Comune di Scurcola Marsicana

Nell’aprile del 1769 il Rev. Don Domenico Quercia, già nominaTo dal re Carlo III di Borbone, Abate della “ragguardevole” Abbazia di S. Maria della Vittoria, di Scurcola Marsicana, presentò istanza preliminare alla Curia di Mons. Cappellano Maggiore, in Napoli, per ottenere la restituzione, in danno del Vescovo dei Marsi, della dignità quasi-vescovile e della giurisdizione attiva ordinaria in populuni et cleruni su molti paesi della Marsica, che asseriva di costituire la sua Diocesi badiale.

Ammessa la domanda, questa fu formalizzata dall’avvocato della stessa Real Corona Duca del Turitto con l’istanza fiscale del 10 febbraio 1771, che fu sintetizzata nella comparsa conclusionale dell’avversario, Avv. Filippo Puoti, difensore del Vescovo, con queste parole: “(L’Abate Quercia) credé proprio del suo spitito e degno del suo zelo di comparire nell’aprile dell’antepassato anno 1769 nella Reverendissima Curia di Mons. Cappellano Maggiore e con sua istanza asserì che, essendo stata detta Badia fondata nel 1277 dal serenissimo re Carlo I d’Angiò, era stata per tutta la metà del 160 secolo riputata la più insigne prelatura del Regno, come quella che aveva a se annessa la giurisdizione spirituale in moltissimi feudi, soggiungendosi essersi in fatto esercitata così dagli Abati regolari, che prima la godevano, come dagli Commendatari della Ill.ma Casa Colonna, ma che, questi poco badando ai diritti della medesima, dai Vescovi dei Marsi si era tale giurisdizione usurpata; onde concluse domandando che reintegrata restasse la detta Badia nel godimento ed esercizio della giurisdizione quasi-vescovile nelle Terre di Scurcola e Sorbo, sua Villa; Lecce; Gioia; Vico; S. Donato; Gallo; Cappelle; Corcomello e sua Villa; Poggio Filippo; Cese; S. Benedetto e Venere”.

Dall’”Avvertimento” pubblicato in calce alla comparsa dell’Avv. Del Turitto apprendiamo che la domanda fu estesa anche alle Terre di Catellafiume e S. Anatolia, non comprese nella primitiva istanza. Muove certamente a curiosità l’atteggiamento dell’Abate Quercia. Perché mai questo Abate così di punto in bianco, dopo circa tre secoli dall’abbandono e dal crollo della Abbazia, si fa a rivendicare non solo i beni materiali che avevano costituito la dotazione del Tempio, ma anche la giurisdizione vescovile ordinaria su] popolo e sul clero, relativamente ai nominati territori? Il progetto di ridar corpo all’ombra e di ricostituire, se non proprio l’antico prestigio, una condizione materiale e spirituale di decoro dei nuovo Abate, dovette essere contestuale alla nomina del Quercia, che era già “Prelato del Regno. famigliare e consigliere del Re, Maestro teologo del Real collegio della Università di Napoli.

E ciò tanto più che al patronato regio l’Abbazia era tornata da quello pontificio “nel clima anticlericale e antiromano che caratterizzò ad un certo momento la politica dei Borbone. (Lopez, L.: Lago di Fucino e dintorni).
Già l’Abate aveva proposto giudizio contro il feudatario Principe Lorenzo Colonna, di cui tratta la “Dissertazione storico-diplomatica” dell’Avv. Vincenzo Aloi. Ad essa si riferisce, infatti, al tentativo di recupero della proprietà costituita da Carlo d’Angiò a dote dell’Abbazia: proprietà che, con parole del Diploma 3. VIII. 1277 così viene identificata: “Donarnus Castrum Sculculae in Aprutio… (Doniamo – cioè – l’abitato di Scurcola, con tutti i diritti e le pertinenze sue), Gastru,n, seu Villarn quae dicitur Pontes in Aprutio (cioè il Castello o Villa (dei) Ponti, con tutti i diritti e le pertinenze); ius qua que piscandi, cioè il diritto di pesca, nella parte che spetta all’Amministrazione regia, sul Lago di Fucino, per quanto possono pescare due barche, per uso di sostentamento delle persone del Monastero; in Scurcola e Ponti terre da lavoro sufficienti per cinque aratri di quattro buoi ciascuno” (ed è questa la “Cardosa”, poi definita in 1 .500 locali coppe di terra).

Per completezza di informazione occorre dire che le due barche che V Abate di Santa Maria della Vittoria aveva diritto di tenere nel Lago di Fucino erano barche c.d. “caporali’. cioè capo-flottiglia ed ognuna di esse aveva alle proprie dipendenze dodici barche ordinarie: in tutto, quindi, ventisei barche: il che non è poca cosa. Ed occorre aggiungere che erano pure state donate alla Abbazia terre da lavoro per venti aratri in Ascoli di Capitanata; altre per venti aratri in territorio di Salisburgo, pure in Capitanata: complessivamente ben 1 3.500 coppe di terra. Infine, Re Carlo aveva imposto al Giustiziere d’Abruzzo di consegnare all’Abate 900 galline, 100 galli, 150 arnie; al Giustiziere di Calabria di dare 200 vacche, 20 tori e 40 giovenchi; al Giustiziere dì Basilicata di dare 120 buoi ed a quello di Capitanata di dare 300 scrofe, 30 verri. 270() pecore, 270 montoni, 300 capre e 30 becchi.

