Comune di Bisegna

La tanto decantata Acqua Marcia dei romani, secondo numerosi e contrastanti studi, si ipotizzava fosse l’acqua del Giovenco, l’antico Pitonio che, come scrive Plinio “…aveva origine dagli ultimi monti peligni passava poi nella Marsica, attraverso il lago Fucino, certamente in direzione di Roma; subito dopo si cela in una caverna sotterranea, riaffiora nel territorio di Tivoli e viene condotta a Roma attraverso un acquedotto di nove miglia”. Lo stesso Febonio accetta, ma parzialmente contesta, la tesi di Plinio, sostenendo giustamente che l’antico Pitonio sorgeva e sorge nel territorio di Bisegna al “Templo” ma poi guasta tutto avventurandosi in una sua teoria che vorrebbe le acque del Giovenco provenire dal lago di Scanno. Le acque del Giovenco, secondo Plinio, passavano attraverso il lago senza mischiarsi con le altre acque “…il Pitonio, che passa attraverso il lago dei Marsi, il Fucino, vi scorre in modo che le sue acque non si mescolano con il lago”. 

E ne decanta ancora le qualità scrivendo: “L’acqua più rinomata di tutto il mondo, cui Roma concede la palma per la sua freschezza e per la sua salubrità, è l’acqua Marsia, concessa come un dono, tra gli altri, a Roma da parte degli Dei”. Molti documenti romani certificano che in solenni cerimonie era obbligo brindare con acqua Marsia e il suo uso per scopi materiali era proibito, cosi come veniva giudicato un delitto contaminarla con oggetti profani. Lo stesso Nerone, secondo Tacito, rischiò la vita per aver voluto traversare a nuoto, lui insozzato di fango, la purissima acqua Marsia. Dopo la nuotata nelle gelide acque, infatti, il divino imperatore si ammalò e per mesi si trascinò, come scrive Tacito “… in uno stato di salute incerta che fu la prova dell’ira degli Dei”. Più che dagli Dei, Nerone probabilmente venne colpito dalle gelide acque del Giovenco che ancora oggi mal si prestano a lunghe abluzioni. I ragazzi dei tempi andati, però, evidentemente più temprati di Nerone, l’estate erano soliti sguazzare nelle acque del fiume dirottate in un ansa a monte della Ferriera.

Pochi metri dopo, a valle, il fiume si ingrossava e, soprattutto l’acqua diveniva più gelida a causa della confluenza delle acque che scaturivano dalle rocce che sovrastavano le rovine della Ferriera. Le stesse acque che nel 1830 facevano andare la macina di uno dei mulini di San Sebastiano, che una decina di anni dopo alimentavano le macchine dell’altoforno e che, negli anni ’60, vennero definitivamente imbrigliate alle origini dall’acquedotto della Ferriera. Fino ad allora l’acqua scrosciava con violenza da tre bocche aperte nella roccia e si rovesciava impetuosa nel vicino Giovenco dandogli nuova e più corposa linfa. 

Il fiume, in realtà, prendeva corpo a valle di San Sebastiano dopo aver accolto prima le acque della Ferriera poi quelle, non meno copiose, della Fonte delle Donne. Con tanta acqua San Sebastiano ha avuto soltanto una grande fontana: ‘I mammuocce. E’ una fontana monumentale costruita nel 1836 su progetto dell’architetto Rosario Baldi il quale, di passaggio a San Sebastiano, come lo stesso ricorda in uno scritto conservato presso il Comune di Bisegna, venne pregato di redigere il progetto di una fonte per San Sebastiano e la sistemazione della strada che collegava San Sebastiano ad Ortona dei Marsi. Il progetto, accompagnato dai capitoli di appalto, stabiliva il costo totale della fontana in 207 Ducati e 36. Alla decima subasta si aggiudicarono il lavoro Antonio Ricci e Antonio Giancatarino, il primo di Canistro e l’altro di Castellafiume, che al ribasso batterono Ubaldo Spallone e i suoi due figli Camillo e Pasquale Spallone, costruttori di Scanno.

