Con la conquista del regno longobardo, la monarchia franca era riuscita finalmente ad attuare il suo disegno politico, che, riguardo all’Italla, perseguiva da lungo tempo. L’artefice di tale realizzazione fu un uomo, destinato a lasciare un’orma indelebile nella storia dell’Europa medioevale, cioè il re Carlo, il quale, stabilendo un nuovo mondo di rapporti umani con la sua opera mi i politica, giuridica e culturale, si meritò l’appellativo di Magno. Egli, assumendo il titolo di Re dei Longobardi assieme a quello dei Franchi, non apportò alcun cambiamento sostanziale al regno del popolo vinto, e lasciò il suo ordinamento politico e le sue leggi nazionali così come erano; ogni modificazione, che più tardi vi si rinvenne, fu effetto di un lento svolgimento, dovuto principalmente alle riforme di carattere generale, per le quali venne rinnovandosi l’organizzazione dell’intera monarchia carolingia. In tal modo Carlo potè lasciare ai Longobardi la illusione che nulla di mutato, oltre la persona del monarca, era avvenuto nelle sorti della loro nazione, e che essi avrebbero trovato tranquillità e sicurezza sotto il governo di un re potente e vittorioso in buoni rapporti con la Chiesa.
I primi anni di dominio franco, come sempre accade in ogni repentino e brusco trapasso di signoria, furono contrassegnati da dissesti ed incertezze, che generarono grave malcontento: a tutto ciò si aggiunsero casi straordinari di calamità, superiori ad ogni previsione umana, come un violento terremoto nel Veneto ed una generale carestia, derivata da scarsità o mancanza di raccolti. Per la qual cosa varie famiglie dovettero rinunziare alla libertà, divenendo coloni di qualche ricco signore o dipendenti di qualche chiesa o monastero, o addirittura riducendosi allo stato di schiavitù presso mercanti greci senza scrupoli.
Ma, tornato Carlo in Italia verso la fine dell’autunno dell’anno 780, con una serie di provvedimenti cercò di porre riparo al disordini del regno, esaudendo le lamentevoli richieste delle popolazioni, assicurando l’ordine pubblico, riordinando l’amministrazione della giustizia, ristabilendO il buon governo delle parrocchie e restaurando gli ospedali e gli asili per i poveri. Nella primavera del 781 celebrò a Roma la Pasqua, precisamente il 15 di aprile, ed in quella occasione cedette al papa Adriano I il territorio della Sabina, occupato dal Longobardi fin dal tempo di Liutprando e non più restituito, malgrado le vivaci sollecitazioni della Chiesa; stabili quindi un nuovo confine tra il ducato Romano e quello di Spoleto ed, a titolo di risarcimento, dispose che d’allora in poi alla tesoreria papale venissero corrisposti i proventi, che da Spoleto e dalla Tuscia Longobarda in precedenza erano stati pagati alla Corte di Pavia.
Si riservò la sovranità sopra i due ducati, che continuarono pertanto a dipendere direttamente da lui: cosi avvenne anche sotto il figlio Ludovico il Pio, il quale confermò la concessione paterna al Papato con la medesima riserva. In conseguenza di tale generosa concessione del re Carlo in favore della Santa Sede, la gastaldia dei Marsi divenne tributaria del Papa, essendo dipendente diretta e partecipe del ducato di Spoleto. Da quel momento la Marsica cominciò ad avere rapporti con la Curia Romana anche per via politico-amministrativa, oltre che religiosa, ed il fatto dovè offrire ovviamente maggiori possibilità di contatti tra i paesi marsi e la città di Roma. In seguito a questa nuova condizione, Avezzano per la sua posizione topografica particolare crebbe di importanza, quale centro di passaggio obbligato per raggiungere l’Urbe da parte delle popolazioni ripuarie e di quelle situate, lontane dalla riva, ad est, a nord-est ed a sud del lago Fucino, e che erano le più numerose della regione.
