generoso comandò a Giovanni Malatacca di Reggio di Lombardia, che andasse con due compagnie di soldati a raffrenare l’impeto d’Ambrosio, e chiamando a sé tutti i Napoletani soldati veterani di Luigi, suo marito, gli esortò che andassero e conducessero della gioventù napoletana, che stava in ozio, a quella impresa tanto onorata e similmente scrisse a tanti baroni nei quali ella più confidava, né fu persona di loro che non si movesse con animo prontissimo a servirla; talché essendo giunto il Malatacca, ed avendo radunati i baroni d’Abruzzo, come vide ingrossato l’esercito suo per li Napoletani che arrivarono, e per alcuni altri baroni, senza aspettare più degli altri, andò ad appresentare la battaglia al Visconte, il quale vedendosi molto superiore di numero, subito attaccò il fatto d’arme, nel quale restò rotto e preso con tanta occisione dei suoi, che di dodicimila non se ne salvarono fuor di regno più che duemila e settecento; gli altri che restarono vivi, furono fatti prigioni, e restarono poi al soldo dei Caldoreschi, ovvero andarono mendicando “.
La regina Giovanna espresse la sua soddisfazione ed il ringraziamento per questa vittoria soprattutto ai conti Caldora, Sangro, Mareri e Mondragone, che non avevano lesinato i loro aiuti generosi e decisivi. Ambrogino fu condotto prigioniero al castello di Napoli, ove rimase per molti anni, riuscendo poi a fuggire. Lo storico Rosato Sclocchi, rifacendosi ad Angelo Di Costanzo ed all’Antinori, riporta l nella sua Storia dei Marsi altri funesti passaggi di compagnie di masnadieri per la Marsica, e narra che Francesco Del Balzo, duca di Andria, dichiarato ribelle dalla regina Giovanna, perseguitato dalle armi regie e da qelle dei Sanseverino, fuggi nella Provenza. Provvisto di danaro, ricavato dalle terre da lui ivi possedute, ed avutone altro dal papa Gregorio XI, suo parente, nel 1361 riprese la via d’Italia, raccogliendo lungo il tragitto un esercito di 13 mila malfattori.
Giunto con tali masnade nella Marsica, fece saccheggiare varie città, fra cui Avezzano e Marsia, l’antica Marruvio, della quale fu completata la rovina, secondo l’opinione di qualche storico locale. Asserisce ancora lo Sclocchi che questa invasione da alcuni scrittori del luogo viene “immedesimata” con quella del bastardo di Bernabò Visconti, mentre altri la confondono col molesto passaggio dell’inglese Giovanni Hawkwood, detto Acuto alla maniera italiana, il quale si portò nei Marsi nell’anno 1365, non si sa per quale via; dopo essersi aggirato per il contado dell’Aquila e dopo aver tentato invano l’assedio e l’assalto alla città, si diresse verso la Marsica, per uscire dal regno, avendo ricevuto, in seguito a ricatto, del danaro dalla regina di Napoli.
Alla morte della contessa Maria, che avvenne il 20 maggio 1366, dopo un breve periodo di amministrazione demaniale, il feudo di Albe passò a Ludovico di Navarra. Il Brogi riporta il diploma del 1371, che al tempo suo era conservato presso l’archivio del Comune di Avezzano, e che fornisce la prova dell’investitura; il detto diploma si riferiva ad una questione di pascolo e di legnetico fra gli abitanti di Avezzano e di Albe., definendone e regolandone i rapporti ed i limiti. Eccone l’intestazione: “Ludovicus de Navarra, dux Duraii Bellimontis, Albae et Gravinac Comes, ac honoris Montis Sancti Angeli dominus Michelotto de Sancto loanne lustitiarlo, vicario terrarum comitatus nostri . Albae, familiaribus devotis suis salutem et dilectionem sinceram… ” (6). Questo è l’unico documento della sua qualità di conte di Albe. Egli era figlio di Giovanni duca di Durazzo, il quale era figlio di Carlo II, fratello ed crede di Roberto, principe della Morea morto in Francia; pertanto era zio della contessa Maria, alla quale succedeva, e padre di Carlo III.
