Comune di Bisegna

L’ anno 845 riveste particolare importanza per la storia della Contea di Celano e, conseguentemente, per San Sebastiano dei Marsi. Risale all’anno 845, infatti, la prima dinastia dei Conti Marsi “de sanguine Francorum” rappresentata dai Berardi. Il “sanguine Francorum”, per la verità, appare alquanto annacquato, essendo stato acquisito attraverso il matrimonio di un Berardo Marso con una principessa carolingia, figlia del pronipote di Carlomagno Ugo di Provenza.

Ciò non toglie merito ai Berardi che riuscirono a mettere insieme uno dei più importanti principati d’Abruzzo con Celano come capitale di numerose terre che si estendevano da Carsoli alle porte di Rieti e che, ad Oriente, arrivavano fino ai confini di Sulmona. La dinastia dei Berardi, tra alti e bassi, accordi e tradimenti, governò fino al primo ventennio del 1200 quando decadde per mano di Federico II il quale, volendo vendicare la scelta di campo fatta dai Conti di Celano a favore del partito Guelfo di Ottone di Brunswick, devasta la città, azzera i Berardi e mise a ferro e fuoco l’abitato. Per un anno i celanesi sperarono di veder tornare il Conte Tommaso, fuggito durante l’assedio e al sicuro a Roma, e con lui ricostruire Celano. 

Ma le cose non andarono cosi. Non contento dello scempio fatto, Federico II radunò i celanesi e li fece deportare. Più che di un esilio si trattà di una crudele diaspora che vide intere famiglie smembrate e disperse tra la Sicilia e l’isola di Malta. Dopo tre anni Papa Onorio III, che aveva accolto a Roma il conte Tommaso in fuga, riusci ad ottenere clemenza per gli esiliati ai quali, Federico, concesse anche di riedificare la città a patto che questa non sorgesse nello stesso posto dove precedentemente si trovava. L’epoca d’oro dei Berardi, dunque, si protrasse dall’anno 845 al 1200 quando cominciò a decadere. Poi, superata la tragica parentesi federiciana, dopo la Battaglia di Tagliacozzo i Berardi tornarono in possesso del feudo. 

Ed è durante il primo periodo del loro dominio che troviamo la prima notizia certa dell’esistenza di San Sebastiano. I matrimoni combinati per favorire alleanze e le relative doti delle spose, portavano le contee medievali ad avere possedimenti lontani dal proprio feudo. Il più delle volte si trattava di paesi e terre che, data la lontananza, sfuggivano al controllo e non fruttavano a dovere. Per ovviare a questo problema era pratica comune tra i feudatari interessati, scambiarsi le piccole enclavi con i paesi che racchiudevano. C’erano poi le donazioni agli ordini religiosi e gli scambi di territori con quest’ultimi che servivano essenzialmente per sgravare dalle tasse le contee. Il tutto contribuì a rendere più visibile e controllabile il patrimonio delle contee e, indirettamente, forni alla storia le prime carte, i primi documenti che certificavano l’esistenza anche di molti piccoli villaggi che altrimenti non avrebbero trovato modo di apparire sulle pagine della storia. Questo è il caso di San Sebastiano dei Marsi che appare per la prima volta tra il 928 e il 929, quando Papa Leone VI assegna al Conte Berardo dei Marsi i feudi fucinensi. Un anno dopo, nel 930, Doda contessa dei Marsi, dona all’Abbazia di Montecassino seicento moggi di terra e la chiesa di Santa Maria in Luco.

Venti anni dopo, nel 950, l’abate cassinese Aligerno assegna eguali terre in enfiteusi al figlio della contessa Doda, Rainaldo. Lo scritto ufficiale che certifica il concambio del 950 viene perà redatto dal nipote di Doda, Rainaldo II, nel 1005. In questa carta si certifica che Doda e Rainaldo “causa concambii” diedero a Montecassino la “curtis” di Santo Stefano in Alife, nell’attuale provincia di Caserta, con quattrocento “modia” di terra, e un’altra a Teano in località “Campus” con cinquecento “modia” di terra ottenendo uno “scriptum de Sancta Maria in Luco et de Sancto Sebastiano”. Il documento riportato sul “Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Meedio Evo”, viene infatti definito come il rinnovo del “libellum” che lo stesso Rainaldo si era visto concedere dall’abate cassinese Aligerno nel 950; tutto cià fa pensare che il paese facesse già parte di quei beni assegnati tra il 928 e il 929 da Papa Leone VI al Conte Berardo. 

San Sebastiano dei Marsi, dunque, in quegli anni era già una precisa entità locale alla quale veniva attribuito valore di territorio. Il documento dell’Archivio Muratoriano di Roma, fa fare un balzo indietro di oltre duecento anni alle notizie certe sull’esistenza di San Sebastiano dei Marsi fino ad ora riportate dalla storiografia ufficiale che nomina questo centro per la prima volta nel “Catalogus Baronum”. Il catalogo, uno straordinario registro fatto stilare tra il 1150 e il 1168 da Guglielmo II il Buono, servi per censire le forze disponibili nelle varie Contee del regno da mandare a combattere in Terra Santa nell’inconcludente Seconda Crociata che arrestà la sua spinta sotto le mura di Damasco. 

