Egli fu uno dei tre giovani che don Savino scelse per costituire il comitato di assistenza e che, insieme con gli altri due, giurò solennemente ” per la vita e per la morte ” (cosi si espresse il sacerdote nella commemorazione pronunciata il giorno dell’anniversario del martirio di Giuseppe) di rimanere fedele al patto e di non tradire mai i compagni di lotta. Era il più giovane dei tre ed aveva appena 19 anni quando prestò il sacro giuramento. Come abbiamo già accennato, non appena egli ed i suoi amici vennero a contatto di un gruppo di partigiani marsicani operanti nella zona, si aggregarono alla cosiddetta ” Banda dei Patrioti Marsicani “, comandata dal capitano Aldo Di Loreto, fucilato più tardi a Villetta Barrea dai tedeschi. Era un gruppo di audaci, decisi a tutto; ed il comando tedesco di Civita d’Antino ne era stato messo al corrente dal traditore fascista infiltratosi tra i soldati fuggiaschi. Nella relazione del 7 luglio 1944, don Savino espone con lucida precisione la situazione di quei giorni a Morrea con queste parole:
Le truppe tedesche dislocate nei paesi confinanti al nostro, lo ritenevano un paese pericoloso. Ci è stato riferito che dicevano: Morrea partigiana, Morrea socialista, Morrea kaputt. E Morrea – continua il piccolo prete con una certa enfasi, ma con giustificato e comprensibile orgoglio – ha sfidato la minaccia. I tedeschi sono passati, l’orda barbarica è fuggita, e Morrea sta a dire a tutti la sua audacia e la sua fortezza. Il duro accerchiamento del 21 marzo dimostra che il popolo di Morrea si spezza, ma non si piega.
Queste espressioni, sia pure un po’ retoriche e tuttavia sincere dello scrivente, tipiche anche della cultura del tempo, giustificate dalle circostanze e dalle sensazioni ancora forti e palpitanti degli avvenimenti tumultuosi e tragici di quei giorni, costituiscono, a mio avviso, un documento di altissimo valore civile e morale e ci inducono a meditare sul vero valore della Resistenza italiana che Luigi Salvatorelli compendiava in questa frase: ” La Resistenza armata fu il coronamento di quella civica ” (” La Stampa “, Torino, Anno VII, n. 213) (15). Lo dimostrò quel manipolo di giovani abruzzesi che, dopo avere operato in misura straordinaria sul piano organizzativo dell’assistenza ai prigionieri, si costituì in gruppo operativo e comincià a procurarsi le armi necessarie per affrontare la guerriglia contro i nazisti tra i monti e le valli della Marsica. Scriveva Luciano Luisi su ” Il Popolo ” de1 24 giugno 1945 (16).
Tutta questa operosa attività non placava l’amor patrio di Giuseppe Testa. Non pago di essere dei più attivi, di esporsi maggiormente degli altri, pensò di creare una banda armata. Al suo appello risposero molti giovani e la banda serrò presto le sue file, ansiosa di cimentarsi. Ma il suo capo non doveva vederne neppure le prime gesta.
Infatti all’alba del 21 marzo scattò la trappola dell’accerchiamento e dell’irruzione di centinaia di soldati tedeschi nel paese e nelle case di Morrea, guidati dall’infame delatore che si era fatto passare per ufïiciale medico inglese fuggiasco”. Giuseppe Testa e gli altri membri del comitato furono tutti arrestati, trascinati a valle prima a San Vincenzo Valle Roveto, poi al comando tedesco di Civita d’Antino dove subirono un primo interrogatorio ” scientifico “, come lo definisce il Viviani (18), riecheggiando la relazione de1 comandante inglese Homer Stebbins, inviata al Comune di Morrea come attestato di riconoscenza per i servizi resi alla causa alleata dai cittadini di Morrea. Dopo questo primo duro interrogatorio, don Savino ed i parenti del Testa furono insperatamente liberati, mentre per gli altri tre giovani del comitato cominciò un lungo calvario di interrogatori e di torture da un comando all’altro.