Carlo d’Angiò aveva pure donato la Masseria di 5. Antonio de Pastoribus. che, per essere lontana e non facilmente amministrahile, l’Abate restituì al patrimonio regio, ricevendone a compensazione iura ()Ìnnia, redditus et J)rOl’entu.s hajulationis, Terre Civiteile, vani iurihus passus strade ipsius Terre Cix’ite liv, cioè il diritto doganale. detto “di passo”, che si percepiva su persone, animali e cose nell’attraversamento di Civitella Roveto. così come avveniva in altri passi obbligati che segnavano solitamente anche limiti territoriali. Infine, per via di scambi, sappiamo che i monaci ebbero una rendita di sessanta once d’oro da trarsi dalla gabella dell’Aquila; l’annuo tributo di 6840 chili di olio, proveniente da Bitonto nonché, proveniente dalla Sicilia, una certa quantità di “zurra” e di tonnina. salume fatto con schiena di tonno.

È certo che dopo i Vespri il tonno siciliano prese altra direzione.
Dunque, Don Domenico Quercia agendo nell’altra causa rivendica all’Abbazia alcuni dei suddetti beni, ma quando l’Avv. Aloi scrive la “dissertazione”, l’Abate aveva già perso la causa in primo grado, essendo stato riconosciuto ed attribuito a lui, con la prima sentenza, del 26 settembre 1767, soltanto il diritto di pesca nel Lago di Fucino ed interlocutoriamente essendosi richiesta nuova istruttoria sul diritto di “passo” (che da Civitella era stato portato a Capistrello) di nuovo l’istanza era stata respinta riguardo alle richieste principali, di restituzione, cioè, dei diritti feudali su Scurcola e Ponti. Quanto alla ‘Cardosa”, si nominava un perito perché la identificasse. Il giudizio di appello non ebbe per l’Abate sorte migliore: l’li agosto 1781 veniva confermata pienamente la prima sentenza. Restava aperta la questione “Cardosa”. Intanto le istituzioni, le leggi, le giurisdizioni e le stesse parti della causa cambiavano: il processo di acquisizione al demanio dei beni ecclesiastici, iniziato dal Tanucci, si compiva con Cavour; la eversione della feudalità, sancita dai Re francesi Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, trovava adempimenti nella nostra terra CON l’opera del Commissario ripartìtore De Thomasis.

La causa relativa alla sola “Cardosa” ora vertente tra il Demanio dello Stato e gli eredi Colonna, fu trattata dall’ordinario Tribunale dell’Aquila e fu poi una delle prime cause devolute al Tribunale di Avezzano, appena istituito.
Ma nel trasporto dei fascicoli dall’Aquila ad Avezzano furono sottratti – cioè rubati – gli atti più antichi ed importanti e fu questo fatto che dette l’occasione per definire stragiudizialmente la lite, con la cessione della “Cardosa” all Principe Barberini, erede dei Colonna, il quale pagò, il 26.VI.1875, (cioè oltre un secolo dopo l’inizio della lite) lire 35.000 al Demanio dello Stato, e non all’Abbazia di S. Maria della Vittoria. Con l’altra azione, formalizzata con l’”istanza fiscale” del 10.1.1771, l’Abate Quercia rivendicava, come detto, la giurisdizione quasi-vescovile in populum et c/erum sui già nominati quattordici territori della Marsica.

A quell’epoca già non v’erano che ruderi nel luogo di fondazione della Chiesa e del Monastero di Santa Maria della Vittoria. Di quali vaste dimensioni, di quale grande splendore e dì quale importanza fosse l’Abbazia al tempo della sua fondazione, si intuisce dalla mole dei beni donati dal suo fondatore. Sappiamo che il Tempio era più grande e imponente di quello ancora esistente e prosperante di Casamari. “La Chiesa – scrive Don (metano Squilla – misurava ben 73 metri di lunghezza ed era larga 23 metri. Si pensi clic il Tempio era più lungo di quello di Casamari, che è lungo 65 metri… Di superficie pressoché doppia era il Monastero, come risulta dalla pianta dell’intero complesso badiale fornitaci dal Moretti, ricavata dal Gavini dopo gli scavi intrapresi ed interrotti nel 1900. Annessi al Monastero erano una conceria di pelli, un mulino ed una gualchiera per le stoffe.

Scrive il Febonio che Carlo d’Angiò fece edificare il Tempio e il cenobio ex ruderis lapidibusque quos ex Aibae dirutae ruinis asportare mandavit, cioè con pietre famose, tratte dalle rovine di Alba Fucense. La circostanza è contestata dato che Carlo 1, con una lettera del 28 gennaio 1278 ordinava al Giustiziere d’Abruzzo di far restituire all’Abbazia le pietre lavorate e scolpite ed altri materiali che gli uomini del Conte di Alba, Oddone de Toney, consanguineo del Re, avevano rubato, ma Giuseppe Mariri, storico tagliacozzano. sostIene che il Conte di Albe aveva cercato non di rubare, bensì di recuperare i materiali che proprio da Albe erano stati prelevati. Scrive il Fiorani del rinvenimento tra le rovine della Badia di qualche statua dell’epoca romana, ed una ditali statue, fotografata dal Moretti che la riproduce a pag. 425 della sua Architettura medievale in Abruzzo, pur decapitata e mutua, stava fino a qualche anno fa appoggiata ai resti di un muro del cenobio.