Riordinato per la prima volta da Carlo Borrelli, dato alle stampe nel 1653, accresciuto di documenti dalla studiosa inglese Evelyn Jamison, il Catalogus riporta a pagina 215, paragrafo 1106, quanto segue: “Berardum Sancti Sebastiani sicut dixit predictus Comes ( Raynaldo di Celano n.d.r. ) tenet Sanctum Sebastianum in Marsi quod est pheudum j militis et cum augmento militum ij”. In parole povere nel 1150, un tal Berardo di San Sebastiano, feudatario del Conte Raynaldo di Celano, teneva San Sebastiano dei Marsi che, come feudo, era in grado di mandare a combattere in Terra Santa un milite e, in caso di bisogno, anche due. 

In verità un altro importante documento datato 2 gennaio 990, contenuto nel “Chronicon Vulturnense” del Monaco Giovanni, nomina un “Sancto Sebastiano de Valle, et omnibus aliis ecclesiis”. Il diploma citato, conferma altri due precedenti emanati rispettivamente da Ottone I e Ottone Il ma, né l’uno né l’altro dei succitati diplomi ottoniani, menzionano il possesso di San Sebastiano de Valle. Gli studiosi ritengono che il passo riguardante San Sebastiano de Valle sia stato interpolato successivamente la data del diploma stesso. Resta il dubbio, però, che la dizione “San Sebastiano de Valle” fosse utilizzata per distinguere il centro sorto con i Benedettini, giù nella valle vicino al Giovenco, da quello situato sul colle. 

Allora si potrebbe pensare che anche l’abitato antico, del quale l’Arciprete d’Arcadia ignorava il nome, si chiamasse San Sebastiano. Lo storico sulmonese Nunzio Federigo Faraglia, nel suo “Saggio di Corografia Abruzzese Medievale”, nel tracciare i confini della Diocesi dei Marsi esistenti all’anno 1115, nomina indirettamente San Sebastiano; la Diocesi infatti si estendeva dalla “Torre Ferraria o Ferrata presso Forca Caruso, al Capo di Carrito, alla via de’ Marso (Ortona dei Marsi ), alla Portella di Valle Putrida (Iacciotto di San Sebastiano dei Marsi ) seguivano poi la Serra di Feresca, l’Argatone, Serre di Campo (Campomizzo?), Formella, e discendevano poi al Mulino Vecchio ( Pescasseroli ): dippoi per le Serre de Vivo e Troia, per Pesco Canale, la Penna dell’Imperatore, Serra Corvara, San Britto…”. Nel 1187, un altra carta stabiliva che Rinaldo Conte di Celano, possedeva Celano, Pescina, Venere, Aschi, Ortona dei Marsi, Goriano Sicoli e San Sebastiano, mentre Berardo Conte di Alba era in possesso di Alba, Paterno, Trasacco Pesco Canale, Pietraquara, e Luco. 

Da questo periodo in poi, le testimonianze su San Sebastiano, legate principalmente alle sue chiese, si susseguono con una certa regolarità che permette di tracciarne la storia con buona certezza. Nel 1188 papa Clemente III, al suo primo anno di pontificato, su richiesta del Vescovo dei Marsi, emanava una Bolla che stabiliva quali e quanti fossero i beni del Capitolo e sanciva che questi rimanessero perpetuamente a regati al Vescovo Marsicano e a tutti i suoi successori. ‘: elenco delle chiese, all’ottavo posto, viene nominata la Chiesa di “Sancti Pancrati in Sancto Sebastiano” la quale, come tutte le altre, dipendeva dalla chiesa Matrice di Santa Sabina San Benedetto dei Marsi che, a quel tempo, era anche sede vescovile.

Tra le altre chiese citate figurano San Nicolai in Temple, la chiesetta abbattuta e in parte interrata al Templo, San Nicolai in Pecza, che come dicevamo si trovava nell’attuale Costa Rapindola, Sancti Salvatoris et Sancti Bartolomei in Bisegna, e Sanctus Salvatoris in Asclo, l’attuale Aschi. La Bolla, in pergamena con relativo sigillo in piombo, fu rinvenuta nell’Archivio Vescovile dei Marsi da Don Giuseppe Melchiorre. Copia di questa Bolla si trova anche tra le carte presentate dalla Duchessa di Amalfi in margine ad un processo sui confini della Montagna di Celano. La Bolla di Clemente III è datata in Laterano da Aloysi, Subdiacono vicario di Santa Romana Chiesa “…secundo kalenda Juni, indictione sexta, Incarnationis Dominicae anno millesimo, centesimo octuagesimo octavo. Pontificatus vero Domini Clementis Papae tertii anno primo… “.
Un’altra importante fonte di notizie è rappresentata dalle Decime papali che le chiese e quindi gli abitanti dei paesi dovevano pagare. Il pagamento da parte dei cittadini alla chiesa poteva avvenire in più maniere: chi era in grado di prestare opera doveva lavorare gratis per la chiesa e per il Comune che allora si chiamava “Università”; chi possedeva un’ascia doveva tagliare legna per l’utilità del castello e per le spese della chiesa; chi aveva una falce doveva mietere il grano per la chiesa; chi aveva un asino doveva metterlo a disposizione della chiesa per portare il grano al mulino e riportarlo molato ai sacerdoti; in occasione della Natività di Nostro Signore, chi aveva un maiale doveva dare una parte; chi aveva una giumenta doveva prestare opera nei campi. C’erano poi i pagamenti in denari, in cera, in pollame, in uova e altri beni di consumo.

