Crediamo sia utile discutere in questo paragrafo il complesso tema del Giudizio, valutato nel sistema più vicino all’uomo delle ricompense e delle pene assegnate post mortem, per cui, come affermava il noto predicatore domenicano Giordano da Pisa a inizio Trecento, conveniva in questo mondo stare in penitenza e stare netti. Se viene scelta, tra le molte possibili, la scansione bipolare alto/basso [22], con la parte nobile occupata dal paradiso ove si ascende, valicando il proprio limite, e l’ignobile inferno in basso, alla sinistra di Cristo, verso cui si cade, mostrando i tormenti in primo piano (101), è perché fosse chiaro il destino finale cui era chiamato ciascuno, inserendo il tema in un’ottica ecclesiale più ampia e non punitiva (102).
Infatti la comunità dei santi, dei patriarchi, dei profeti, degli evangelisti, degli apostoli, dei martiri, dei dottori, dei papi, dei cardinali, dei vescovi, dei chierici e dei diaconi, dei monaci e dei frati, delle vedove e delle vergini, riuniti in gruppi e precisati qualche volta da epigrafi (103), si intreccia a coloro che risorgono dalla terra con il corpo giovanile incorrotto (104), mentre a tutti è promesso di godere la presenza di Dio, conquistabile fino al momento del giudizio con l’intercessione della chiesa trionfante [32] (105) . Moderiamo dunque la tradizionale interpretazione negativa, perché anzi la contemplazione del cielo e l’emulazione dei santi stimolavano i fedeli a superare certa distrazione dell’animo e a schematizzare in immagini un’articolata dottrina. Non sorprenda inoltre la posizione del dipinto sulla fronte del presbiterio interno dell’oratorio (106); non sorprenda l’assenza del purgatorio, quella regione per i mediocremente buoni e i mediocremente cattivi già indicata da Agostino e Graziano, teorizzata dalla Scolastica parigina fin dal tardo XII secolo, e la cui esistenza venne dogmaticamente sancita nel concilio di Firenze del 1439.
La realtà del Giudizio crebbe in realtà con il sistema giudiziario civile e con il progressivo affermarsi della borghesia, convinta di acquistare meriti con il calcolo delle preghiere domenicali pronunciate da parenti e da amici, con celebrazioni in suffragio, elemosine, offerte, opere pie, indulgenze lucrate per mitigare le pene derivanti da colpe di cui non era stata soddisfatta o non era conclusa in terra la riparazione, e per le quali si confidava in un tempo ancora utile di “solidarietà” (107) , tempo compreso tra il giudizio individuale, cui si veniva sottoposti con la morte, lasciando libero campo al rifiuto delle cattive ispirazioni (108) , e quello finale e collettivo, premiato nel migliore dei casi con la visione di Dio (109) . Anche nel nostro caso il giudizio deve essere ancora pronunciato e ciò per coinvolgere maggiormente gli osservatori (110).
Puntando ora l’attenzione sul paradiso [32], che occupa una vasta zona del
nostro affresco (111), troviamo dapprima i del tutto buoni, assorbiti nella lode e nella contemplazione di Dio; sono coloro che dopo il battesimo non hanno commesso colpe o le hanno espiate con buona volontà, citati spesso nelle visioni dei mistici (112) , invocati nei formulari liturgici (113) e nei testamenti ad recommendationem animae (114). Gli eletti, rigorosamente distinti nei sessi (115), siedono in masse compatte a raf-forzare gerarchicamente il potere di Cristo. Spiccano su un fondo chiaro, allusivo alla pace e alla levità del sesto cielo, e come avvocati di un tribunale d’appello invocano la misericordia di Dio. Il loro unificato gesto di preghiera, a mani giunte all’altezza del petto, con le dita distese e parallele in segno di supplica e di totale remissione al Padre,
è corroborato talvolta dalla genuflessione recta delle gambe (116).