Ora è scomparsa. trafugata da ignoti. Certamente essa era appartenuta ad un insigne edificio della distrutta Alba, ed i lavori di scavo e di sistemazione delle strutture dell’Abbazia consentirebbero il recupero di altri importanti “pezzi” provenienti dalla distrutta città. A proposito del recupero di quanto resta della Badia, il Prof. Lipinski, in una conferenza tenuta alla sezione avezzanese dell’Areheoclub d’Italia, anni addietro, affermava che in essa dovrebbe trovarsi l’ossario dei soldati francesi caduti nella Battaglia di Tagliacozzo, le cui ossa potrebbero essere state portate con tutti gli onori a Santa Maria della Vittoria. Da quel tempio – egli diceva – viene la preziosa statua in legno di ulivo che ha nome proprio di “5. Maria della Vittoria” e che fu poi portata nella omonima Chiesa di Seurcola. Essa fu donata da Carlo d’Angiò all’Abbazia e fu fatta venire dalla Francia: “Elementi gotici francesi pienamente sviluppati” vi riconosce Valerio Mariani, ed essa fu anche oggetto di studio del compianto amico aquilano Prof. Giuseppe Porto. Ma pure da 5. Maria provengono, secondo Lipinski, la “Croce degli Orsini” che dopo il terremoto deI 1915 fu recuperata a Rosciolo, nonché il frammento di un exultet esistente nella Curia vescovile di Avezzano e la famosa “Madonna Pasquarella” che si trova nel convento francescano di Castelvecchio Subequo. Ma queste sono divagazioni dal tema. Tornando alla nostra Abbazia ed alla sua breve e travagliata esistenza, bisogna dire che già cominciò male la fondazione del complesso edilizio.

A Scurcola Marsicana Carlo d’Angiò difese il regno da poco conquistato (26.2.1266, Battaglia di Benevento). E pei gli stessi motivi di soddisfazione del suo orgoglio che qui lo indussero a far edificare l’Abbazia della Vittoria, egli aveva anche fatto erigere un monastero attiguo alla Chiesa di 5. Marco presso Benevento e un’altra Chiesa, con annesso monastero, detto 5. Maria di Real Valle, a Seafati, pure presso Benevento. In tutti egli aveva portato i monaci cistercensi, francesi come lui e come il Papa Urbano IV che lo aveva indotto ad accettare la corona di Sicilia, e come il successore, Papa Clemente IV, che lo sollecitò ad intraprendere la spedizione. A proposito della data della fondazione della Abbazia della Vittoria, l’Ughelli scrive che nel 1274 Carlo dispose la creazione così dell’Abbazia di Real Valle che di quella della Vittoria, ma l’Avv. Aloi, qualificando l’Ughelli “scrittore di molta credulità e di poco fine criterio”, nega questa data per il nostro tempio. Lo stesso Aloi riprende dal diploma di Re Carlo all’abate cistercense, datato 3 agosto 1277, che è quella di fondazione dell’Abbazia, in cui è detto: ….. Monasterium Ciste rcensis ordinisfundandum Ct de novo construendumn duximus prope Sculculam de Aprutio, quod Monasterium B. Mariae de victoria decrevimus de cetero nuncupari “.

Lo stesso Re Carlo fu presente alla inaugurazione, che avvenne il 12 maggio 1278, ma ancora a questa data la costruzione non era stata completata e si deve ritenere che non lo fosse prima della fine del 1280. Abbiamo già detto del furto e del recupero delle pietre lavorate predisposte per la costruzione del tempio e sappiamo che già nel 12811′ Abate dovette ricorrere a Carlo perché alcuni abitanti di Ponti gli avevano sottratto delle terre: Carlo ordina al Giustiziere d’Abruzzo di reintegrare l’Abate.

Nel 1284 gli scurcolani si rifiutarono di pagare all’Abate l’auditorio che, quantunque non tenuti a dare a termini di legge, spontaneamente avevano promesso, e Carlo addirittura impone agli scurcolani di dare quanto avevano offerto. “Cosicché – scrive l’Aloi – una volontaria promessa fu cangiata in obbligazione strettissima”. Dopo appena 14 anni, nel 1298, alcuni nobili di Ponti si esentarono dalle “pubbliche contribuzioni” trasferendone l’onere sulla sottoposta plebe. Dovette intervenire Carlo Il per ristabilire l’obbligo di pagamento a carico dei nobili. Nel 1304 Filippa, Contessa di Alba, tentò di impedire all’Abate di esercitare i suoi diritti di pesca sul Lago di Fucino e, quantunque le fosse ingiunto di non molestare i pescatori convenzionati con l’Abbazia, fece costruire un galeone sul quale imbarcò uomini armati che “a guisa di barbari pirati – scrive l’Aloi – fino a terra inseguirono i pescatori e gli affidati del monisterio”.