Per l’aggiudicazione dell’appalto fu determinante la fidejussione del sacerdote Don Rosato Rosati, rampollo di una delle famiglie più influenti di San Sebastiano, il quale si fece garante in solido per il Ricci e il Giancatarino. La fontana monumentale si trova proprio sotto l’abitato di San Sebastiano, a ridosso di una roccia. Fino ad una quarantina di anni fa era la fonte dove le donne si recavano con la conca a prendere l’acqua che riportavano nelle loro case con grande fatica a causa dell’ardua salita che dovevano affrontare più volte al giorno con 25-30 chili di peso sulla testa. La fontana era stata costruita proprio nel mezzo di una sorgente e l’acqua sgorgava tutt’intorno. Le donne, prima di riempire le conche d’acqua, lavavano i panni sui sassi levigati, tra canti, scherzi e litigi; forse per questo motivo, già in un libro del ‘700, il luogo era chiamato “La fontana delle donne”.

La fonte serviva anche da abbeveratoio per gli animali. C’era, infatti, oltre alla vasca alta sotto i tre mascheroni ( le bocche d’acqua che danno il nome alla fontana ), un’altra vasca molto più bassa e più lunga dove bevevano le pecore. Ora il monumento è stato restaurato e si presenta in buono stato di conservazione. Peccato però che il consorzio dell’acquedotto de “La Ferriera”, quando imbrigliò anche le acque di questa sorgente, rovinà la vasca bassa che ora non c’è più. Dal punto di vista architettonico il monumento è stato realizzato in stile post-rinascimentale e, come si evince chiaramente dalle note che accompagnano il progetto, per ragioni di bilancio, venne disegnato in forme alquanto spartane: “Siccome le fontane scriveva l’architetto nelle osservazioni al suo progetto rianimano ed abbelliscono le piazze e le strade oltre le città ed altri luoghi diliziosi, essendo la medesima coperta ed addossata al muro, ho creduto cosa bene intesa di decorarla di architettura d’ordine Dorico e dietro le ristrettezze della somma non dà luogo a composizioni che si converrebbero in tali opere” . 

Sulla fonte, infatti, oltre ai mascheroni non vi sono fregi particolari o iscrizioni di sorta. Fontane dello stesso stile si trovano ad Alfedena, Fontecchio, San Pio delle Camere, Introdacqua e in altri paesi d’Abruzzo. La struttura in pietra lavorata, mette in evidenza due colonne che sorreggono un arco a tutto sesto; sul fronte vi sono due lesene che terminano con capitelli piuttosto lineari. L’acqua sgorga dalla bocca dei tre mascheroni sempre in pietra: quello al centro a testa di leone, ha una faccia severa, quasi minacciosa, forse per ricordare che l’acqua non va sprecata perchè è un bene prezioso. 

I due mascheroni laterali, che secondo il progettista originariamente dovevano essere altri due leoni, non si capisce chiaramente se rappresentano facce di angeli o di giovani donne. L’apparato della fontana, molto alto e, seppur sobriamente, scenografico, fa pensare ad una funzione più materiale; ovvero che servisse per proteggere da eventuali cadute di massi provenienti dalla roccia retrostante, coloro che si recavano ad attingere l’acqua. La conferma a questa supposizione viene ancora una volta dallo stesso progettista che precisa: “Il detto muro si è portato più alto palmi tre dalla pietra scalpellata di esso fontanile, per la ragion che il suddetto è di riparo al terreno che vi è di sopra “.