Ogni altra notizia intorno a lui si riferisce ad interessi generali del regno, a proposito dei quali non sempre si fece onore, risultando che, assieme a suo fratello Roberto, si ribellò al re Luigi suo cugino ed alla regina Giovanna sua nipote, qualche anno dopo il 1357; infatti Ludovico e Roberto si erano associati in quella circostanza con il conte di Minervino, il quale aveva occupato Bari, prendendone altezzosamente il titolo di principe, ed insieme avevano taglieggiato le zone prospere e ricche del regno; infine chiesero perdono ai sovrani, facendo appello ai legami di parentela, che univano tutti gli angioini (7). A Ludovico di Navarra successe nella contea Gìovanna di Durazzo, primogenita della contessa Maria e del duca Carlo, quindi nipote della regina Giovanna. La successione risulta dal diploma, che porta la data del ‘1372 e contiene il condono di una tassa agli abitanti di Avezzano; lo stesso diploma è riportato nella Historia Marsorum del Febonio, ed è intestato nel modo seguente: ” joanna ducissa Duratii, Albae et Gravinae colmi . tissa, regni Albaniae et honoris montis S. Angeli domina… “.
Ella fu data in moglie dalla regina Giovanna a Roberto conte d’Artois, figlio del conte d’Arras. Nell’anno 1381 il detto Roberto venne in Avezzano, per visitare il possedimento feudale, e gli venne presentato un ricorso, nel quale si reclamava contro un tale Masio del Mancino avezzanese, cui la contessa Giovanna aveva accordato alcune immunità; il conte, esaminato scrupolosamente l’esposto con i suoi consiglieri, dichiarò che il Masio non poteva essere molestato per servizi gratuiti di esazione di tributi o di multe nella terra di Avezzano o altrove, né doveva prestare altri servizi personali nell’esercizio di uffici pubblici contro la sua volontà. Spiegata in questo senso e confermata la concessione, fatta a Masio dalla contessa Giovanna, ne commise l’osservanza al giustiziere della contea di Albe.
Intanto Carlo III era riuscito ad impadronirsi del regno di Napoli, e la regina fu costretta a rifugiarsi entro il Castel Nuovo, ove fu seguita dalla nipote Giovanna e da suo marito Roberto d’Artois, che pagarono la loro fedeltà alla sovrana con la perdita di tutti i loro beni feudali. Ma le sventure per il Mezzogiorno non terminavano ancora: dopo nuove lotte tra angioini e durazzeschi, Carlo III si allontanava da Napoli per andare ad assumere la corona del regno d’Ungheria per diritto ereditario, ma a Buda periva assassinato nel febbraio 1386, dopo poco più di quattro anni di regno. Lasciava erede il figlio Ladislao, ancora bambino, al quale gli avversari contrapposero un altro pretendente della dinastia angioina di Francia; la lotta si concluse con la vittoria di Ladislao, che avvenne nel 1400, e solo allora il regno di Napoli potè ritrovare un po’ di pace. Non risulta che durante il regno dì Carlo III il contado di Albe sìa stato concesso a qualche feudatario, mentre non v’è dubbio che, dopo la sua morte, passò nuovamente al demanio regio, come chiaramente appare da due diplomi, datati rispettivamente il 26 e 27 gennaio 1388, del re Ladislao, il quale per la sua minore età agiva sotto la tutela della madre Margherita: in detti diplomi veniva ribadita la pertinenza legittima della contea al demanio regio, per la qual cosa il re si riteneva in diritto di vendere, come vendeva, una parte del lago fucino al conte di Celano. Tali atti importantissimi, che erano conservati nel vecchio archivio di Napoli nei fascicoli riguardanti la casa d’Angiò furono esibiti nella causa intercorsa tra i principi Colonna ed i Comuni ripuari del Fucino (10), di cui si è fatto cenno in precedenza.