Carlo Il intervenne nuovamente: fece demolire il galeone, multò la contessa di cento once d’oro e le fece promettere di non più molestare l’Abate. Ma il lago doveva rendere bene. Anche il Vescovo dei Marsi msidiò l’Abate, ma lo fece con arte. Dicendosi lui disturbato dall’Abate nel suo pacifico diritto di pesca, il Vescovo Iacopo ottenne dall’ignaro Carlo Il un ordine di manutenzione. Ricorse l’Abate allo stesso Carlo e dimostrò che il Vescovo non aveva mai goduto di quel diritto, per cui, con diploma del 28.2.1308, il Re revocava la precedente disposizione. Poco tempo dopo insorgono ancora gli scurcolani, i quali non solo rifiutano di pagare le tasse, ma ne impediscono il pagamento ai contribuenti pacifici; si oppongono alla nomina di nuovo Abate, invadono l’Abbazia, scagliano pietre contro l’Abate, caricano di legnate i monaci e si danno loro stessi ad imporre collette.

Subito interviene Re Carlo, che ordina un processo speciale e prescrive severe ed esemplari punizioni per l’obbrobriosa ingiuria. Ma neanche gli abitanti degli altri paesi del feudo avevano in grazia l’Abate se è vero che nel 1313 il succeduto Re Roberto d’Angiò autorizzò la nomina, da parte dell’Abate, di dodici armigeri che lo garantissero nell’amministrazione del suo ufficio pastorale e della sua giurisdizione. Anche nei confronti del Conte di Celano Roberto dovette intervenire. Il Conte di Celano, che evidentemente doveva sentirsi irritato dal fatto che l’Abate aveva acquistato i feudi di Lecce e di Gioia dei Marsi, interposti ai suoi, dal suo feudo di Castulo infastidiva continuamente gli abitanti di Lecce dei Marsi, contestando i confini tra i due territori. Con diploma del 24 giugno 1333 Roberto ordinò la manutenzione dell’Abate e ne fu commessa l’esecuzione dal Giustiziere d’Abruzzo ai “Giudice di Peschio”.

E così sappiamo anche che a Pescasseroli aveva sede un giudice.
Questi si recò nei luoghi, verificò i confini, restituì all’Abate il possesso dei suoi e fece intimare al Conte di Celano, assente, di non più ingerirsi oltre i confini verificati. Infine, nel 1339 Roberto dovette di nuovo intervenire per garantire all’Abate il diritto di pesca. Tutti questi fatti si verificarono nei primi cinquant’anni di vita dell’ Abbazia. Per il tempo successivo le notizie sono più incerte. Gli Aragonesi non avranno a cuore le sorti dell’Abbazia più di quelle di ogni altra istituzione del Regno.

Sappiamo di alcune vendite effettuate dall’Abate nel 1402 e nel 1406; sappiamo che nel 1406 si procedette ad uno speciale inventano dei beni dell’Abbazia; che nel 1425 si formò l’apprezzo o “generai catasto” delle proprietà che il monastero aveva in Ponti; sappiamo di altre vendite effettuate dall’Abate nel 1436, nel 1442, ma già vediamo che nel 1436 l’Abate non risiede più nell’Abbazia, ma a Tagliacozzo, dove furono rogati dal notaio gli atti suddetti e quelli successivi, in casa dell’Abate: “funesto presagio – scrive l’Aloi – per le sorti dell’Abbazia”. Sappiamo che nel 1505 nel convento ancora vi erano dei monaci, ma che nel 1525 Leandro Alberti, avendo visitato la Chiesa e il monastero, scrisse che “a vedere detti edifici ne risulta gran compassione ali riguardanti”. Ciò riporta il Prof. Ennio Colucci in Scurcola Marsicana: guida storico-turistica. Questi ed altri fatti furono esaminati da opposte angolazioni e molto diffusamente dagli avvocati delle opposte parti, e per i riflessi che potevano comportare, diversi nella causa di rivendicazione del potere temporale e nell’ altra di rivendicazione del potere spirituale.

Un esito opposto dei due giudizi instaurati dall’Abate Quercia avrebbe comportato, molto probabilmente, un diverso assetto territoriale della Marsica attuale. È pensabile, infatti, che la Diocesi dei Marsi non avrebbe ora sede ad Avezzano se a dieci chilometri avesse sede un altro Vescovo; è quasi certo che Scurcola Marsicana, la cui posizione di nodo viario non è molto diversa da quella di Avezzano, avrebbe avuto uno sviluppo residenziale molto maggiore di quello attuale, proprio in sostituzione di questa nostra città della quale integra già ora, con lo sviluppo industriale e commerciale notevole del molto più adatto territorio, la necessità di espansione. E così Pescina, che ebbe la Diocesi in via provvisoria, se avesse conservato la Diocesi avrebbe agglutinato elementi di sviluppo ulteriore, ed oggi probabilmente avremmo – tanto più dopo il terremoto del 1915 – due grossi centri nella Marsica: quello di Scurcola, con funzione di collegamento con la Sabina, con Roma e con Frosinone, e quello di Pescina, per il collegamento con la Valle Peligna e col mare, nonché con il Mouse.

