Comune di AVEZZANO

Marsica News

le lotte risorgimentali cause del “Brigantaggio meridionale”

Gli avvenimenti politici, che si svolsero nel Regno delle Due Sicilie ed in ogni altra regione d’Italia durante il periodo del prosciugamento del Fucino, furono molteplici e tutti di importanza tanto straordinaria, da determinare un rivolgimento profondamente rivoluzionario nell’organizzazione dei singoli Stati italiani, che scomparvero del tutto come tali, concorrendo alla formazione di un unico Stato libero, unito ed indipendente. Nonostante le attenzioni, tese principalmente verso l’avvenimento più importante in favore degli interessi vitali della città e della regione marsa cioè il prosciugamento del Fucino, che per tanti secoli con calamitose inondazioni le aveva devastate, i fatti rivoluzionari non lasciarono indifferenti gli avezzanesi e gli altri cittadini della Marsica. Anzi l’attività, che si svolse in proposito, fu vivace e varia da parte delle fazioni politiche.

Ad alimentare i contrasti contribuirono non poco le nuove condizioni di benessere, per cui le popolazioni marse, con a capo quella di Avezzano, nutrivano gratitudine verso i Borboni, che più volte si erano interessati delle loro sorti, specialmente Ferdinando II. Egli infatti sostenne l’idea del prosciugamento integrale del Fucino, ne promosse l’iniziativa e ne vide porre Ie basi per la sicura e grandiosa realizzazione, che liberava i paesi fucensi da un incubo pauroso e secolare. Si deve inoltre ricordare che le nuove condizioni di benessere furono avvertite in ogni settore sociale fin dall’inizio dei lavori, che per l’intera loro durata assorbirono un numero giornaliero, veramente considerevole e del tutto straordinario per quei tempi, di quattromila lavoratori, tutti della Marsica; il loro salario pertanto, rimanendo nella zona, costituì il motivo primo del miglioramento economico locale.

Nondimeno si poterono avvertire simpatizzanti e tenaci assertori di un ordine nuovo, avverso al governo borbonico, particolarmente tra i professionisti e gli intellettuali i quali non mancarono di far sentire e valere nella regione il peso della propria partecipazione al movimento rivoluzionario nazionale.
La spedizione di Crimea, il Congresso di Parigi, la seconda guerra d’indipendenza, i moti dell’Italla Centrale, le annessioni della Toscana e dell’Emilla maturarono eventi di portata internazionale, contribuendo a facilitare la via al mutamento di regime nello Stato del Sud d’Italia; e la morte di Ferdinando II, avvenuta a Caserta il 22 maggio 1859, sembrò accelerare decisamente il compimento del destino della sua dinastia. Questo Re energico e sagace, maltrattato a volte con esagerata violenza per errori compiuti (e quale Re ne è uscito mai immune? … ) seppe amministrare saggiamente il suo regno, favorì le costruzioni pubbliche, costruì nel 1839 la prima ferrovia in Italia, la Napoli-Portici, alla quale segui la Napoli-Capua, ed allacciò Napoli e la Sicilia con una vasta rete telegrafica a sistema elettrico; nel 1848, ospitò in Napoli il congresso degli scienziati italiani, cui si è fatto cenno in precedenza. Gli successe il figlio, Francesco II, giovane inesperto e non bene consigliato, che pagò la sua inesperienza con la perdita del trono, dopo qualche anno di regno.