In dettaglio elenchiamo i personaggi comunemente rappresentati a partire dal Medioevo (117) . Vi sono anzitutto i patriarchi, cioè i giusti che vissero prima di Cristo, primi tra i risorti da Lui liberati nel limbo (118). Seguono i profeti, tra cui Giovanni Battista, primo salvato dei non battezzati, intento come la Vergine nella deesis(119) ; poi gli evangelisti, spartiti a coppie ai lati di Gesù (riconosciamo l’anziano Giovanni), e gli apostoli, divisi in gruppi (Mt 19, 28), capeggiati a destra da Pietro in compagnia di Paolo. Quest’ultimo era diretto testimone dell’Eterno perché fu elevato al terzo cielo, ed era spesso invocato in suffragio dell’anima dei defunti, associato anche all’arcangelo Michele per accogliere i buoni nel paradiso(120). Seguono i martiri, emblematicamente riassunti da Sebastiano, e i dottori della Chiesa (121) ; ultimi sono i monaci, capitanati da Benedetto, e i religiosi, condotti da s. Francesco, le cui rispettive famiglie erano tradizionalmente impegnate nel salvare le anime neglette con preghiere, veglie ed elemosine (122).
Inoltre ci sono le vedove, che intercedono soprattutto per i coniugi (123), poi le vergini, madri spirituali di ogni anima, con il volto raggiante e il velo cinto da corone, poste vicine a Maria (124), donna per eccellenza senza macchia, il cui affettuoso ruolo di mediatrice era essenziale nei due tipi di giudizio (125). Infine scorgiamo i vescovi e i papi, meritevoli di ritrovare in cielo le insegne del loro zelante servizio, confusi a sacerdoti e ad anonimi, che poterono usufruire almeno di un Requiem e di un’Ave Maria. Nell’affresco vi sono anche gli angeli con la croce e la colonna, cioè con alcuni strumenti della Passione di Cristo (126), e l’arcangelo Michele, prepositus Paradisii dopo la cacciata dei progenitori, che impugna la spada con la quale respinse Lucifero. Egli pesa le anime nella fase giudiziaria che precede la sentenza (127), mentre sui piatti della bilancia vi sono le personificazioni delle cattive e delle buone azioni compiute dagli uomini: una si strappa i capelli e pende a sinistra, l’altra prega serenamente in ginocchio, certa che le buone opere saranno offerte all’altare di Dio (128) .
Mancano invece nell’empireo abruzzese le nove gerarchie angeliche, precisate anche con interne distinzioni nel trattato elaborato a inizio VI secolo dallo Pseudo-Dionigi l’Aereopagita (129), testo che ebbe larga fortuna nell’Occidente latino. Esse erano citate anche nelle visioni di età medievale e moderna (130) e nella pur sobria liturgia romana. Queste sono invece raffigurate, senza distinzione tra gradi superiori e intermedi, nel Giudizio che orna la controfacciata della chiesa di S. Maria Assunta a Sermoneta, che crediamo dipinta dal Maestro di Farfa (v. cap. III. 3. 1. b). I cherubini sono nella mandorla intorno a Gesù, con il capo a sei ali e il volto scoperto in contemplazione delle verità divine [tav. IIIa]; i troni, le dominazioni e le virtù, precisati dai nomi sulle aureole e intenti a suonare la musica celeste (131), poggiano sui ripiani che sporgono dal portico finestrato che introduce al paradiso [33], sotto il quale Pietro, largamente invocato nei testi liturgici, nelle omelie e nelle preghiere di suffragio, ma soprattutto segno della mediazione operata dalla Chiesa, accompagna re e prelati (più scadente è la relativa scena nell’affresco di Desiderio in Abruzzo [22]).