Quando Luigi II d’Angiò pretendente al trono di Napoli, nel 1390 venne nel regno, dopo che i suoi sostenitori si erano impadronti della capitale, era accompagnato dal principe Luigi di Savoia, figlio di Filippo conte di piemonte detto principe fu investito dei feudi di Albe, di Celano, di Manoppello e venne inoltre nominato vicerè d’Abruzzo e governatore dell’Aquila; ma sembra che il Savoia non facesse in tempo a prendere possesso di dette concessioni, perché esse decaddero nell’anno 1400, allorché Luigi Il se ne tornò in Provenza, avendo perduto la lotta contro Ladislao. Con l’ascesa dei Durazzo al trono di Napoli la contea di Albe ebbe l’onore di essere presa in feudo dalla regina Margherita, il cui visconte confermò la sede centrale in Avezzano, ritenuta ormai nella regione città importante sotto tutti gli aspetti e molto adatta al governo della contea. Il Febonio trascrisse nella sua opera anche il diploma dell’anno 1405, dal quale risulta che la regina Margherita era contessa di Albe, come si legge nell’intestazione: ” Margarita, Dei gratia Hungariae, Ierusalem, Siciliae, Dalmatiae, Croatiae, Serviae, Galitiae, Lodomarij Bulgariaeque Regina, et Ducissa Duratij Regni Albaníae et honoris M. Sancti Angeli, Domina Provinciae Falcoquerij, et Pedemontis, Albae, Gravinae Comitissa….
La regina Margherita, nella qualità di Contessa di Albe, col diploma citato risolveva definitivamente la vertenza tra gli avezzanesi ed i luchesi circa il possesso e gli usi del territorio dello scomparso paese di Penna. Alla sua morte, che avvenne il 7 agosto 1412, il feudo passò nuovamente al demanio regio, ed il re Ladislao non ebbe nemmeno il tempo di investirne altri prima che egli morisse nell’aprile del 1414. A lui successe nel trono la sorella Giovanna Il, la quale per assicurarsi la buona amicizia del papa Martino V della famiglia Colonna, con diploma del 20 febbraio 1419 nominò il nipote, Lorenzo Colonna, Grande Camerario, qualificandolo conte di Albe, e con altro speciale diploma del 3 agosto dello stesso anno ne stabili l’investitura. Inoltre il Ceppi rende noto un altro diploma in data 17 ottobre 1419, nel quale, accordandosi alcuni privilegi agli abitanti di Albe, era dichiarato che quella terra era “feudo di Renzo Colonna”. In seguito alla sua morte, avvenuta nel 1423 in circostanze straordinarie, per un incendio accidentale divampato in un castello d’Abruzzo, il figlio Antonio assunse la contea, come appare nel diploma del 5 luglio 1424, in cui si fa menzione di lui quale conte di Albe, mentre si convalida la sua investitura nel principato di Salerno.
Egli fu per un certo tempo tenuto in gran conto dalla regina, che lo nominò anche duca d’Amalfi e Governatore d’Abruzzo; l’Antinori lo ritiene degno di lode per la quiete e per la pace goduta dagli Abruzzesi durante il suo governo.
Si apprende dal Coppi che il papa Martino V, allo scopo di evitare in avvenire ogni questione fra i suoi eredi, ritenne cosa saggia dividere tutti i beni, assegnando a Odoardo, altro figlio di Lorenzo, le contee di Albe e di Celano. Ma nel 1431 la’ regina, fra gli altri feudi, confiscò ai Colonna il ducato di Salerno: sembra tuttavia che Odoardo, il quale per la sua minore età era sotto la tutela della madre Sveva Caetani, non subisse alcuna spoliazione, essendogli confermato, come risulta da un diploma del 21 febbraio 1432, il possesso delle contee di Celano e di Albe con il titolo di duca dei Marsi, già altre volte concesso. Comunque i fatti si siano svolti, è certo che, dopo qualche anno dall’11 febbraio del 1435, data in cui la regina Giovanna II fu colpita da morte, i Colonna furono spogliati della contea di Albe da Giacomo Caldora, che la ritenne in signoria con diploma dell’anno 1436 della regina Isabella, vicarla generale del regno, essendo suo marito Renat o d’Angiò prigioniero di Filippo Il duca di Borgogna fin dal 1431, e potè raggiungere Napoli solo il 19 maggio 1438 dalla Provenza.