Frattanto, col nuovo dominio, venne maturando nel governo dei territori soggetti della Penisola l’esigenza di innovazioni, che potessero meglio rispondere alle istanze del momento, caratterizzato dal sistema politico-economico di instaurazione carolingia e che si articolava nelle istituzioni gerarchiche feudali, facenti capo all’imperatore franco. Sicché, stando a quanto si legge nella Cronica Volturnese ” totius Valeriae provinciae comites instituit “, intorno all’anno 859 Ludovico Il nominò Conti tutti i gastaldi della provincia Valeria, e si ebbe quindi un tal conte Gerardo, che fino a quell’anno era stato investito della gastaldia già da tempo ridotta al solo territorio dei Marsi.
Da tre importanti documenti, contenuti nella Cronaca di Casaurla risulta il nome di un conte Ildeberto; detti documenti consistono: il primo in una sentenza di un placito o giudizio, tenuto in Marsica da Ildeberto, relativamente al possesso di una terra, sito in territorio marsicano, che tali 0nori ed Angerirsi si contendevano, e questo fatto accadeva ” nell’anno di salute 850 e nell’anno VII della sua contea “; il secondo, in una quietanza rilasciata da tal Corvino all’imperatore Ludovico per il prezzo di vendita di vari beni, siti nel territorio di Penne, in provincia di Pescara, ” nell’anno 853 al tempo del conte Ildebrando e dell’anno X della sua contea “; il terzo in un atto di vendita di ragguardevoli beni, siti nel territorio di Valva, l’antica Corfinium, che i fratelli Liutardi fecero alla regina Ermengarda ” nell’anno 856 al tempo del conte Ildeberto e dell’anno XII della sua contea ” (1).
I documenti sopra citati provano che Ildeberto aveva potere su una parte del ducato di Spoleto, che comprendeva anche la Marsica. Il Muratori però non è sicuro che fosse conte dei Marsi o piuttosto duca di Camerino, perché in quei tempi spesso, i duchi ed i marchesi si dicevano conti, e parlando ancora del placito, che Ildebrando tenne nella città di Marsia nell’anno 850, dice ancora: ” Potrebb’essere che conte o duca ci fosse in compagnia di Guido; perciocché quel ducato soleva essere governato da due duchi, non so se in solido, oppure dall’uno di qua dell’Appennino, dall’altro di là; veggendosi da qui avanti due ducati di Spoleto e di Camerino. Ma non ci somministra la storia bastanti lumi per ben decidere questo punto ” (2).
Sta di fatto che, morto il duca di Spoleto, Guido, di antica e nobile famiglia salica e di grande capacità di governo, gli successe il figlio Lamberto, mentre Camerino era retta dal conte Ildeberto, che sembra abbia cominciato a governare dall’anno 843 (3). Non si sa in quali circostanze sia avvenuta la divisione dell’antico ducato spoletino nel due versanti appenninici; ma è certo che i due ducati formavano ormai due stati indipendenti l’uno dall’altro, divisi in contee e gastaldati, che nella regione d’Abruzzo si intrecciavano tra loro con confini assai irregolari. La natura del paese e la lontananza dal governo centrale forniva al duchi di Spoleto e di Camerino l’occasione di agire con assoluta indipendenza dall’autorità imperiale e senza alcun riguardo verso le popolazioni soggette. Alcune prepotenze compiute da Ildeberto, essendo giunte all’orecchio di Ludovico, fecero traboccare il vaso, perché l’imperatore attraverso la Romagna mosse verso Camerino e ordinò al duca di comparire dinanzi al tribunale, che fu stabilito tra lesi e Camerata Picena e costítuíto dal messi imperiali Vibodo, vescovo di Parma, Adelberto contestabile, Vopaldo conte di Palazzo ed Eccidio coppiere maggiore.