Nei dipinti mancano anche gli angeli con le tradizionali buccine che annunciano la fine dei tempi, o con i libri della rivelazione e i filatteri delle sentenze evangeliche. Svolgono invece un ruolo determinante i guardiani del paradiso terrestre, che già godono la familiarità di Dio. Sono il profeta Elia, rigoroso asceta e intrepido nel difendere la Scrittura contro i culti cananei, ed Enoch, scriba di giustizia e settimo della serie dei patriarchi tra Adamo e Noè, entrambi vivi perché secondo la tradizione furono risparmiati alla morte e trasferiti al terzo cielo, soglia dell’em-pireo. In attesa dell’ultimo giorno smascherano le opere dell’Anticristo, ma da lui uccisi ascenderanno dopo tre giorni (132) ; intanto si dolgono per la stoltezza degli uomini, attendendo fiduciosi sino all’ultimo istante le anime liberate da Cristo (133). Essi indicano con la mano il Risorto, nodo dell’intera composizione, seduto in posa ieratica quale Pantocratore, sofferente ma giudice, incluso nella mandorla di luce del settimo cielo, presente anche nell’affresco di Sermoneta [tav. IIIa] (135) .
Le sue mani non puniscono né benedicono: la destra, che corrisponde al lato migliore, evidenzia le piaghe della Passione e accoglie l’intercessione della Vergine; la sinistra preme un fiotto di sangue dal costato, ferita più preziosa delle altre, sorgente di salvezza per i vivi e per i morti (136), che un’antica tradizione diceva non corrispondere al lato del cuore (137). L’ostentatio vulnerum in particolare, corroborata dal capo inflitto di spine, documenta la prolungata sofferenza sulla croce dell’uomo-Dio, il cui amore per gli uomini diveniva per questo efficace (138), tema largamente discusso nel Medioevo e ripreso nel Quattrocento specie in ambito francescano (139) e Osservante, ma anche oggetto di culto collettivo e privato, fino a rivestire particolari accenti di crudo realismo. Il candido giglio che gli spunta da una guancia, segno della grazia divina elargita nel momento finale, ma anche di beatitudine, integrità e purezza per gli eletti che hanno seguito la volontà di Dio (140) , fa pendant con la spada a doppio taglio, strumento di severo giudizio (141), presenti entrambi nell’iconografia occidentale dell’inizio del Trecento (142), e perduranti nella pittura e nella stampa nordeuropee fino ai primi del XVI secolo (143). Ora il colore del sangue di Cristo è rosso e denso, tinta (ruber) per eccellenza, e indica la pienezza dell’amore, fonte di vita e di energia (robur) (144).
Il Risorto, dolce e umano, è l’antagonista di satana, che occupa invece un largo spazio in basso, a mostrare il contrasto tra lo spiritualmente bello e il solennemente spaventoso e ridicolo (145) . Questi è più grande di Gesù ([35]; a Sermoneta è ripetuto a lato [34]), ma gli si sottomette perché obbligato a occupare con le sue sproporzionate membra l’an-gusta e tetra caverna, infestata da demoni alati di minori dimensioni. È il re malvagio che profana e insieme conferma il sacro (146), solo e isolato in opposizione all’amore trinitario, seduto come unico elemento stabile nel regno del disordine, segno dell’ordine negativo vigente sulla terra (147). È anche impotente, perché trattenuto da incandescenti catene di ferro (148), onorato da boia e dannati ritratti in pose convulse (149), diverse dall’elegante flessuosità di coloro che risorgono (150) o degli eletti compostamente seduti nel cielo. È dunque l’eversore che scardina i valori, che separa con tentazioni personalizzate gli uomini tra loro (dal verbo greco diabàllo), illusi sul senso della vita non illuminata dalla fede, anche se egli non ha potere sulla volontà e sul libero arbitrio. È poi deforme e in continua mutazione, perché è vuoto, fiacco ed inconsistente (151).