Nessuno di loro parlò né indicò i luoghi dove si erano rifugiati il comandante inglese Douglas Dutton, che era ricercato in maniera particolare dai tedeschi, e gli altri prigionieri alleati. Non avendo prove d’accusa il Gemmiti e il Casalvieri furono anch’essi rilasciati. Fu trattenuto invece il giovane Testa, che continuà a subire interrogatori, torture e umiliazioni. Da uno di quegli interrogatori a Civita d’Antino usci con un braccio spezzato. La notte stessa lo trascinarono per le vie del paese con un cappio alla gola, fingendo di portarlo al capestro nella speranza che finalmente parlasse. Ed invece ” non gli cavarono nulla dalla bocca “, come rivelò al giornalista Viviani don Savino Orsini (19). Da Civita il prigioniero fu portato al comando tedesco della Madonna della Stella, presso Sora, dove fu sottoposto inutilmente a spietati interrogatori dal tribunale militare per circa cinquanta giorni. Continuò sempre a negare che a Morrea ci fosse un comitato o una banda armata di partigiani o prigionieri alleati. Gli offrirono di mettersi al loro servizio per aver salva la vita, ma lui rispose: ” La vostra divisa disonora l’uomo ” (20). La sentenza di morte lo liberà da quello stillicidio di disumane torture: ma il paese fu salvo da ritorsioni, salvi i compagni del comitato e quelli del gruppo armato, salvi i soldati fuggiaschi, nascosti nelle case e nelle grotte circostanti. La sentenza doveva essere eseguita la mattina dell’11 maggio in località Fontanelle di Alvito. All’alba di quel giorno una pattuglia di soldati tedeschi bussò in Alvito alla porta di casa dell’abate don Crescenzo Forte (21), comunicandogli che doveva seguirli immediatamente per assistere un condannato a morte. ” “Quanti anni ha?”, chiese don Crescenzio, il parroco di Alvito, durante il tragitto in macchina ad uno degli accompagnatori. “Quasi quaranta”, rispose quello. Invece, introdotto in una piccola cella, si trovò di fronte un giovane di diciannove anni dal volto sereno, se pur pallido ” (cosi racconta Luciano Luisi sulla pagina de ” Il Popolo ” del 24 giugno 1945). A questo punto ritengo opportuno riportare integralmente un documento autentico: la lettera scritta dallo stesso don Crescenzo Forte al dottor Nicola Nota di Sora, suo amico, appena cinque giorni dopo l’avvenuta fucilazione del giovane Testa:
Gent.mo Sig. Dottore, si, io ho avuto la tristissima sorte di assistere il povero Giuseppe Testa; dico tristissima, perché questo compito, nel mio ministero, è stato il più doloroso. La mattina dell’11 c.m.. alle ore 5,55′, una macchina tedesca è venuta a prendermi per portarmi al Comando. Dopo pochi minuti è giunto l’infelice vittima. Ho inteso i suoi pianti e le sue scuse e immediatamente sono stato introdotto nell’ufficio dove egli era legato. Ho fatto sciogliere il caro giovane dicendomi impossibilitato a compiere il mio ministero col condannato legato. Una volta sciolto mi si è buttato addosso piangendo e pregandomi di salvarlo. Ho cercato di rianimarlo, ma non ci sono riuscito fino a quando l’ho lusingato col dirgli di chiedere la grazia e poi di poter rivedere la famiglia ed infine di parlare col Comandante di questo Presidio. Tutto è stato negato. L’ho invitato a mettere in grazia di Dio la sua coscienza, ed egli piangendo, sempre stretto al mio collo, si è confessato. Gli ho poi detto di ricevere la S. Comunione e qui è avvenuto il miracolo. Dopo la S. Comunione egli è caduto in ginocchio e con la faccia stretta fra le palme ha pregato. Poi si è rialzato. Non piangeva più. Mi ha detto: ” Padre, se Dio vuole la mia fine, sia fatta la sua volontà. Voglio andare alla morte da vero cristiano e da vero italiano. Vi prometto di non piangere più! “. Cosi è stato. L’ho invitato a scrivere; prima non gli è stato possibile e voleva che scrivessi io, ma poi col lapis ha scritto le lettere che consegno al porgitore. Poi è stato rilegato con le mani dietro la schiena e in macchina, accompagnati da due sentinelle e da due ufficiali, siamo stati condotti sul luogo dell’esecuzione.
Gli ho messo la mia corona al collo, un piccolo Crocifisso nel taschino. Gli ho rinnovato l’assoluzione; ha baciato il mio Crocifisso; ha ripetuto ad alta voce: ” Gesù mio misericordia “. L’hanno bendato, sebbene lui non volesse. Ha detto: ” Padre mi sostenga! “. Gli ho messo la mano sotto il gomito, ma mi hanno fatto segno di distaccarmi. L’ho lasciato ripetendo le ultime giaculatorie che egli ha ripetute. Poi una scarica l’ha afflosciato ai piedi dell’albero al quale era appoggiato. Mi sono avvicinato al cadavere recitando le preci dei morti. Un ufficiale mi ha ancora allontanato, sparandogli un colpo di rivoltella alla tempia sinistra. L’abbiamo adagiato su un carretto messo a disposizione da questo podestà, avvoltato in un lenzuolo e l’ho accompagnato al cimitero. Abbiamo rimediato una cassa e sepolto. Al custode ho raccomandato di custodire la sua fossa. Sulla croce abbiamo scritto il suo nome, che sarà glorioso per la famiglia, per il paese e per gli amici. Egli è tra i Beati del Paradiso.
Ho scritto queste poche parole ancora sotto l’impressione tristissima che porterà per tutta la vita mia. Compatisca se non ho scritto correttamente.