In una pergamena del Duecento conservata presso l’Archivio Vescovile di Avezzano tra le decime da pagare figurano sessanta non meglio identificate “Parascidas”. La chiesa poi doveva versare parte delle decime al vescovado. Nel “Rationes Decimarum Italiae Aprutium Molisium” riguardante le decime dei secoli XIII e XIV, vengono riportate “In San Sebastiano Sant’Antoni siti in castello ipsius castri et Sancti Nicolai in Valle Rapindula”. La chiesa di Sant’Angelo di Bisegna, per esempio, doveva pagare una spalla di maiale e due pani, p’iù un cacio e due “retortolas” ( ciambelloni ) in occasione delle feste pasquali. Al punto 630 del catalogo delle Decime, nell’anno 1324, Berardus, rettore della chiesa di San Pancrazio in San Sebastiano si impegna a pagare per se e per i chierici la Decima dell’anno VII dell’Indizione che ammonta a tre Tarini in argento. Un’altra curiosità che testimonia quanto pescoso fosse il Giovenco, è data dalla descrizione di cià che doveva pagare per le Decime un tal Andrea Giovanni Urbani di Bisegna: per la festa di Natale un prosciutto di spalla e cinque pesci; per Pasqua cinque pesci e quindici uova; per la festa di Santa Maria cinque pesci e quindici uova”.

La Contea di Celano, intanto, dopo la vittoria di Carlo d’Angiò sul quindicenne Corradino di Svevia, con gli Aragonesi riacquistà tutto il suo prestigio. Leonello Acclozamora, uomo colto, legato alle vicende politiche e culturali della rinascenza, sposando Jacovella, ultima figlia del Conte Ruggero, si trovà alla guida della Contea di Celano. Il matrimonio fece scandalo perchè si sussurrava che lo sposo fosse “nipote ex frate” della sposa e l’unione, quindi, sapeva d’incesto. La cosa comunque non dovette trovare grande seguito, tanto che Leonello, molto apprezzato da Alfonso V il Magnanimo, fu da questi inviato a Roma per partecipare all’incoronazione imperiale di Federico III che aveva riconciliato la corte tedesca con la Santa Sede. Leonello e Jacovella gettarono i primi semi di quel Rinascimento che avrebbe toccato anche i centri della Valle del Giovenco. Nel 1424 troviamo la Terra di San Sebastiano tra i beni appartenenti a Jacovella. 

Il 27 febbraio del 1431 un’ecclisse totale di sole viene cosi ricordata dal Necrologium Atriense: “…all’ora decima il sole s’oscura e per un’ora si fa notte per tutti i mortali”. Al di la dei presagi di sventura, legati a quei tempi all’ecclissi, sia di luna che di sole, per la Contea di Celano sembrano invece aprirsi tempi migliori. Dopo i Berardi e l’Acclozamora un altro nobile nome lega San Sebastiano dei Marsi alla storia della contea di Celano: quello della famiglia Piccolomini. Antonio, nipote di Enea Silvio Piccolomini che sali al soglio di Pietro con il nome di Pio II, ebbe in sposa la figlia del Re di Napoli Ferdinando I, la quale oltre alla cospicua dote, fruttà al Piccolomini il Ducato di Amalfi. Con il matrimonio, ma anche per le sue indiscusse qualità di uomo d’armi e di cultura, Antonio Piccolomini, Conte di Celano, divenne anche Gran Giustiziere del Regno di Napoli, Duca d’Amalfi, Generale delle Milizie, Governatore degli Abruzzi e acquisi il diritto di aggiungere al proprio cognome la dizione “d’Aragona”. 

Alla morte di Antonio, la Contea di Celano passò ad Alfonso II Duca d’Amalfi, quindi ad Alfonso III Duca d’Amalfi, ad Innico IV Duca d’Amalfi ed infine a Costanza, Duchessa d’Amalfi, figlia di quest’ultimo. Un’intera dinastia, culturalmente illuminata, che importà in questa parte d’Abruzzo lo stile di vita della natia Siena. Con i Piccolomini gli arcigni castelli si trasformarono in piccole regge, le chiese cadenti vennero riparate e ingentilite da affreschi e preziosi interventi, il territorio stesso trovà l’ordine che troppo spesso era mancato. Per prima cosa vennero marcati i confini e ancora oggi, proprio nel territorio di San Sebastiano, a Terraegna, si puà vedere la “Pietra del Principe”, un termine di confine con su scolpito l’emblema dei Piccolomini: la mezzaluna. 


Testi tratti dal libro Il Paese della memoria
( Testi del prof. Ermanno Grassi e del prof. Pino Coscetta )

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