Gli eventi infatti precipitarono: più viva che altrove era l’agitazione in Sicilia, dove il moto liberale borghese trovava sostegno nelle aspirazioni autonomistiche, che la propaganda mazziniana e della Società Nazionale stavano ormai indirizzando verso il programma unitario. La notte del 5 maggio 1860, dallo scoglio di Quarto prese il via la spedizione dei Mille condotta da Giuseppe Garibaldi, il quale, sbarcato a Marsala, dopo fortunati scontri, percorse ed occupò l’isola, ingrossando le sue file con numerosi volontari siciliani. Allora Francesco II, il 25 giugno, proclamò lo Statuto e concesse l’amnistia ai condannati politici, senza però riuscire a fermare la marcia di Garibaldi, che il 7 settembre, precedendo le sue truppe, entrò in Napoli quasi solo in treno, invitato dal Presidente del Ministero Costituzionale, Liborio Romano, il quale aveva consigliato al Re di rifugiarsi nella fortezza di Gaeta.
Resistevano tuttavia le cittadelle di Messina e di Civitella del Tronto, e le fortezze di Capua e di Gaeta, dove Francesco Il con le truppe rimastegli fedeli mostrò, nella valorosa difesa, un coraggio ìncredibile ed insospettato. Seguirono la discesa di Vittorio Emanuele II nel territorio napoletano, l’incontro a Teano con Garibaldi, il quale, dopo averlo salutato “Re d’Italia “, si ritirò nella piccola ‘Isola di Caprera in sdegnosa povertà, ed il 21 ottobre il plebiscito, per cui Napoli e la Sicilia furono annesse al regno sabaudo.

Però le operazioni contro la fortezza di Gaeta si protrassero a lungo per la tenace resistenza d’elle truppe borboniche fedeli, ed in seguito ad onorevole capitolazione, il 13 febbraio 1861, il re Francesco Il si ritirò a Roma, ospite del papa Pio IX. La fortezza di Civitella del Tronto, nell’Abruzzo teramano, resistette fino al 21 marzo, quando già era stata votata al Parlamento di Torino il 17 marzo 1861 la legge, con cui il re sardo-piemontese assunse il titolo di Re di Italia, e continuò a chiamarsi Vittorio Emanuele II, confermando in tal modo la prosecuzione ideale della monarchia sabauda. L’unificazione pertanto assunse il carattere annessionistico-monarchico, anziché rivoluzionario vero e proprio, secondo lo spirito risorgimentale, perché all’intero popolo italiano mancarono modo e tempo di riflettere sulla forma di Stato, che la maggioranza avrebbe dovuto esprimere con un unico democratico plebiscito: e conseguenze ben tristi non tardarono molto a rivelarsi in tutta la loro gravità, specie nel Meridione.

L’Italia venne divisa in province ed in circondari con a capo, rispettivamente il prefetto ed il sottoprefetto, entrambi di nomina regia, onde garantire nel modo migliore l’unità e la autorità dello Stato: nell’amministrazione comunale si ebbero il sindaco, anch’esso di nomina regia nei primi tempi, ed il Consiglio comunale, che veniva eletto dal popolo. Ma tale organizzazione amministrativa non fu una cosa nuova, perché già esisteva nel regno di Napoli dal tempo dei re Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat, in conformità dei dipartimenti francesi, e fu confermata dal re Ferdinando 1 al suo ritorno sul trono. La burocrazia e le forze armate furono organizzate, utilizzando in buona parte il personale dei vecchi Stati, venne introdotta la coscrizione obbligatoria, ed inoltre fu applicata indifferentemente in tutte le regioni d’Italia la legislazione penale e civile del Piemonte.

Non si può negare che la stragrande maggioranza del popolo italiano, costituita di contadini, per lo più analfabeti e molto poveri, fu estranea al movimento nazionale, se non addirittura ostile per atavico istintivo attaccamento al Sovrano ed al vecchio ordine di cose, tanto nelle zone del Nord che in quelle del Sud. Orbene i sostenitori, partecipi coscienti del moto liberale nazionale, rappresentavano una minoranza esigua del paese, e, se nella Sicilia vi furono dei contadini, che accolsero con favore Garibaldi, nella speranza di un migliore avvenire, proprio in quella regione, più che nelle altre, il nuovo regime produsse delusione grandissima, specialmente per la coscrizione obbligatoria. In verità, in ogni parte d’Italia le condizioni delle classi popolari subirono, nei primi momenti dell’unità, un peggioramento, sia per la scomparsa di talune attività tradizionali, sia per l’accresciuto carico fiscale in seguito all’aumento delle imposte indirette.