Don Crescenzo Forte
Alvito 16 maggio 1944.
Riporto ora il testo delle tre brevi lettere scritte a matita dal giovane patriota, indirizzate alla madre, al padre ed al prof. Agostino Marucchi, l’uomo che era stato suo maestro e ne aveva temprato il carattere:
Cara mamma, non preoccuparti per me; è il destino crudele che ha voluto colpirmi in questo modo. Perdonami di tutti i peccati e dei dispiaceri che ho mancato verso di te. Io vado con coraggio alla morte. Baci a Italia, Concettina, Oreste, Carlo Angelino e Gabriella(22) , un forte abbraccio a te.
Peppino
Caro papà, perdonami anche tu di tutto quello che ho mancato verso di te. Fa’ coraggio a mamma; non pensare a me. Saluti e baci a tutti.
Peppino
Caro professore, la mattina del giorno 11/5/44 il destino ha segnato per me la fine. Io, come sai, sono sempre forte, come sono state forti sempre le mie idee. Spero che il mio sacrificio valga per coloro che hanno lottato per le stesse mie idee e che un giorno possa essere il vanto e la gloria della mia famiglia, del mio Paese e degli amici miei. Voi che mi conoscete potete ripetere che il mio carattere si spezza ma non si piega. Abbiatemi sempre presente in tutti i vostri lavori, e specialmente in tutte le opere che compirete per il bene della Patria cosi martoriata. VIVA L’ITALIA !
Tuo Peppino Testa
Al prof. Marucchi Agostino Via Gaetano Moroni, 10 – Roma
Si generano,commozione e tensione emotiva alla lettura di questi brevi scritti del giovane Testa: parole d’incoraggiamento e di conforto per i genitori e fratelli, parole di gratitudine per chi gli era stato maestro di vita, parole di fierezza per il sacrificio supremo che si accingeva ad affrontare per la libertà, parole di speranza di poter essere un giorno ” il vanto e la gloria ” della sua famiglia, del suo Paese e dei suoi amici, ma ancor più commovente è quel suo grido finale con cui si accomuna a tutti i martiri del nostro Risorgimento: Viva l’Italia! Ripeterà per lui le parole che il Mazzini scriveva per commemorare Goffredo Mameli, il giovane patriota ventiduenne, morto per la difesa di Roma nel 1849: ” Egli accoppiava i due estremi si rari a trovarsi uniti (che Byron prediligeva) : dolcezza quasi fanciullesca ed energia di leone, da rivelarsi – e la rivelò – in circostanze supreme “.
Note
15. La Resistenza – scrive Fausto Montanari, II Secondo Risorgimento, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1953, pp. 481-487 – da una parte si inserisce nel processo storico del Risorgimento politico italiano e ne è il naturale sviluppo integrativo, dall’altra si inserisce in tutta l’evoluzione mondiale in modo più diretto e immediato… Le lettere dei condannati a morte della resistenza europea sono il primo fenomeno diffuso e popolare di presa di coscienza che la guerra è sempre una cosa tristissima, anche quando è necessaria… la guerra è brutta anche quando è nobile e bello morire in essa per difendere la dignità umana… e brutto resta il morire anche per la causa più giusta… perché dovunque c’è uno che muore ingiustamente, c’è un altro che ingiustamente uccide; e la dignità umana è avvilita; e la storia umana è sviata dalla via della vita e dell’amore, e infognata nella via dell’odio e della distruzione “.
’16. Luciano Luisi, Storia gloriosa di un paese oscuro, “Il Popolo “, 24 giugno 1945.
17. A proposito di questo falso ufficiale medico inglese di nome Giovanni, don Savino, in seguito ad una mia precisa domanda, ebbe a confidarmi che in realtà qualche sospetto sulla vera identità di lui aveva cominciato ad averlo tin da quando l’aveva visto tornare in paese, apparentemente addolorato e sconvolto, qualche giorno dopo che si era allontanato da Morrea con tre sedicenti soldati canadesi, che dicevano di voler passare ad ogni costo il fronte. Tuttavia il suo comportamento ipocritamente sincero e generoso, nonché la disponibilità dimostrata in occasione della malattia e della morte del soldato indiano Parsad Limbu, lo avevano dissuaso dal denunciarlo al comitato, altrimenti la sua sorte sarebbe stata inesorabilmente segnata.
18. Cfr. il citato articolo de ” l’Unità ” del 3 marzo 1945.
19. Ivi.
20. Ivi.
21. Don Crescenzo Forte, nato a Casalattico (Frosinone) il 7 giugno 1892 e morto il 21 febbraio 1950 ad Alvito, fu per ventisei anni abate-parroco dell’insigne Collegiata di S. Simeone.
22. Angelino e Gabriella erano due nipoti, figli della sorella Concettina.
Testi tratti dal libro Giuseppe Testa 1924-1944
Testi a cura di Mario Martini
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