Ha inoltre una doppia natura: il corpo e le estremità sono umanoidi, le articolazioni delle ginocchia hanno protomi canine e denti acuminati (152) ; il viso trifronte è una maschera che ghigna con sarcasmo (153) ; la capigliatura è irsuta, gli occhi bruciano di efferatezza; le zanne sono penetranti come le corna; gli orifizi sono occupati dai dannati, alcuni dei quali vengono espulsi nelle regioni basse dall’ano, secondo il ritmo incessante dell’oralità distruttrice (154) . Il colore del corpo inoltre è di un rosso cattivo (“roscio”), opposto a quello (brillante) del sangue di Cristo; per l’immaginario collettivo egli è dunque impuro e perverso (155). Anche i demoni seviziatori dal corpo umanoide (156), in genere più grandi delle vittime cui infliggono torture esiziali (come mostra il sangue copioso che goccia dalle ferite (157) ) hanno le sembianze di colore verde e giallo-acido, desaturati in questo am-biente corrosivo del sublime grottesco [35] (158) .
Il verde ad esempio è una tinta fredda, meno attiva delle altre, instabile e inaffidabile (si addice ai veleni); se combinato alla sensazione del viscido e del ripugnante (159), evoca i serpenti, numerosi nel nostro dipinto. Questi mordono, afferrano, stringono, simboleggiando la cattiva coscienza, cruciano come i vermi (160), i piccoli draghi, le tartarughe (161), gli scorpioni, sinonimo nella Scrittura di atroce tormento (Ap 9, 5) (162) . Anche il giallastro ha un carattere negativo, specie se tende al verde o è ad esso associato; disturba infatti il naturale bisogno di quiete dell’occhio ed è segno di falsità, invidia, avarizia, tradimento e malvagità (163) . Un altro elemento domina lo scenario, accentuato dal contrasto delle tinte. Il fondale roccioso, arretrato e scuro, è opprimente e opaco, perché non vi penetra la luce divina: è il regno delle fitte tenebre (Gb 10, 22), provocate sia dalla massa dei corpi (lo affermava Tommaso d’Aquino), sia dalle membrane dei pipistrelli, distese a infestare, molestare e colpire in rapido volo i malvagi (164).
Inoltre in questo luogo sempre attivo di morte si esaltano il fuoco, sprigionato in fiaccole dalla terra per punire le anime con il calore e le ustioni (165) , e il rumore, provocato dalle torture inflitte dai demoni ed espresso in pianti, gemiti, ingiurie e grida (166), ma anche in sibili, fruscii, tagli, strappi, mutilazioni, sventramenti ed eviscerazioni, in fissaggi alle tavole con chiodi, in perforazioni eseguite con uncini, pali e grappe (167), o con gli stessi strumenti del lavoro artigiano, da utilizzare con precisi gesti; siamo infatti nell’unico luogo dell’aldilà ove sia possibile svolgere lavori manuali. Inoltre in questo crudo scenario sono bene illustrate le pene infamanti e derisorie, che vilipendono l’anima, resa più fragile dal mancato rivestimento del corpo (168) . Osserviamo le prese per i capelli, gli avvinghiamenti, le torsioni, gli atter-ramenti proni e supini, gli assalti e le cavalcature di spalle, le sospensioni a testa in giù per un piede con corde e catene (169), segni delle relazioni asimmetriche intrecciate tra chi offende e chi subisce (170), casi di un repertorio vasto, documentato ad esempio con macabra curiosità in alcuni codici miniati di argomento storico (171), e solo in parte specchio del coevo sistema giudiziario (172) .
I seviziati inoltre peggiorano con la nudità la loro condizione degradata, perché neppure indossano gli abiti dei laboratores, abituati a subire pene e ultimi nel gradino della scala sociale (173). Sono anche asessuati, perché la loro individualità è perduta per sempre; i capelli lunghi e castani (giallastri) li fanno somigliare poi alle donne, inferiori all’uomo, considerate per tradizione coacervo di peccati (174) . Sono quindi monstrua, logorati da una violenza che è appena iniziata e che riproduce, inverte o amplifica il vizio commesso (175). Del resto nell’immaginario aldilà si proiettava il desiderio di veder trionfare la giustizia (176), e le coscienze, più che intimorite dai castighi divini, erano esortate a discernere le proprie azioni e a vivere rettamente (177) . Ecco dunque in aiuto per i fedeli l’aldilà a settori, ecco raggiunti i medesimi scopi della predicazione, specie di ambito Osservante, espressa nei festivi e la domenica, o con continuità giornaliera e per ore nei tempi forti di Avvento e di Quaresima (178) .