Ma con le ipotesi irrealizzate non si costruisce niente. Preso atto di ciò, è solo per riportare un fatto di storia diocesana che accenno ad una precedente scissione della Diocesi dei Massi. Di questo fatto dà notizia il Muratori, negli Annali, ad annum 1033, ma di esso parlano il Baronio, l’Ughelli e il Febonio, dal quale ultimo lo trae anche l’Avv. Puoti, che lo cita nella sua comparsa a stampa. Attone, ex Comitibus Marsorum oriundus, e del quale nella epigrafe sepolcrale si legge Regibus a Gallis linea ducta, fu nominato Vescovo da Papa Benedetto IX, suo parente, il quale, scissa la Diocesi dei Marsi, creò in Carsoli nuova cattedra in Sancta Maria in Cellis, Chiesa oggi annessa al cimitero di quella cittadina.

Della nuova Diocesi fecero parte i paesi del Carsolano, compresi Tufo e Scalelli, ma anche Sante Marie, Properano e tutta la Valle di Nerfa fino a Capistrello, come riporta anche la bolla di Papa Stefano X -erroneamente dal Febonio – e già dal Muratori – designato come Stefano IX, che nel dicembre 1057 riconsegnava al Vescovo dei Marsi Pandolfo, sedente in Santa Sabina, antiquae Civitatis Marsorum, i territori della Diocesi di Carsoli, trasferendo Attone come Vescovo alla Diocesi di Chieti. Ma torniamo alla nostra Abbazia.

Quali prove adduce l’Abate a proprio favore? a) Innanzi tutto una presunzione: all’Ordine dei Cistercensi -come a quello dei Benedettini, dal quale deriva – fu concesso il privilegio della esenzione dalla giurisdizione del vescovo. b) Essendo stato l’Abate di Scurcola, fin dalla primitiva fondazione dell’Abbazia, Abate regolare, deve presumersi che egli fosse fin dall’inizio esente dalla giurisdizione del vescovo diocesano. c) L’eretta Abbazia reca nello stemma la mitra e due pastorali. d) Scrive l’Aloi: “… nelle due principali porte di Scurcola, una chiamata di 5. Antonio e l’altra di 5. Egidio, vi sono dipinte e rispettivamente scolpite in pietra tenera le arme della Badia. Consistono esse in uno scudo a cui sovrasta una mitra, ed ha nel fondo tre ponti sui quali veggonsi inalberati due pastorali e all’intorno cinque gigli in oro, appunto come tuttavia si osservano nella custodia della antichissima statua di 5. Maria della Vittoria, fatta da Carlo d’Angiò ed oggi esistente nella sacrestia della stessa badial Chiesa” (I due pastorali si riferiscono ai due primitivi territori di Scurcola e Ponti). e) L’Abate si qualifica, in numerosi atti, ciò che consente di osservare che è solo dei Vescovi la nomina diretta da parte del Papa (Dei ed Aposto/icue sedis grutia) e che solo ai Vescovi innegabilmente appartengono le denominazioni di Dominus in Chri sto Pater e di Ordina rius. f) Lo stesso Abate viene designato come Prelato o Pastore nei regi diplomi di Carlo I, di Carlo Il e di Roberto d’Angiò: attributi che pure competono esclusivamente ai Vescovi. g) Proprio il Papa Giovanni XXII nella bolla diretta all’Abate Fra’ Giovanni del Pino scriveva: De persona tua praedicto Monasterio auctoritate Apostolica providemus. Teque i/li praeficimus in Abbatem, (iuram et administratione,n eiusdern tibi tam in spiritualibus quaìiì in tetnpora/ibus plenarie coiìi in ittendo. Dal che – e dalla mancata interposizione del Vescovo dei Marsi per la consegna dell’Abbazia e della provvista, l’Avv. del Turitto fa derivare una vera e propria investitura o il riconoscimento della premessa investitura.

Del resto – seguita a dire il De Turitto – l’Abbazia di Scurcola è annoverata tra quelle concistoriali, come risulta anche dall’elenco fattone dall’Abate di Vallombrosa nel secolo XVII. h) Con un diploma del 1334 Roberto d’Angiò aveva obbligato gli abitanti dei paesi infeudati a corrispondere all’Abate il c.d. “sussidio caritativo”, e tale emolumento – scrive l’Avv. Del Turitto – compete esclusivamente ai Vescovi per le spese della loro consacrazione. i) Altra prova il detto avvocato deduce da altro diploma reale del 1334, che con le parole Nos autem in favoreni debitum auctoritatis pastoralis concede all’Abate di armare dodici persone ad defensioneni personae dicti Abbatis, ac administrationem sui offici pasto ra/is. Si parla, dunque, di “ufficio pastorale”. j) Come già rilevato, passano circa 70 anni – dal 1334 -privi di documentazione.
k) La difesa dell’Abate accusa i vescovi dei Massi di aver sottratto ogni atto a lui utile dagli archivi della Abbazia quando, costituito il titolo in Commedia e ridotto a ruderi il tempio e il monastero, fu nominato Commendatario lo stesso Vescovo dei Marsi, Andrea Colli. l) Del Turitto scrive: “Qui l’accortezza dei Vescovi dei Marsi, dai quali si saccheggiò l’ archivio badiale di Scurcola, ci fa interrompere la cronaca dei nostri atti giurisdizionali di affermativa osservanza e ci obbliga, dall’anno 1334, a saltare al 1402, del qual’anno si conserva un documento ascoso alla rapacità marsicana”.