Prima del 1860, il regno delle Due Sicilie, come hanno dimostrato il Nitti ed altri studiosi, si trovava in condizioni di vantaggio rispetto al Settentrione, perché le sue imposte erano assai tenui ed il debito pubblico quasi inesistente, i beni demaniali ed ecclesiastici erano numerosi e cospicui e la moneta metallica vi circolava in quantità rilevante. L’unità nazionale portò, con l’unificazione dei sistemi tributari, la fusione dei debiti, sicché i risparmi del Sud si volatilizzarono per il saldo dei debiti del Nord, mentre si assisteva all’aumento in misura eccessiva delle tasse, che incidevano sull’economia stremata delle popolazioni più povere, non avvezze a pagamenti pesanti nel precedente regime.

L’agricoltura ed ogni altra attività languivano nelle regioni meridionali, e nessun provvedimento veniva preso in favore di esse; però le prime cure sembravano riservate per l’istituzione di scuole, per la costruzione di ferrovie e di canali, per la bonifica di varie zone nelle regioni settentrionali. Se si fosse proceduto al plebiscito, nel 1866, il risultato sarebbe stato ben diverso: dal 1860 al 1866, come afferma il Cordova, si perpetrò una continua offesa alle abitudini ed alle tradizioni secolari di popolazioni vivaci, espansive e ben disposte a ricambiare fiducia ed affetto ad un governo, che ne avesse saputo studiare e comprendere i bisogni e le aspirazioni reali. Ma il nuovo governo unitario non fu all’altezza del compito e non tenne conto delle esigenze delle regioni meridionali. Afferma infatti il Croce: ” Comparativamente sfavorita fu l’Italia Meridionale, che, dall’unificazione dei debiti pubblici, dalle alte imposte, dalla messa in vendita dei debiti ecclesiastici, ebbe assorbito gran parte del suo non molto capitale, mentre all’industria del Settentrione, più ricco per natura e per ragioni di storia civile, vieppiù arricchito per concentrazione d’uomini e
di amministrazioni e di lavori richiesti dalla difesa militare, si apriva un mercato nel Mezzogiorno, nel quale sparivano di conseguenza le industrie locali e quella domestica “.

Molto grave era il malcontento sorto nelle popolazioni agricole, specialmente dell’Abruzzo, della Lucania, della Puglia e della Calabria, che non videro di buon occhio un altro Re, una altra amministrazione, le tasse, la coscrizione obbligatoria. Inoltre il disagio della classe contadina crebbe a dismisura con la vendita dei vasti beni demaniali dell’ex-regno borbonico e dei beni degli Ordini religiosi, che ‘Io Stato italiano fu costretto ad operare, perché pressato dalla necessità di risanare il bilancio. Come conseguenza, si verificò la perdita di vari diritti di usi civici, come quello di pascolo, di legnatico, etc., fino allora goduti dagli abitanti dei paesi del Sud sulle terre demaniali e dei Comuni. La miseria dei contadini divenne più grave, essendo peggiorate le mercedi e le condizioni di lavoro in seguito al passaggio dei beni terrieri dal demanio e dal monasteri al nuovi proprietari, molto più accorti, per non dire esosi, nel curare i propri interessi. Emersero quindi motivi molteplici per lo scatenarsi di una lotta, nella quale sotto gli aspetti, cui si è fatto cenno, si possono intravedere anche segni di una prima violenta manifestazione di dissidio sociale.

Nessuna meraviglia quindi se, nel malcontento quasi generale, dopo le esperienze negative dei primi momenti dell’unificazione, la quale fu realmente raggiunta nella prima guerra mondiale, vittoriosa, ebbe inizio quel fenomeno, che si continua ancora a chiamare impropriamente ” brigantaggio “. Fu esso invece una dura e lunga guerriglia partigiana, densa di episodi di ferocia e di eccessi da ambo le parti, durante la quale e fino al 1866 dei meridionali caddero combattendo 2416 uomini, contadini in massima parte, 1038 furono fucilati ed altri 2768 furono condannati alla galera; senza tener conto della lotta in Sicilia, le perdite dei fedeli di Francesco Il raggiunsero gli effettivi di una brigata di Fanteria (1).