Giacomo Caldora pertanto era schierato decisamente dalla parte di Renato. 1 suoi antenati di origine francese erano venuti nel regno di Napoli con l’esercito di Carlo 1 d’Angiò, e non si conosce il loro grado di nobiltà; ma i discendenti divennero ricchi e potenti di generazione in generazione al punto che Giacomo potè ereditare dal padre vari contadi. Il Caldora era di ingegno vivace, facile parlatore, amante delle lettere, valentissimo condottiero d’eserciti, coraggioso, instancabile, e sebbene indurito dalle fatiche della vita militare, che condivideva persino con l’ultimo dei suoi soldati, che lo amavano fortemente, aveva maniere affabili di perfetto cavaliere. Militarono sotto le sue bandiere giovani soldati, che divennero poi grandi capitani, come il figlio Antonio, i fratelli Nicolò e Carlo Monforte, Lionello Acclozamora, Paolo de Sangro e tanti altri; fu anche Gran Contestabile del regno. La sua nomea
di grande condottiero crebbe certamente con la sconfitta, che inflisse sotto le mura della città dell’Aquila al famoso capitano Braccio da Montone, detto Fortebraccio, che mori in quella circostanza.
Ma accanto a tante chiare virtù apparivano difetti, che lo storico leccese Scipione Ammirato ritenne di poter precisare come mancanza di scrupoli nell’infamia, come desiderio sfrenato di ricchezze e di potenza, come scarso o nullo senso di fedeltà. Se tutto ciò rispondesse al vero, quel che di buono è stato celebrato in lui potrebbe apparire per lo meno esagerato: sta di fatto però che, quando mori improvvisamente per apoplessia il 25 novembre 1439, mentre dirigeva l’assalto a Colle presso Benevento, la sua salma fu accompagnata non solo dalle sue milizie, mute ed affrante per la perdita del loro capitano, ma anche da quelle dei feudatari, che avevano combattuto sotto il suo comando, fino alla chiesa di S. Spirito dell’abadia dei Celestini, ai piedi del Monte Morrone presso Sulmona, dove la madre, Rita Cantelmi, aveva fatto costruire nel 1412 per sé e per i suoi l’artistìco sepolcro, che tuttora può ammirarsi. Poco prima della sua morte aveva sposato Covella dei conti di Celano, che gli aveva portato in dote la contea di Celano.
Si era al tempo della guerra dinastica, riaccesasi nello Stato napoletano tra il re Renato, il quale era succeduto a suo fratello Luigi III d’Angiò, morto nel novembre 1434, quindi alcuni mesi prima della regina Giovanna II, di cui era l’crede designato, ed Alfonso d’Aragona, pretendente al trono di Napoli, quale figlio adottivo della medesima volubile regina; e sotto il pretesto di tale antica adozione l’Aragonese aveva avuto il pensiero fisso e quasi affascinato a detta successione, ed aveva cercato di mantenere relazioni con alti feudatari e personaggi della corte, riuscendogli facile formarsi un partito con il duca di Sessa e con il principe di Taranto. In quella infida situazione non era difficile prevedere che sarebbe prevalso re Alfonso, uomo politico ben più scaltrito ed esperto, che poteva disporre delle forze dei tre regni d’Aragona, di Sicilia e della Sardegna, oltre che della marina catalana, mentre l’Angioino, che la tradizione provenzale ricorda, come ” il buon re Renato “, poteva contare soltanto sui mezzi della sua Provenza, poco amante del resto di questa avventura. Tale facile previsione influiva sinistramente sulla oscillante fedeltà dei baroni, che di fronte a due re stranieri si preoccupavano della loro migliore posizione futura, e non già dello stato di cose generale, che si era venuto a creare in questa triste guerra dinastica.