La comparizione era cosi motivata: “ad reddendas hominum singulorum iniustitias et oppressiones, quas fecerat, emendandas”, come riferisce testualmente la Cronica di Casaurla (4). Il tribunale condannò Ildeberto a restituire a Ludovico tutti i suoi beni, esistenti nel ducato di Spoleto e di cui si era arbitrariamente impossessato. Allora il duca, non volendo soggiacere alla condanna, tentò di ribellarsi, accordandosi con Lamberto duca di Spoleto; ma la loro congiura fu scperta ad essi furono costretti a fuggire. Ludovico risolse di inseguirli ed attraverso il Piceno e l’Abruzzo giunse alla città di Marsia, ove i due ribelli avevano trovato un primo scampo; poiché si avvidero di non poter resistere, fuggirono prendendo la via di Benevento e trovando asilo presso Adelchi, principe di S. Agata. L’imperatore proseguì nell’inseguimento, deciso a prenderli ad ogni costo, e seguendo l’alta valle del Volturno, conquistò le città di Isernia, di Alife e di S. Agata: e cosi, essendosi pure interposto l’abate di Montecassino, Bertario, parente del principe Adelchi, questi si sottomise a patto che Ludovico concedesse grazia al duchi ribelli.
Il duca Ildeberto pero si era messo in salvo presso i Saraceni di Bari, e nessuna altra notizia la storia ha conservato di lui. Ottenuta la sottomissione dei ribelli, l’imperatore riprese la via dell’Italia Settentrionale, mentre nel Meridione le cose tornavano allo stato di prima. I Saraceni di Bari, condotti dal sultano Seodan, rinnovarono le minacce contro Benevento, il cui duca fu costretto a pagare un tributo ed a cedere ostaggi, mentre alcune bande di essi devastavano i gastaldati di Telese e di Boiano e saccheggiavano il monastero di San Vincenzo al Volturno, la cui distruzione fu risparmiata per il pagamento di tremila soldi d’oro, spingendosi fino a Napoli e a Capua. Dalla Cronaca Volturnese e da quella di Leone Marsicano nonché dallo stesso Muratori si apprende che, tornando i Saraceni carichi di bottino da questi territori depredati, furono assaliti da Maielposo, gastaldo di Telese, e da Guandelperto, gastaldo di Boiano, i quali con tante e vive preghiere avevano indotto ad aiutarli Lamberto, duca di Spoleto nell’859.
Ma furono quasi totalmente disfatti dalle feroci schiere saracene, tanto che rimasero uccisi sul campo i tre gastaldi Gerardo, Maielposo e Guandelperto (5). Il fatto produsse commozione e sdegno in tutti i cristiani del regno dell’Italla, e si è indotti a credere che le importanti deliberazioni prese a Pavia nell’assemblea degli Ottimati, convocata dall’imperatore il 4 febbraio 865, siano in stretto rapporto con la nota ” Constitutio promotionis exercitus”, riportata dal cronista cassinese, nella quale Ludovico stabili le norme per la prossima spedizione beneventana. L’importanza della ” Constitutio ” è tale da illuminare sulle condizioni dell’Italla centro-meridionanale e da dare un’idea ` anche se approssimativa, della forza dell’esercito di Ludovico, massimo sforzo d’armi di un principe carolingio sul suolo della penisola.
Fu stabilito che la spedizione militare sarebbe partita da Ravenna ed avrebbe raggiunto Pescara alla metà di marzo; l’esercito del Regno italico avrebbe marciato sotto il comando diretto del re Ludovico; i Toscani avrebbero preso la via di Roma, continuando per Pontecorvo, Capua e Benevento; adunata generale a Lucera, dove Ludovico sarebbe giunto il 25 marzo dell’866. Ma vi fu qualche mutamento, perché l’imperatore Ludovico, quale re d’Italia, nella sua marcia intendeva toccare il maggior numero possibile di città e di centri importanti, perché la sua autorità fosse riconosciuta da tutti e fossero sentiti i suoi richiami e le sue esortazioni alla pace ed alla concordia fra tutte le popolazioni dell’Italia centro-meridionale, onde riuscire con sicurezza nell’impresa contro i Saraceni di Bari.