È un atto con il quale il Reverendus in Christo Pater, frater Antonius De Ce//is, Dei et Apostolicae sedis gratia Abbas Regalis Monasterii Sanctae Mariae de Victoria conferma una vendita, fatta con suo assenso dai suoi amministratori. Altro atto di vendita è del 1442, relativo ad un fondo in contrada “Lueolle” di Castel a Fiume, cui dette l’assenso l’Abate Frater Nicolaus de Gallesio, Dei et Aposto/icae sedis gratia Ahhas, promettendo l’osservanza del contratto sub fide et re/igione Pre/atorum.

m) Conclude il Del Turitto: “Non è dunque da immaginare neppure per sogno che gli abbati di Scurcola. nello stato regolare dell’Abbazia, fossero stati soltanto Superiori del Monisterio e privilegiati dell’esenzione passiva, quandoché si scorge dagli atti giurisdizionali d’osservanza affermativa che esercitarono l’attiva giurisdizione fuori del circondano del ministerio e spaziosamente in tutto il territorio badiale, che si deve tenere per separato fin da principio dai confini della diocesi adiacente di Marsi, cosicché gli abbati furono nel di loro territorio Prelati ordinari, niente meno che i vescovi dei Marsi, come di fatto in tutti quasi gli atti si enunciano “Ordinari” non già del monisterio, ma di Scurcola, capo e sede del loro territorio”.

n) Ed ecco un altro atto, del 1497, con il quale Egofrater Ge/asius de Pinghis, Dei et Apostolicae sedis gratia Abbas Regalis Monisterii Sanctae Mariae de Victoria ed Ordinarius Sculculae, vende altro terreno; ed altro atto, del 1527, con il quale l’Abate regolare di Scurcola, Antonio de Cellis, autorizza la riserva di giuspatronato sulla Chiesa di 5. Silvestro in Gallo, ora di Tagliacozzo.

o) Sarà poi il Commendatanio Don Alfonso Colonna che autorizzerà l’amministratore Mariano Battista Cola Alleve, di Magliano, a nominare il parroco della Chiesa di Gallo, ancora nel 1527, con la solenne formula: “Nos (ecc.) te, dominum Consantinum in Rectorem dictae ecclesiae San cti Si/v’estri, nomine dicti abba tis, a Uctoritate, qua fungimur confirmamus, instituimus et ordinamus “, mentre al medesimo si fa obbligo di rispettare l’autorità del preponente scrivendo: Abbati Victoriae et eius successoribus honorem et reveren. tiam, nec non iura debita, praestabis. Il documento è formato in S. Donato, altro territorio dell’Abbazia.

p) Inoltre ed infine, vari documenti attestano che l’Abate nominava vicari generali, giudici, governatori di vari territori di sua giurisdizione.

q) Ciò fu possibile fino al 1562 quantunque, come già detto, da alcuni anni la badia fosse ridotta a Commenda e così il tempio che il monastero fossero ridotti a ruderi.

r) In tale data o giù di lì, scrive Del Tunitto, “si fece luogo alla totale usurpazione non solo della giurisdizione, fatta dai Vescovi dei Marsi, ma financo dei beni e dello stesso titolo badiale, usurpato dalla romana Dataria”.

s) Il diritto di nomina dell’Abate tornerà al Re, come dicemmo in principio, nel 1756 ed a seguito di ciò Carlo III di Borbone nominerà l’Abate Quercia. Alle prove per così dire “positive” fornite dall’Abate, fa riscontro una serie di prove “negative”, la più consistente delle quali viene così dedotta: “I luoghi e le terre della badia sono molti: Scureola, Gioia, Lecce, Gallo, Cappelle, Corcumello ed altri.

In tali luoghi non si può credere che dal 1304 al 1562 non vi fossero strati né chierici né preti, e pure nell’archivio dei Marsi il promotor fiscale di quella Curia non vi poté rintracciare un documento né di ordinazione libera né di facoltative ad ordines o siano dimissonie; (non si può credere) che mai siasi nelle suddette terre agitato un giudizio criminale, provveduto parrocchie, accadute cause matrimoniali, approvati confessori, benedetti i predicatori ed altri atti riferibili alla giurisdizione dei Vescovi dei Marsi”. Del resto – è sempre Del Tunitto che scrive – i Vescovi dei Marsi dovettero qualche volta convocare un sinodo. -. Esibisca dunque, il promotore della curia qualche sinodo corroso e rancido ed avrà allora trovato la vacca rossa Ora, nel 1582 fu nominato Commendatanio dell’Abbazia – dalla Romana Datania – proprio il Vescovo dei Marsi, Mons. Colli. Perché non si trovano documenti di archivio dell’Abbazia? La statua lignea di 5. Maria della Vittoria fu salvata. La leggenda del sogno della vecchia di Tagliacozzo, raccontata dal Corsignani, e della scelta del luogo di venerazione della immagine sacra affidata ai muli, testimonia che nel 1525, anno in cui si dice recuperata la statua, l’abbazia, quantunque fatiscente, era tuttavia in piedi, ormai in via di spoliazione se uno dei portali fu già nel 1518 risistemato nella Chiesa di S. Antonio di Scurcola.