Bisognava riscaldare gli animi, consolidare la fede con semplici messaggi, suscitare una prolungata emozione (179), correggere gli errori, guidare il fedele a un buon esame di coscienza, prima che si avvicinasse alla confessione auricolare, sua immediata verifica (180). Ipotizziamo dunque per i nostri affreschi una committenza esigente, che ha orientato i pittori ad organizzare un complesso programma didattico. Certo non fu il clero curato, generalmente ignorante, neppure incline al contatto con le masse se non nei festivi e nell’amministrare i sacramenti, custode al massimo del patrimonio e delle sedi (181). Le epigrafi in Abruzzo parlano solo di un frate heremita, che crediamo sostenuto dall’Osservanza e dai benefacturi appartenenti forse al nobile casato dei Maccafani della vicina Pereto (182). Certo è che i fedeli potevano tro-vare i cicli rispondenti ai loro bisogni spirituali. Tra i dannati ad esempio potevano riconoscere alcune loro attività: il calzolaio, il fabbro, il mercante, il proprietario o il gestore di taverne, il macellaio, il sarto, persino la prostituta e la concubina, ciascun mestiere precisato dalla scritta in un volgare tendente al parlato, pieno di sgrammaticature e idiotismi, selezionati forse tra le categorie più bisognose di ravvedimento (v. oltre).
Ci sono anche i gruppi tradizionalmente tacciati d’infamia, i manigoldi, i soldati, i sodomiti, gli omicidi, i turchi, i tartari, gli ebrei, i peccatori di “lingua”
(traditori, bestemmiatori, ipocriti); non mancano gli sciocchi, forse identificabili in 183 Abruzzo con i MACCABEI (183) . Repertorio dunque vasto, come ai limiti del pletorico è la schiera degli eletti nel cielo. È opportuno anche osservare che quelle classi erano citate nei ponderosi trattati di confessione, le summae de casibus, ben strutturate per un’agile consultazione, e nelle brevi ed utili confessioni generali, opuscoli che seguivano semplici regole ed offrivano spunti di approfondimento, adattabili alle diverse esigenze formative
della gente. Partiamo da queste ultime, circolanti nel Quattrocento tra i laici di media cultura, specie nel tempo quaresimale, per aiutarli a scoprire individualmente i peccati, spesso ricordati in disordine (184); opuscoli in 4°, in lingua volgare, ma anche in latino, manoscritti e a stampa, tirati a basso prezzo, ordinati alfabeticamente con pausa fissa di invocazione, privi quasi di citazioni giuridiche e canonistiche, attribuiti impropriamente agli Osservanti, ma sfruttati anche dai pochi diocesani attivi nel servizio del confessionale (185).
Le summae invece godevano di una lunga tradizione, redatte nel pieno Medioevo per lo più da Domenicani e Francescani (186), coordinate sintesi di razionalità e di pragmatismo, utilizzate specie se in volgare dal basso clero, che non poteva acquistare i codici canonistici e di legislazione civile, i testi di dogmatica e di morale, i commentari, le disposizioni sinodali, i florilegi della letteratura e della pastorale in tema. Certo giovò il passaggio da un sistema penitenziale di tipo tariffario, esemplato per tutto il primo Medioevo dal Corrector sive Medicus di Burcardo di Worms, fonte anche in seguito largamente utilizzata (187), a un sistema più articolato, diffuso dal primo Duecento, preceduto da un esame di coscienza maturato nella
contrizione (188), meglio se quotidiano per rinfrescare il ricordo e resistere alle tentazioni del diavolo, coronato da un dialogo costruttivo con il confessore,
attento a vagliare le intenzioni, le attenuanti e le circostanze (189) , utili a riammettere il fedele tra i devoti, facendo appello al suo senso di responsabilità (190).