La partenza pertanto ebbe luogo a primavera inoltrata dell’anno 866, dando Ludovico un’altra direzione al suo itinerario. Giunto a Pescara, anziché continuare la marcia lungo il litorale adriatico, deviò nell’interno attraverso il territorio del ducato di Spoleto, dirigendosi verso la Marsica, per raggiungere la città di Sora e quindi Montecassino, dove venne accolto molto festosamente dall’abate Bertario, e ricevette le deputazioni di varie città, venute a fargli atto di ossequio (6). Giunto infine a Benevento, dopo alterne vicende di guerra con i Saraceni nel periodo di circa quattro anni, strinse Bari con un forte assedio, riuscì ad espugnarla il 2 febbraio dell’anno 871, facendo prigioniero il sultano con tutta la sua famiglia: i Saraceni allora subirono una vendetta degna della loro ben nota e provata ferocia (7).
Marciando attraverso i territori marrucino, peligno e marso, si può essere certi che l’imperatore Ludovico II, fra gli altri centri incontrati lungo il tragitto, per lui di molta importanza, tanto che cinque anni dopo tra Chieti e Valva fondò la famosa Abazia di San Clemente a Casaurla in adempimento di un voto fatto, ebbe a toccare anche Avezzano, che si trovava sin dalla nascita sull’itinerario naturale per Sora. Per chi parte infatti da qualsiasi luogo del Fucino, come non esiste oggi, non esisteva allora altro transito più agevole, più celere e più sicuro di quello che si è sempre battuto attraverso la valle Roveto dal passo di Capistrello, seguendo il corso del fiume Liri, onde raggiungere Sora con vantaggioso risparmio di tempo e di energie, specie per un esercito in movimento con tutti i servizi al seguito. Avezzano costituiva, allora più che mai, punto di passaggio obbligato per quanti fossero diretti verso Sora, perché sorgeva nel suo territorio un nodo stradale, per l’incontro di vie antiche, e di ogni altra nuova, da Roma, dall’Adriatico, da Rieti, da Montecassino e quindi da Sora medesima, con la quale città Avezzano ha sempre avuto un traffico intenso.
Inoltre è da ritenere che Ludovico certamente fece sosta in Avezzano, onde ricevere l’omaggio filiale e devoto dei monaci del monastero benedettino di San Salvatore, dipendente dall’abate di Montecassino, amico dell’imperatore e fautore della sua politica, monastero che sin da quell’epoca godeva di una certa notorietà. Leone Marsicano (8) infatti fa cenno della chiesa e del monastero benedettino di San Salvatore in attività proprio nell’anno 866, durante il quale sulla fine del mese di maggio Ludovico passò per Avezzano; ne parla inoltre un diploma del re Berengarlo e di Adelberto dell’anno 953, anche in relazione alla conferma dei possedimenti del monastero di Barregio (9). E’ bene ricordare a questo punto che, dopo il terremoto del 1915, mentre si procedeva agli scavi ed allo sgombero delle macerie della chiesa collegiata di San Bartolomeo, fu rinvenuta una pietra rettangolare, spianata in una faccia, su cui era scol duplice solco, la cui originale immediato.
Il rinvenimento fece andare con la mente ai primi tempi dell’attività benedettina nella Marsica, nel cui paesi sorgevano chiese e monasteri dell’Ordine di San Benedetto, dal quale le popolazioni locali trassero grande beneficio ed ausilio, come è stato già detto. L’illustre stupita una decorazione a nastri con finezza era di effetto gradevole, altresi la somiglianza assai stretta col sta di Bazzano eseguito anche condioso dell’architettura in Abruzzo, Ignazio Carlo Gavini, pensò subito ad una chiesa dei primi tempi- ivi costruita, ma dalle indagini svolte al riguardo poté ottenere soltanto qualche notizia, non certo sufficiente per illustrare l’interesse architettonico della costruzione e l’importanza monumentale del luogo.