Il Febonio smentiva il Corsignani prima ancora che questo serivesse, dichiarando che furono gli stessi Abati, ora Commendatani, a trasferire la statua in parva cappella prope arcem Scurculae, cappella trasformata in Chiesa proprio dall’Abate e Vescovo Mons. Matteo Colli. E può pensarsi che non venisse recuperato l’archivio di Santa Maria della Vittoria, che tanti diplomi reali conteneva? È possibile che un vescovo si sia macchiato di una così grave distruzione?

Ciò non è da credere e tutt’al più può pensarsi che il Vescovo Colli abbia ritenuto di meglio custodire i documenti nell’archivio della propria Curia e sarebbe opportuna una nuova ricerca. A leggere il panegirico che di Mons. Colli fa il Febonio, apprendiamo che non solo egli trasferì, nel 1580, la diocesi dalla Civitas Marsicana – cioè da 5. Benedetto – a Pescina, donec Civitas et illius Cathedralis Ecclesia restaurentut ma che anche fondò in Pescina la Chiesa di Santa Maria delle Grazie, ridusse in sua giurisdizione il paese di Luco dei Marsi, che era nella giurisdizione ecclesiastica dell’Abate di Montecassino; condusse sotto la sua ecclesiastica giurisdizione la prepositura di Celano, che era nullius, tantoché fruiva di mitra e di pastorale e della giurisdizione quasi-vescovile; rinsaldò le rendite dei benefici parrocchiali, multa que alla praeclare gessit, ma, mentre era così fortemente intento nel rivendicare i diritti della sua diocesi, incappò in un infortunio tantoché (nella libera traduzione) “per cospirazione di alcuni finì detenuto nel carcere di Roma”.

Riottenuta la libertà, perché assolto dalle imputazioni, mentre rinnovava alacremente le attività in pro della sua diocesi, in Roma e nella Chiesa di 5. Lorenzo in Lucina morte lo colse nel 1596, dopo sedici anni di ministero pastorale. Febonio non dice di quale crimine il vescovo venisse accusato quando venne condotto in prigione, ma non è da pensare che Mons. Colli non sapesse valutare i documenti di archivio, egli vir sane eruditus… liberalibus studiis eruditus, in consulendis singularis, in agendis incomparabilis; egli che nella stessa lapide sepolcrale èdesignato innanzi tutto come Sanctae Mariae de Victoria, Sanctae Catherinae a Ce/le Abbas e poi come Marsorum Episcopus. Dunque, Don Matteo la sapeva lunga e poteva forse anche prevedere – come dicono gli avvocati dell’Abate – questa futura controversia. Intanto, due notizie interessanti sono state date dal Febonio: la prima è che il paese di Luco dei Marsi era nella giurisdizione spirituale dell’Abate di Montecassino; la seconda è che la prepositura di Celano, insignita di pastorale e di mitra, era nullius. Ricordando che Doda, Contessa dei Marsi, nel 930 aveva donato all’Abate di Montecassino molti conventi, dei quali il primo nominato è il monastero di 5. Maria in Luco, che divenne prepositura cassinese e quindi sottratto alla giurisdizione spirituale del Vescovo dei Marsi; che Celano era nullius; che 5. Maria in Valle Porclaneta dipendeva da Farfa; che la stessa San Benedetto, cioè la Civitas Marsicana, in cui aveva la sede la diocesi dei Marsi, era rivendicata alla giurisdizione in populum et clerum dal detto Abate, bisogna convenire che Mons. Matteo Colli aveva ben di che preoccuparsi, ma sarebbe interessante uno studio che rivisitasse la bolla di Pasquale Il e quella di Clemente III, se autentica, riportata dal Di Pietro.

L’Avv. Del Turitto, per altro, esibisce a prova che lo stesso Febonio – il quale all’epoca in cui scriveva, poco più di un secolo prima della proposizione del giudizio, era Vicario generale della Diocesi dei Marsi – aveva riconosciuto con la frase “episcopali quasi iurisdictione frueretur”, che la Badia nelle due terre di Scurcola e di Ponti, non era soggetta al Vescovo dei Marsi. Come si difende l’Avv. Puoti? Egli definisce il Febonio “istonico oscuro e di niun nome” e poi lo chiama addirittura “innocente”; subito esclude che si debba o si possa discutere della pertinenza dei feudi, cioè della appartenenza all’Abate del potere e della giurisdizione feudale sulle terre dei quattordici paesi più volte nominati. Ammette che l’Abate avesse avuto la giurisdizione spirituale sui monaci a lui soggetti, ma nel ristretto ambito della Abbazia.

Quanto alla giurisdizione quasi episcopale per così dire extra moenia, egli dichiara che l’Abate avrebbe dovuto dimostrare – e non lo ha potuto-odi possedere un ‘manifesto privilegio apostolico”. cioè una bolla papale che conferisse all’Abate di Santa Maria della Vittoria il potere quasi-episcopale sui territori dei quattordici paesi. o di aver avuto un immemorabile possesso, mai contraddetto, della spirituale giurisdizione. L’originaria bolla papale di conferimento non si trova trascritta nell’atto di fondazione dell’Abbazia dove, anzi, si dice che l’Abbazia sorge come soggetta al Monastero dell’Oratorio, fondato dal medesimo Carlo d’Angiò in Francia.