Fuori dall’abitato, a circa due chilometri verso Ortona dei Marsi, c’è un’altra fonte alla quale i sansebastianesi sono molto legati: la fontana di Santa Lucia. Classica fontana creata per il sollievo dei viandanti, la fonte di Santa Lucia sgorga da una vena d’acqua a qualche metro dalla strada provinciale. Gli abitanti di San Sebastiano l’hanno incanalata fino ai bordi della strada dove l’acqua scende freschissima in una vasca di pietra. Nel 1996, dopo l’ennesima opera di bonifica della canalizzazione, poco sopra la bocchetta dalla quale sgorga l’acqua, è stata murata una formella in ceramica policroma raffigurante Santa Lucia. La gente del posto attribuisce all’acqua di questa fonte particolari proprietà terapeutiche ed una “leggerezza” unica.

Se la fonte di Santa Lucia è stata per anni il sollievo dei viandanti, quella di Fonte d’Appia è la tappa obbligata per gli escursionisti che da San Sebastiano o Bisegna vogliono raggiungere Terraegna o l’Argatone. Il fontanile di Fonte d’Appia, nato come abbeveratoio per le mandrie portate agli alti pascoli, con la decadenza degli allevamenti e lo sviluppo del turismo montano è diventato il punto di rifornimento dei gitanti che approfittano della sosta per tirare il fiato dopo lo strappo della “Cona” e riempiono la borraccia con la fresca acqua della fonte. 

Accanto al fontanile una tabella del Parco Nazionale d’Abruzzo, indica i percorsi dei vari sentieri e riassume l’habitat della zona, con fiori, alberi e animali che si possono incontrare: dal Tasso Barbasso alla Digitale, dalla Genziana alla Genzianella; poi il Faggio che per il Parco è un po’ come l’albero della vita, le Querce, il Maggiociondolo, l’Acero Rosso, il Carpino, l’Orniello e tanti altri alberi. Tra gli animali che di notte ( ma anche di giorno) si abbeverano nella vasca di Fonte d’Appia ci sono i Cervi, i Caprioli e il mitico Orso Marsicano, signore dell’Argatone, del quale tutti parlano ma pochi riescono a vedere; “Ciabattone”, uno dei più vecchi esemplari dell’Argatone, è tanto grande quanto scaltro. Vederlo, come dicono i pastori da queste parti, è “un’incontratura”. 

Insomma, un colpo di fortuna. Attraverso la spaccatura del monte che dalla strada per Fonte d’Appia apre alla vista la Valle del Giovenco, tra il verde dei boschi spicca il biancheggiare di una piccola chiesa: è l’antico monastero di San Giovanni. O meglio, quel che è stato riedificato a ricordo dell’antico monastero fondato dai monaci di Valle Luce che accoglievano i pellegrini diretti in Terra Santa. Il monastero venne distrutto da un’orda di malviventi nel 1411. Gli abitanti di Bisegna, il 30 giugno del 1530, ricostruirono la chiesetta che venne messa sotto il Capitolo Lateranense, assumendosi il carico di versare ogni anno una libra di cera che veniva consegnata la vigilia della festa di San Giovanni Battista. Risale a quello stesso anno, molto probabilmente, un fontanile eretto poco distante, al di la di una valletta, nel bel mezzo di un torrente che convoglia soltanto le acque piovane. Alla Fonte di San Giovanni, per secoli, sono accorsi anche quei sansebastianesi che avevano problemi di scabbia. 

La leggenda voleva, infatti, che nella notte di San Giovanni chi si lavava con le acque di questa fonte veniva mondato dal male. Narra il Di Pietro nella sua Storia dei Paesi della Marsica, che nella notte di San Giovanni le acque del fontanile crescevano di volume per soddisfare il gran numero dei bisognosi, e tornavano allo stato naturale allo spuntar del sole. Passati i tempi della scabbia, un’altra più romantica leggenda attribuisce a questa fonte muliebri qualità: tutte le ragazze nubili che la notte di San Giovanni si bagneranno nelle sue acque, prima che l’anno finisca avranno incontrato il loro futuro marito.


Testi tratti dal libro Il Paese della memoria
( Testi del prof. Ermanno Grassi e del prof. Pino Coscetta )

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