Dunque gli affreschi “funzionavano” per un pubblico variegato, in genere
distratto, nei migliori dei casi travagliato da scrupoli, poco seguito nella catechesi, poco confortato dalla preghiera (191). Inoltre per corrispondere ai bisogni spirituali della gente sempre più impegnata nel lavoro, non più giudicato segno punitivo del peccato, ma personale vocazione alla salvezza e contributo da rendere all’opera creatrice iniziata da Dio (192), intervennero anche i sermones ad status, capaci di combinare tradizione e senso pratico, redatti tra la metà del XII e il XIII secolo, poi largamente utilizzati come prontuari dai sacerdoti, difficili da datare perché seguivano una lunga
tradizione. Si rivolgevano a distinti gruppi socio-professionali, differenziati per
età, sesso, censo e luogo di residenza (193), categorie che, se organizzate e riconosciute (194), garantivano dignità sociale all’individuo, pur nel contesto delle permanenti ineguali condizioni (195).
Lecito in ogni caso era non l’utile, conquistato con le proprie forze, ma il servizio reso gratuitamente alla Chiesa e agli altri, giacché i talenti erano doni celesti da far fruttificare. Certo tra XIII e XV secolo molte cose erano cambiate: alcuni mestieri ritenuti illeciti lo divennero solo occasionalmente ex causa, ex tempore e ex persona (196) , mentre i nostri affreschi illustrano attività da tempo oggetto di pregiudizi e di preoccupazioni pastorali, la cui gestione era spesso affidata a persone disoneste, talvolta neppure ottemperanti all’obbligo del riposo festivo. Forse qualcuno di questi testi scritti era conosciuto dai più diretti committenti dei dipinti. Ora negli affreschi abruzzesi [35] e pontini [34], tra le professioni considerate infamanti dal diritto canonico e dalla morale corrente, irretite nei tabù della violenza, della morte, del denaro, del sangue e dell’impurità (197), con aggravio di alcuni vizi capitali, ricordiamo anzitutto le MERETRICI, considerate depositi di impurità (Prov 23, 27), che si offrivano a laici e a chierici (FEMINA DE PRETTE), impegnate solitamente con contratto o itineranti non specializzate.
Ad esse vanno uniti i sodomiti (della cui probabile didascalia nel santuario abruzzese resta la sola lettera M, a Sermoneta forse OM), gli uni e le altre (198) associa te ai tavernieri, o ai proprietari, inservienti e gestori dei bagni pubblici (BALE…TRTRI a Sermoneta (199), da balneari, balneotrices (200) ), che fungevano spesso da mezzani per le prestazioni svolte in luoghi non idonei. È risaputo che il meretricio coinvolgeva tutti gli strati sociali, e che fino al tardo Quattrocento fu tollerato per contenere mali peggiori, come la vivacità sessuale dei giovani, alimentata dalle famiglie, dagli amici più o meno coetanei, dalle magistrature.
La prostituzione permetteva anche di verificare lo stato di salute fisica prima del matrimonio, e dopo di esso era lecita ai coniugi per allontanare il pericolo dell’adulterio, come ai tonsurati, ai presbiteri e ai dignitari della Chiesa, ai frati e ai monaci, purché occasionale, per evitare imbarazzanti approcci con le maritate, le adolescenti e le vedove (201). Frenava anche la dilagante omosessualità, che mieteva vittime contro ragione e contro natura tra i giovani innocenti, ma in questo caso bisognava distinguere il tipo di contatto avuto e tra peccatori abituali e occasionali (202). Permetteva inoltre il sereno passeggio delle donne e distoglieva da cattive azioni i soldati, i mercenari, i facinorosi, i commercianti e gli artigiani che transitavano nei centri per feste, fiere e mercati. La prostituzione quindi, benché gravata da un pesante giudizio sul piano psicologico (203) e igienico-sanitario (204) , non era drasticamente emarginata.