Sì sapeva che in Avezzano era esistita un’antica chiesa con relativo cenoblo, dedicata a San Salvatore ed appartenente fin dalle origini al Benedettini di Montecassino; attorno ad essa si erano riuniti gli abitanti dei vichi sparsi in vicinanza, costruendo le loro case sulle rovine della città madre, Anxantium, formando cosi il nuovo paese, che divenne ben presto centro di transito di un certo rilievo; ma non si era mai riusciti ad ídentificare la detta costruzione fra monumenti di Avezzano anteriormente ai disastro tellurico del 1915. L’interessantissimo rinvenimento potè permettere di scoprire la chiesa di S. Salvatore, nominata nel Chronicon di Leone Marsicano e nel diploma di re Berengarlo e di Adelberto innanzi citato, fra i ruderi della Collegiata di San Bartolomeo.
Ora si può essere certi che i Benedettini avevano costruito la chiesa ed il monastero di San Salvatore sul medesimo sito del tempio di Augusto, già dedicato a Giove Statore, venerato dagli Anxantini nell’antica città di Anxantium, come è stato precedentemente dimostrato. Del resto è nota la straordinaria attività dei Benedettini nel trasformare templi pagani in chiese cristiane, con annessi cenobi, che assunsero fin dal primi tempi grandissima importanza, come quelli di Montecassino e Subiaco, ove erano venerate in antico divinità greco-romane. Nella Marsica inoltre il tempio di Apollo in Albe fu trasformato nella stupenda chiesa di S. Pietro, tornata in piena efficienza mercé l’Opera della Sovrintendenza ai Monumenti dell’Aquila, che fece ricostruire pure la chiesa di Santa Maria di Luco, anch’essa benedettina, sorta presso l’antichissimo tempio-santuario di Angizia.
Il Gavini cosi conclude i suoi rilievi a proposito del rinvenimento: ” La faccia completa del masso parallelepipedo misura metri 1,02X0,45; lo spessore varia da 0.20 a 0.25, essendo stato posteriormente scalpellato. Nella faccia di destra il masso presenta una scanalatura per incamerazione, che non arrivava a tutta altezza: ragion per cui si comprende che esso costituiva il pilastrino di destra di un varco della chiusura presbiteriale, emergendo in altezza sul pluteo, che vi si doveva innestare a lato ” (10). Si può ritenere che l’opera descritta sia stata eseguita dagli stessi maestri, che lavorarono nella chiesa di San Cesidio di Trasacco, e che di passaggio per Avezzano, dietro invito dei monaci, si siano fermati in San Salvatore, per compiere lavori di decorazione nella chiesa: non è difficile infatti rilevare che le medesime note di grazia traspaiono dall’arte decorativa, che risulta essere stata comune alle due chiese marsicane, per quanto possano consentire gli elementi a disposizione.
L’importanza del monastero e della chiesa di San Salvatore di Avezzano è celebrata dal seguente brano di Giovanni Titta Rosa (11), scrittore e letterato conterraneo di grande talento: ” Le ricerche di Gaetano Sabatini, seguite in Pescocostanzo, portarono alla luce nuove testimonianze dell’influenza cassinese in Abruzzo e la scoperta di M. Avery, nell’Archivio della Curia Vescovile di Avezzano, confermò quel magistero scrittorio e artistico. Infatti il rotolo dell'” ExuItet ” di Avezzano, che si può bene attribuire al secolo XI, rappresenta il tipo di scrittura cassinese del perfetto modello, che gli scribi elessero come espressione della loro capacità professionale, e le figurazioni che illustrano il preconio pasquale sono un vero capolavoro di quello stile artistico, che distingue il miniatore cassinese per sentimento e per gusto. Il rotolo di Avezzano è indubbiamente un prodotto autoctono. Nella medievale Avezzano infatti sorse ed ebbe rigogliosa vita quel monastero di San Salvatore, scoperto tra i ruderi della chiesa di San Bartolomeo ‘ che Leone Ostiense (Marsicano) ricorda nel Chronicon Monasteri Casinensis, e che nel corso dei secoli – dalla fondazione al secolo XIII – gode una fioritura artistica di esuberante decorazione plastica” (12).
