Apriamo il sipario con sguardo prospettico sul Carseolano e sui tanti borghi, che in quadro suggestivo lo costellano arroccati su speroni orografici spesso impugnabili, fasciati di legenda, gelosi custodi d’inaspettate memorie secolari. Il cuore del distretto carseolano e la Piana del Cavaliere, una e distesa a vista d’occhio, lambita dal fiume Turano, contornata da una parte dai monti sabini, carseolani e simbruini, dall’altra dai contrafforti della valle aniense.
La pleiadi castellanie, che formarono in passato l’entourage difensivo e politico dell’ambiente, vive tuttora nella nomenclatura toponomastica di Colli di Monte Bove, Villa Romana, Monte Sabinese, Tufo, Pietrasecca, Poggio Cinolfo, Oricola, Camerata, Pereto e Rocca di Botte, gravanti prima sulla corte di Sala Civitas (localizzata nel cuore della Piana presso l’attuale stazione ferroviaria di Oricola-Pereto), poi in S. Maria in Cellis, quindi nel castello di S. Angelo, che furono le diverse sedi del governo circoscrizionale dell’antica Carseoli avanti la struttura politico-amministrativa dell’età moderna. In questo lembo occidentale della terra d’Abruzzo, in un angolo riposto della Piana del Cavaliere, detto oggi Rocca di Botte, ebbe i natali nel secolo XII San Pietro Eremita (1) il cavaliere itinerante di questo racconto.
Con introduzione quasi enfatica, ma esatta, l’anonimo autore della sua Vita antica scrive di lui: ” Beatus igitur (2) Petrus de patria, quae vulgo Carzoli dicitur, in Castro Arcis Vegetis natus et nutritus… “, (3) in cui si giustificano l’entità centro – politica di Carseoli al tempo in atto e i naturali patrii diritti di Rocca di Botte, rivendicati dall’aggiunta ” in Castro Arcis Vegetis “.(4) Adagiata sul versante settentrionale del monte La Corte, non ignara del suo passato, Rocca di Botte sembra ancor oggi voler sbriciolare i suoi giorni di vita senza aggrovigliamenti. Quasi nascosta agli occhi furtivi e indiscreti, darebbe l’impressione d’essere fuori del mondo, se quel campanile della sua chiesa non l’additasse al cielo.
Ha un nucleo abitato ben composto, un monte che la corona di verde, un lembo di piano costellato di moderni villini; un paese di fate insomma per la modulazione dei confluenti diversi elementi, che lo compongono, se due moderne cave di pietra non lo schiacciassero come due pugni minacciosi di sterminio, La modernità sembra aver appena lambito certi aspetti della psicologia roccabottana ancora solita a cullarsi di ricordi spiccioli, ma seri e preziosi: a fondo degli usi e dei costumi non e difficile intravedere l’antica e fiera temperamentalità d’una gente bisognosa di tante cose, ma pretenziosa di nulla, contenta soprattutto di vivere entro l’argine del buon senso. Quando vive S. Pietro, nell’ambiente operano due comunità, l’una monastica, intorno alla quale gravita il mondo contadino, l’altra militaresca, incaricata della difesa della rocca, di cui restano oggi poche rovine, più evidenti nei secoli passati. (5) natus et nutritus… (n. II )
S. Pietro Eremita nasce intorno all’anno 1125. (6) Non si hanno di lui dati anagrafici, ma questi si ricostruiscono almeno approssimativamente dagli elementi correlativi focalizzanti la sua personalità storico-sociale, quali l’ambiente familiare, l’età nuziale, le vicende,pubbliche, infine i risultati scientifici delle ricognizioni ostologiche, che indicano le ossa del Santo come quelle di un giovane poco più che ventenne. La chiesa di S. Pietro Apostolo, (7) parrocchiale del piccolo centro roccatano, l’accoglie per la rigenerazione battesimale, nella quale in segno di predestinazione della sua futura missione riceve lo stesso nome del primo degli apostoli: Pietro, un nome e un presagio, infatti anche il piccolo neonato sarà alfiere di Dio, apostolo coraggioso e tenace, roccia su cui poggeranno le sorti future e progressive della nuova storia di Rocca di Botte e di Trevi. (8)
Chi fossero e come si chiamassero i genitori non sappiamo. La Vita antica non ne fa menzione, ne potrebbe farne, considerata la ritiratezza del Santo e la brevità della sua presenza in terre lontane. E’ certamente irreligioso il discorso proposto dall’anonimo autore dei versi eroici, (9) che a distanza di secoli ne!precisa l’anagrafe onomastica, inesistente ai tempi del Santo; allora infatti i cognomi erano inusitati e l’uomo veniva indicato col patronimico o – secondo l’uso longobardo – col nome battesimale, seguito da quello del feudo, della giurisdizione o del patronato. Uno sguardo esegetico attento ai costumi del tempo può invece metterci a contatto con le condizioni sociali della famiglia. La tradizione vuole che Pietro operasse da giovane due miracoli a favore dei suoi, intenti alla coltura: la moltiplicazione della semente e la scaturigine del fonte. Il settore agricolo fu dunque l’attività primaria dei genitori, alla quale d’altronde il feudalesimo lasciava pochi spazi di fuga.