Si consigliava di evitarla (205), se ne conteneva l’esercizio, la si proibiva di notte perché connessa a mestieri come la cucina, l’alloggio, il piccolo commercio e l’artigianato, che godevano già di un orario flessibile di apertura e chiusura degli esercizi. In particolare dopo il rintocco dell’Ave Maria, la domenica e i festivi, nei tempi forti di Natale e della Settimana Santa, le prostitute non potevano invadere le taverne, le terme (stufe), le piazze, i porticati, i vicoli, i crocicchi, le strade e i quartieri del centro, i sagrati delle chiese e i mercati, ove l’adescamento era più fruttuoso (206) . I sacerdoti bersagliavano poi le meretrici provenienti da buone famiglie (207), perché offendevano la loro bellezza e deturpavano circa dieci anni della loro vita prestando amore pro lucro et questu, sfruttando il corpo per piacere più che per necessità, ingannando la buona fede di molti, specie degli adolescenti. Esse ingenuamente cadevano nelle mani di ribaldi, ruffiani e mezzane, peggiori queste se esperte nel trattare filtri d’amore ed erbe che lenivano i mali della professione, pronte a distoglierle dalle buone intenzioni, dalle preghiere, dalla confessione, dal fare elemosine, dal compiere atti di culto in riparazione, specie dal partecipare alle processioni, considerate atti di pubblico ravvedimento.
Nella prostituzione ovviamente cadevano tutti i vizi capitali: la superbia (intesa come lusso sfrenato), l’ira (208) , l’invidia (con le concorrenti), la gola, la pigrizia, e ovviamente la lussuria (209) e l’avarizia (210). Se le meretrici poi erano concubine e generavano figli, attiravano ingiurie e potevano essere frustate (211), mentre sui nascituri pesava l’infamia di illegittimità e sui consacrati a Dio un giudizio spesso lieve e post mortem. Per tale motivo negli affreschi abruzzesi una catena con gancio da macellaio lega ano e collo dei viziosi, mentre altri prelati, disadorni nei paramenti, cuociono in piedi in una caldera che immaginiamo piena di liquidi ripugnanti, in compagnia di vescovi degradati con la sola mitria in capo (come accadeva nelle derisioni infamanti subite in alcune città d’Italia (212)), in compagnia di eretici e chierici che trascurarono il servizio divino (213), o di falsi predicatori, confessori e simoniaci (v. lo zucchetto color verde), tutti coloro cioè che si erano separati dall’ecclesia, o che si erano dedicati a mestieri illeciti (214).
Tra i luoghi deputati all’adescamento in pieno giorno abbiamo accennato alle stufe malsane (balnea), i cui gestori erano severamente puniti sin dall’epoca romana (215) , e alle taverne, nelle quali serpeggiava la rilassatezza dei costumi e la corruzione (216) . Queste infine, in particolare, non erano ben distinte dalle osterie, che univano a volte l’alloggio promiscuo all’ospitalità temporanea, facendo concorrenza agli ospizi tutelati dalla Chiesa. Ci si abbandonava senza freno alla crapula (217), si danzava con lascivia e si giocava d’azzardo a dadi, a carte, a tavolieri, a deschetti, a semplice morra (218), accettati al massimo in luoghi onorati e all’aperto. Le scommesse inoltre alimentavano il già largo consumo di vino, nerbo di una dieta basata in genere su farinacei e su carne conservata sotto sale (219).