Pertanto fu una grave perdita per Renato la morte di Giacomo Caldora, che era per lui il più valido e sicuro appoggio, tanto che le sue prime fortune contro Alfonso ebbero lo stesso Caldora come principale artefice. Trovandosi infatti nell’agosto del 1438 in Abruzzo i due re avversari con i loro eserciti, ed essendo Renato più forte di settemila soldati, inviatigli dalla città dell’Aquila, l’Angioino sfidò a battaglia Alfonso, il quale prudentemente, a causa delle minori forze a sua disposizione, rispose agli araldi latori della disfida che, spettandogli la scelta del luogo e del tempo, accettava la battaglia, da combattersi però in Puglia il 21 settembre di quell’anno; riteneva l’accorto Aragonese che Renato non avrebbe potuto mantenere a lungo un esercito tanto numeroso per l’insufficienza dei suoi mezzi finanziari.
Quindi da Castelvecchio Subequo mosse alla volta dei contadi di Albe e di Celano; ma anche Renato marciò verso la Marsica e potè riconquistarvi tutte le terre, compresa Avezzano, capitale della contea d’Albe. Essendosi poi fermato per alcuni giorni in Ortona dei Marsi, Renato il 27 agosto dichiarò ribelli Antonio Cantelmi conte di Alvito e di Popoli, Giovanni figlio di Antonio e Matteo da Molina, Pietro nipote di Antonio ed i suoi figli, per essersi schierati con Alfonso: inviò soldati ad espugnare Molina, e dopo averla conquistata la cedette in feudo alla città dell’Aquila per quattrocento ducati d’oro; nello stesso giorno ricevette l’omaggio ed il giuramento di sudditanza e di fedeltà dagli amministratori della città, il Camerlengo ed i Cinque delle Arti, alla presenza di Giacomo Caldora, dell’Arcivescovo di Benevento e di altri notabili capitani . Non trascorse molto tempo ed il buon Renato andò pellegrinando per il regno e, suscitando più la pietà che la devozione, riuscì a tenere viva la guerra negli anni 1440 e 1441, avendo già provveduto ad allontanare da Napoli la moglie Isabella ed i figli.
Egli sperava che alla fine del 1441, conclusa la guerra lombarda, lo Sforza sarebbe venuto al suo soldo come aveva promesso, ma anche questa speranza andò delusa, perché lo Sforza doveva badare alla sua Marca, che era minacciata. Le defezioni intanto aumentavano e l’ultimo atto fu compiuto
con l’assedio di Napoli, che si concluse con l’assalto del 12 giugno 1442, favorito dall’ingresso nella città di soldati aragonesi attraverso un condotto sotterraneo: ne segui il saccheggio, ed Alfonso vi entrò come un trionfatore romano. Renato d’Angiò su navi genovesi il 25 giugno dello stesso anno abbandonò Napoli, per tornarsene in Francia: poco dopo anche i castelli si
arresero, e gli ultimi soldati angioini comandati da Antonio Caldora, succeduto al padre Giacomo nella Contea di Albe, furono battuti presso Sulmona; il Caldora cadde prigioniero, ma successivamente venne lasciato in libertà e favorito dall’Aragonese.
I suoi possessi aviti gli furono confermati, ma la I contea di Celano era passata a Lionello Acclozamora sin dal 1440 in seguito al suo matrimonio con la contessa Covella, vedova di Giacomo Caldora, e nell’anno 1441 Giovanni Antonio Orsini era venuto in potere della contea di Albe, che in questo periodo aveva raggiunto una considerevole estensione, facendo parte di essa Avezzano, Albe, Rosciolo, Magliano, Castelnuovo d’Albe, Cappelle, Luco, Trasacco, Capistrello, Pescocanale, Canistro, Meta, Civita Rendinara, Castelnuovo delle Valli, Ronciano de Vivo e Civita d’Antino.
Giovanni Pagani
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