Si volle vedere nel cosiddetto ” brigantaggio meridionale ” niente altro che un fenomeno di delinquenza comune, e pertanto venne represso con spietata severità, e si giunse persino a fucilazioni in massa di quanti fossero catturati con le armi in pugno. Fra costoro si contarono anche professionisti di buone famiglie e di indiscussa onestà, ufficiali di ogni grado del disciolto esercito napoletano ed ancora, siano essi stati animati o non unicamente da spirito di avventura, ufficiali superiori e generali stranieri – spagnoli, belgi, svizzeri, bavaresi, sassoni e francesi – come Cathélineau, Castellan, Langlois, Olivier, marchese di Trazégnies, conte Elvino, De Rivières, Borjés, Zimmerman e Tristany (2), oltre al barone Teodoro Federico Klitsche De La Grange, il quale da tempo viveva nella città di Caserta.

Certo che nel particolare momento, come naturalmente si e verificato in altri casi anche di recente, tra i sostenitori dei Borboni non si poteva badare ad una discriminazione scrupolosa di seguaci in buona fede dal briganti veri e propri, il cui servizio, utile alla causa, finiva col nascondere vieppiù la loro reale identità e li faceva confondere con la massa, organizzata militarmente e sovvenzionata dall’ex-re Francesco 11, ritiratosi a Roma. Ecco perché determinati atti di brigantaggio autentico, di cui del resto non può dirsi essere stata immune l’altra parte, non potevano caratterizzare tutta una lotta, che non poche persone, degne di rispetto, combatterono eroicamente a sostegno e difesa del proprio ideale politico, tanto più che intere regioni, interi paesi, intere città dell’ex-regno delle Due Sicilie propendevano ancora per la monarchia borbonica, verso la quale non riuscivano a nascondere la loro fedeltà.

Basterebbe leggere in proposito un qualsiasi libro contro il movimento meridionale dell’epoca, per rendersene conto; e proprio riguardo ad Avezzano è significativo il seguente brano:
” La popolazione di questo distretto (Avezzano) apparentemente sembra indifferente e noncurante di qualunque avvenimento politico, ma si sveglierebbe nemica il giorno in cui sorgesse un evento qualunque che abbattesse anche per un momento la nostra autorità. Durante il periodo di tempo in cui gli affari politici riguardo al Garibaldini sembravano prendere pieghe diverse all’andamento delle attuali cose, alcuni sintomi che si manifestarono nella popolazione, senza che neanche vi sia stata dimostrazione pubblica e rumorosa, denotarono chiaramente anche ai meno veggenti ed agli ottimisti a qualunque costo, che qualunque fosse l’avvenimento per noi contrario, avremmo a contare contro di noi questa popolazione. Nobili e plebei ricchi e poveri, qui tutti aspirano. meno qualche onorevole eccezione (e qual’è a questo mondo la cosa che non abbia la sua eccezione?), ad una prossima restaurazione borbonica. Questa aspirazione consuona perfettamente col carattere di questa popolazione, la quale preferisce i tenebrosi raggiri del dispotismo alle forme libere di un Governo Nazionale ed onesto.

Mancano, gli è pur d’uopo dirlo, anco i buoni esempi per educarla al bene, e quelli che sono chiamati dal loro ministero a intraprendere e compiere codesta educazione, il Clero e le Autorità Civili e politiche, queste falliscono al loro compito, per essere, se non apertamente avverse, almeno di fede molto dubbia ed amici molto instabili, capricciosi e pericolosi dell’attuale Governo. In quanto alle Guardie Nazionali non posso non asserire, per quanto riguarda Avezzano ed i Comuni dipendenti, che se alcuni si mostrano contenti di appartenere alla prefata milizia per godere degli annessivi privilegi e possedere un’arma, in generale si mostrano avversi, o indifferenti, facendo quel lieve servizio per mero dovere e per paura di castigo. Quest’avversione nasce anche in taluni dal non essere stati prescelti nella distribuzione delle armi di proprietà del Governo fatte dai Municipi; in altri dal vedersi distolti dalle giornaliere loro occupazioni a scapito dei loro interessi.