Una condizione sociale, quella dei contadini, spesso cruda e costretta a sfangare tra molte difficoltà, ma non tanto da non permettere ai meno sfortunati un più elevato tenore di vita. Malgrado pertanto le comprensibili ristrettezze dei tempi, non possiamo a priori assegnare alla famiglia di S. Pietro il ticket della miseria; essa infatti con la proprietà agricola, tenuta in proprio o per terzi, ebbe in paese anche un edificio, che ancor oggi si indica come casa di S. Pietro e che e indice d’una certa prosperità economica per quei tempi tanto che il Pierantoni annota che detta habitatione in quel tempo e in questo Castello sarebbe stata sufficiente ad ogni nobile carseolano. (10) In verità i ritocchi apportativi nei secoli, particolarmente nel secolo XVII, furono notevoli e ne alterarono le linee maestre, ma S. Pietro ebbe una casa, anche se l’attuale complesso non ne definisce l’originale dimensione planimetrica.
Nel secolo XII Carseoli vive un’era di grandi eventi, sorseggia momenti d’ebbrezza pari a quelli del secolo avanti, quando con lo smembramento della diocesi dei Marsi e la creazione di quella carseolana di Attone l’ambiente sorbi il nettare di proposte ideali inaspettate. Ora i feudatari normanni si dividono le terre, i vecchi confini si sfaldano, il monastero sublacense arretra le posizioni, Rocca di Botte passa a ‘ Octo de Montaniola ‘. Negli animi si nutrono prospettive d’un avvenire migliore, perciò il popolo e allegro e prova a rappacificarsi con le frustrazioni quotidiane bruciando cataste d’illusioni. Ma le stagioni tagliano il fiato alle bravate e riducono al brodo la certezza che domani nasceranno i figli del vento.
Infatti le dominazioni normanne e poi quelle sveve non sono avare d’esazioni e di devastazioni. Rocca di Botte segue gli eventi con malsicura tranquillità, almeno nella speranza che la storia trovi un sicuro approdo. In mezzo a quel pizzico di case il campanile della chiesa suona le ore, sollecitando lavoratori e massaie a macinare con le coppe di grano anche astratti silenzi. In casa di S. Pietro la vita ha il ritmo antico; la famiglia (11) non e una serra, dove si coltivano i ciclamini di Dio, ma ha una propria religiosità: la madre scandisce il tempo tra la preghiera e il lavoro, il padre pensa alle fatiche, costretto a chinare il capo alle nuove sempre ricorrenti, decise dalle voglie dei signori e dei potenti. Pietro dal canto suo illumina d’allegrezza le giornate senza programma, come tutti i ragazzi, che a sei, otto o dieci anni non sanno ancora cosa sia l’esistenza, perché a quell’età ogni azione e un gioco e ogni gioco e vita. Egli ama la sua Rocca e vi trascorre il tempo con la combriccola di compagni e di adulti, siglando tra usi e costumi aviti giorni sereni, che la fanciullezza produce e la maggiore età rimpiange.
Quante cose pero non capisce nella girandola delle parole e dei fatti, che il tempo gli fa danzare intorno: briciole di concetti, accenni enigmatici, lontani da quelli casarecci e familiari, quante parole e grossi eventi nel piccolo quadrato del suo mondo bambino! Per non sentirsi solo, spesso s’inchioda alle mani della madre o del padre e li segue nel lavoro della mietitura, senza temere le randellate di caldo, che scarica il cielo liquefatto di luglio; rientra magari a sera con carichi di grano o di fieno. Segue i genitori anche in chiesa, (12) ove guarda con attenta curiosità quell’uomo, che si chiama prete e gli parla di Dio. I giorni s’ammucchiano, i fatti inciampano nei mesi e negli anni, ma non si capisce bene se nella Piana del Cavaliere si stia creando un nuovo mondo oppure il deserto. Riceve intanto la prima comunione e la cresima e dal momento comincia il viaggio, di cui ancora nessuno sa, neppure lui, perché non riesce ad allungare lo sguardo oltre il recinto della giornata.
Ma al di là della siepe della sua infanzia Dio traccia strane geometrie: in un Carseolano turbato e inquieto un ragazzo, senza saperlo, si prepara al restauro; principi, papi e re corrono per le vie d’Italia in cerca di soluzioni politiche e d’interesse, lui, Pietro, il monello di Rocca di Botte, saltella distratto per i prati di Vicende e di Fosso Fiojo. La vita dell’agricoltore non e vita di ruminante, e creazione, e miracolo continuo d’una primavera, che si gonfia di speranze. Pietro cresce in questo contesto familiare, tocca i quindici, sedici, diciotto anni, ha la gioventù nelle vene e deve aiutare i genitori; comincia a rimboccarsi le maniche, ma la fatica gli rosicchia i nervi.
Dietro i suoi rastrella chilometri di strada: oggi nei campi a dissodare una terra avara, domani al pascolo di buon’ora, quando la giornata stenta ancora a decollare. Impara a zappare, a vangare, a mietere, a falciare erba, a mungere latte, a raccogliere legna per la cucina e paglia per tamponare le crepe dei muri o le infiltrazioni d’acqua nel tetto tribolato dal vento; nelle ore di riposo prova anche a costruire zufoli. A sera, quando le ombre imbrattano il tramonto, la madre gli scodella una misera zuppa. Chiuso nei pensieri, che gli baruffano in testa, il giovane man,gia, ma, divertendosi coi ricordi del giorno, fila rosari di speranze.
Testi tratti da Pietro Eremita L’uomo della speranza da Rocca di Botte a Trevi
Testi a cura del Prof. Dante Zinanni