E se si volesse supporre che i Vescovi commendatani abbiano sottratto carte all’archivio dell’Abbazia – come non è da presumere – ditale conferimento si sarebbe trovata certamente copia negli archivi di Napoli e di Roma, dai quali i Vescovi commendatari non potevano sottrarle. E certo non servono lo stemma e il sigillo con la mitra e due pastorali a sostituire il provvedimento di papale investitura, per cui quel blasone fu un sopportato vezzo ed ornamento, tanto che del pastorale si insignirono anche delle badesse, cui certo non spettò mai la quasi-vescovile giurisdizione. Circa l’ordine di reintregrazione impartito da Re Roberto al Giustiziere d’Abruzzo, l’Avv. Puoti rileva che fu proprio l’Abate ad asserire di possedere la baronia della Civitas Marsicana e delle terre dì Venere, Vìco, Lecce, Corcumello, Cappelle, ecc., sicché il Re si limita ad ordinare al Giustiziere di verificare i fatti e, accertatili, ad ordinare la reintegra.
Né vale granché il diploma di Re Roberto con il quale si ordina la corresponsione del “sussidio caritativo”, giacché l’Abate, quale feudatario, avrebbe potuto pretendere dai vassalli l’auditorium che è la stessa cosa che il sussidio detto.

Il fatto che l’Abate sia stato autorizzato ad armare dodici sgherri (così li chiama Puoti), null’altro prova se non che al medesimo era contestato l’esercizio della giurisdizione temporale e non che egli avesse la rivendicata giurisdizione spirituale. Né conta molto per lui il fatto che gli abati, anche commendatari, avessero un loro “rettore” o governatore o amrrunìstratore, o un vicario della negai Badia; che nel 1527 quel Mariano Battista Cola Alleve conferisce la rettoria della Chiesa di 5. Silvestro di Gallo con cura d’anime se il Colalleve neppure firma l’atto, firmato, invece, da un notaio de mandato.
Era, dunque, il Colalleve, un illetterato? Nel 1582 era Abate Commendatanio, come dicemmo, il Vescovo dei Marsi Mons.. Colli.

Questi, erigendo a parrocchia la Chiesa di S. Nicola, in Canpelle statuisce Statuimus nostra auctoritate ordinaria, cioè come Vescovo, e poi aggiunge et tamquam abbas ad hoc faciendum concurrimus et consentimus. In questo documento l’avvocato dell’Abate aveva scorto una vera e propria confessione del Vescovo Colli, cui sarebbe bastata l’autorità di Vescovo per statuine e che invece sente il bisogno di intervenire come Abate per concorrere e consentire. L’avvocato del Vescovo commenta che proprio lo sdoppiamento delle due qualifiche dimostra che per costituire la parrocchia occorreva l’intervento del Vescovo, non essendo sufficiente quello dell’Abate. Concludendo, quantunque complessivamente si avverta che le argomentazioni addotte dal difensore della curia vescovile – per vero abilmente, con dovizia di riferimenti dottrinari e con buono stile – non avrebbero potuto vincere le emergenze degli atti esibiti dall’Abate, questi rimase soccombente.

È la sorte di molte cause che agli avvocati sembra talora segnata fin dall’inizio, è una specie di predestinazione che nuoce più ai difensori che alle parti personalmente. delle quali ciascuna vive il proprio dramma, mentre gli avvocati vivono quello di tutti i clienti sfortunati. Né giova vincere la causa che si sarebbe dovuta perdere perché anche in questo caso si avverte che, ancora una volta, la giustizia la propria causa l’ha perduta. Il motivo della riesumazione di questa vicenda non è certo quella di spaccare la Diocesi dei Marsi. sollecitando a rivendicazioni l’attuale Abate di Scurcola Marsicana, né quello di mortificare, qualiflcandolo erede di Vescovi usurpatoni, l’attuale colto, qualificato e zelante vescovo Mons. Armando Dini bensì quello di sollecitare l’interesse del popolo e della amministrazione comunale di Scurcola Marsicana a fare di tutto perché torni a luce ogni rudere di quella “ragguardevole” Abbazia e si ponga mano ad attività di conservazione e di tutela di questo importante monumento della nostra storia: proponimento che l’Archeoclub della Marsica nutre da molti anni e che quasi si concretò in proposta nel corso di una conferenza del Prof. Lipinski.

Non ci interessa, perciò, conoscere l’ulteriore storia dell’Abate Quercia. Il tempo ha consolidato una situazione di fatto in definitiva conveniente agli stessi scurcolani, i quali, quanto risulta ex actis, non amarono mai il loro Abate-Vescovo e non parteciparono né uti singuli né uti universitas, del privilegio che ebbero di tenere il Vescovo in casa. In effetti, non solo gli Abati, ma gli stessi monaci del monastero, dovendo provenire dalla Francia, erano stranieri. Stranieri erano Carlo d’Angiò e Corradino di Svevia, ma quest’ultimo era l’erede di Federico Il e sarebbe stato il successore di Manfredi.
Di tutto restano le rovine dell’Abbazia. Di tutto esse possono ancora testimoniare se ne avremo a cuore il recupero.

Testo a cura dell’Avv. Walter Cianciusi 

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