A tali inconvenienti aggiungasi l’inerzia de Sindaci, i quali non valendosi dell’autorità della carica che occupano, lasciano che sempreppiù la viziosa organizzazione ed istruzione della milizia alla loro tutela affidata si propaghi, non provvedendo neppure a quelle tali urgenze che simile istituto richiede. Havvi una ripugnanza indicibile in questo paese, come in tutti gli altri delle province meridionali senza eccezione, nello accettare le nuove monete di bronzo. Molta parte della gioventù soggetta alla coscrizione dell’anno in corso sembra vogliasi ritirare nell’agro romano colla scusa di cercar lavoro, ma in effetto per sottrarsi al militare servizio. Nessunissimo impegno da parte delle varie Autorità nel promuovere colle loro azioni il miglioramento dello spirito morale e politico di questi popoli.

La diffidenza del popolo della città e quello della campagna, rozzo, truce, ignorante e feroce, verso il Governo presente, proviene in massima parte dal dover essi pagare tributi maggiori e non conoscere alcun vantaggio, ma bensì tutti i pesi e gravami del nuovo stato di cose, e cioè per l’inerzia e la protervia dei Sindaci e delle pessime amministrazioni municipali, i quali non curano la istruzione pubblica, la pulizia e l’igiene dei paesi, la circolazione e manutenzione delle strade comunali, solo mezzo di far conoscere alle turbe stolide i materiali vantaggi derivanti dal commercio, e quale motore di educazione e quale moralizzatore esso sia. Da questo cumulo di mali ed errori i cattivi traggono motivo di insinuare nel popolo ignorante, che mai non ragiona e solo giudica cogli istinti animali e cogli occhi delle sue passioni e dei suoi bisogni, che il Piemonte (cosi essi chiamano il Governo Nazionale Italiano!) ha conquistate queste province per estollervi dei danari come da una miniera da pagare i molti debiti che lo affliggevano!…

Onde togliere l’abuso cosi comune in questi paesi dello sperpero e della prevaricazione del danaro pubblico, sarebbe necessario adottare il facile ed insieme molto efficace sistema che dal Prefetti e sotto Prefetti dei capoluoghi fosse, nelle epoche stabilite, formata un’apposita commissione, composta di uomini noti per sapere, probità, esperienza d’affari, incolumità di principi, i quali avessero l’incarico dello scrutinio delle varie amministrazioni comunali dei distretti, affine di procurare che le pubbliche rendite fossero spese pel pubblico interesse, e non fossero versate nelle casse particolari dei vari amministratori, come succede tuttodi ” (3).

I giudizi, contenuti nel brano surriportato, risultano molto meno aspri ed amari di quelli espressi a carico di molte altre città e paesi dell’ex-regno borbonico; anzi in altro luogo del libro vengono poste in evidenza virtù naturali della nostra gente, come segue: ” Or gli Abruzzesi, in generale parlando, non rassomigliano agli abitanti di piani caldi e fertili. Diversificano poi assai quelli della provincia aquilana. Distinguonsi tra loro spiccatamente i Marsicani e gli Aquilani. Sono essi d’indole nobile ed altera, indipendente e proclive oltre ogni credere alla libertà. La loro storia conferma l’assertiva. Ma la supprema garentia del vero consiste nella loro natura, perché non mentisce ne inganna. Analizzando i contadini i più rozzi, il ceto medio ed il più colto di Aquila e del distretto di Avezzano s’apprende da ogni loro moto, o detto, o sguardo, o fatto, limpida o velata la natural tendenza, giacché la natura non si maschera mai bastevolmente all’occhio scrutatore del filosofo. Anche i più corrotti o dal bisogni, o dal costume, o dalla superstizione, lasciano trasparire le tracce della natia loro indole.

Lo diceva che l’altezza e l’indipendenza sono i caratteri distintivi degli abitatori dei luoghi montuosi ed alquanto freddi. Ebbene, tali sono i caratteri di tutti gli abitanti di questa provincia, più marcati e forti negli Aquilani e nel Marsicani, perché sono legati da una intelligenza superiore a quella degli altri distretti. Essi comprendono molto, bene e presto. Sono naturalmente contemplativi, analitici, di robusta immaginativa che dipinge e non altera le idee. Di memoria tenace e schiva delle cose inutili o superflue, per cui nutrono idee madri, né piegano alla cieca credenza.

Giovanni Pagani

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