Una certa rinomanza Avezzano fin da quell’epoca doveva trarla precipuamente dal monastero di San Salvatore, ove l’arte della miniatura, nata proprio nei cenobi benedettini, doveva essere onorata con fervida vena e con cura particolare nell’ornamento di libri liturgici, come evangeliari, epistolari, antifonari, salteri, con iniziali, fregi, figure e quadretti. Oltre al rotolo dell'”Exultet” che fu eseguito per il Vescovo dei Marsi, Pan,dolfo, nell’anno 1057 (13), in verità non risultano molti gli esemplari primitivi di tale arte nel periodo romanico: si possono oggi citare, per esempio, quello che raffigura “l’architetto Lanfranco, che dirige la costruzione del duomo di Modena “, conservato nell’archivio della cattedrale di Modena e appartenente al secolo XII, e l’altro, che rappresenta la ” Lettura dell’Exultet “, esistente nel duomo di Capua. I quadretti, riproducenti per lo più scene della vita contemporanea, sono animati da un realismo ingenuo, e le iniziali divengono pretesto per figurazioni complete di carattere decorativo, o per veri quadri, nel quali nulla viene trascurato. Segnatamente nel secoli XI e XII l’arte della miniatura prese uno sviluppo sempre crescente, sicché verso la fine del sec. XIII sorsero scuole laiche fiorenti in tale genere artistico, che venne applicato anche a libri profani.
Grande fama raggiunse in detta epoca Oderisi da Gubblo, che Dante ricorda come maestro illustre di tale arte (14), e che in Bologna, ove mori nell’anno 1299, ebbe continuatori, fra cui il celebre Franco Bolognese, stando alle parole del Poeta (15), Anche Giovanni da Gaibana, nel pressi di Padova, in un epistolario del duomo di Pavia, (anno 1259) lasciò uno dei documenti più splendidi della miniatura romanica, nel quale la vivacità dei colori viene espressa,nella forma più gioiosa e smagliante per quel tempi. Questi accenni e richiami alla storia di attività artistiche speciali di quell’epoca, alle quali è stato sempre e doverosamente attribuito gran pregio, si rivelano tanto opportuni, quanto necessari, perché si possa facilmente desumere la rinomanza, cui pervenne il monastero di San Salvatore di Avezzano, che attraverso vari secoli rifulse per il magistero dell’arte della miniatura e della scrittura, facendo cosi distinguere il nome del paese, dove il cenoblo sorgeva.
Fu quindi un centro di cultura di un certo rilievo, come molti altri monasteri benedettini, nei quali veniva praticata dal monaci la trascrizione dei manoscritti, sia come forma di disciplina monastica sia per interesse verso lo scibile. Con questa particolare attività la maggior parte degli scritti del passato, che ci sono pervenuti, furono riprodotti allo scopo precipuo di evitarne la perdita, e tale opera, oltremodo meritoria, venne svolgendosi, senza interrompersi, fin dall’epoca della nascita della Regola Benedettina. Si rese pertanto indispensabile l’istituzione di una grande aula, che si chiamò ” scriptorium ” o sala generale di scrittura, che successivamente divenne uno degli elementi architettonici fondamentali dei cenobi: in detta aula figurava una dedicatoria molto significativa, formata dalle seguenti parole: “Degnati, o Signore, di benedire questa sala dei tuoi servi, affinché tutto ciò che essi vi scrivono possa venir compreso dalla loro intelligenza e attuato nelle loro opere”. La qual cosa dimostra che l’azione dei copisti non si risolveva in una funzione meccanica vera e propria, ma era diretta a produrre un effetto intellettuale e morale nell’ordine monastico e fuori di esso nella vita del secolo.
Giovanni Pagani
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