Queste sottraevano denaro accumulato quasi sempre a fatica, o ricavato dalle elemosine e dai furti (220) . Pertanto i delinquenti frequentavano le taverne per spolpare gli avventori, provocando crisi nervose, costringendoli a prestiti e spingendoli talvolta al suicidio. È vero però che la taverna era l’unica sede per il divertimento “controllato” nelle pause feriali del lavoro e che favoriva incontri tra persone diverse. Ma era ritenuta luogo di devianza, casa di vagabondi, potenziale base di illeciti guadagni per i piccoli e i medi imprenditori o per la servitù presa a giornata (221) . Si frodava infatti sulla misura dei boccali, si ingannavano i clienti, offrendo solo di prima mattina e agli amici vino buono, sempre nuovo perché era difficile conservare il vecchio (222) ; se ne alterava la qualità, o lo si mesceva inacidito, non controllando la muffa in cantina. Anche i locali sfuggivano al divieto di apertura dopo il tramonto, il Venerdì santo e nei festivi, o prima delle messe “minime” (223) ; la gente, così distratta, faceva solo una capatina in chiesa per l’elevazione dell’ostia (224), propiziandosi una buona salute ed una buona morte.
Ecco perché nell’affresco abruzzese c’è un condannato a far da tappo con la testa in una botte. È noto poi come nella taverna si accendessero liti. “Ubriaco” e “omicida” (MICIARO alla Madonna dei Bisognosi; M[IC]ID[A]RO a Sermoneta, trafitto per ironia da un’onorevole spada) erano termini comuni nelle ingiurie (225) . Tra i delinquenti non dimentichiamo infine i manigoldi (a Sermoneta MANIOLTI (226)), persone gravate in genere da una pena aggiunta alla carcerazione, ingaggiate “per mettere le mani addosso” o meglio per seviziare i condannati a morte prima o durante le esecuzioni capitali (227), macchiati dunque di rifiuti organici e di sangue impuro (228). Nelle taverne erano frequenti anche i tradimenti un T(R)ADITORE nei dipinti abruzzesi è infamato con l’impiccagione a gamba penzoloni e testa in giù (229) , e numerosi erano i peccati di lingua (230): menzogne, vituperi, spergiuri (231) contro il prossimo, contro i sacramenti e contro Dio, soprattutto bestemmie contro la Madonna, i santi e il Creatore, non riconosciuto per i doni del perdono, della provvidenza e delle disposizioni a bene operare, piuttosto ritenute doti umane. Peccati dunque gravi, puniti in genere nella parte superiore dell’inferno e bersagliati dai predicatori e dalla giurisprudenza con relative pene corporali, spirituali o in denaro.
In Abruzzo è così strappata la lingua a un BIASTIMATORE, che cede alla superbia (232). È interessante anche notare che le immagini dei suppliziati, divisi per classi morali, ma soprattutto per mestieri non a caso tutti urbani, sono presenti in genere in chiese di piccoli centri, ove le attività erano poco differenziate e basso era il tenore di vita e di produzione nelle botteghe artigianali e mercantili (233). Gli esercizi erano modesti, soddisfacevano appena il consumo locale (234), difficilmente ci si organizzava in corporazioni (235), spesso si integrava l’attività dei contadini (236), o quella dei nomadi e degli immigrati (presenze inquietanti, i cui comportamenti sfociavano spesso in uno stile di vita degradato e nella delinquenza (237)), lavoranti a giornata, capaci di raccogliere solo un gruzzolo per “campare la vita” (238) e il cui operato era soggetto ai rischi delle fluttuazioni stagionali e di mercato (239). Sarebbe utile, come è stato fatto per alcune regioni d’Italia, cercare corrispondenza nelle fonti d’archivio tra i mestieri indicati negli affreschi e quelli esistenti sul territorio.
Si potrebbe frugare nei catasti (240) , negli estimi delle imposte dirette (241), negli statuti e nelle riformanze comunali, nella composizione dei consigli civici, negli elenchi delle corporazioni (242), nei testamenti privati, nelle matricole e nelle liste delle confraternite, che a volte segnano l’ordine tenuto nelle processioni e il contributo offerto in luminarie (243), o gli investimenti per opere d’arte mobile. Certo è che i macellai e i pizzicagnoli (presenti questi solo a Sermoneta) non godevano di una buona fama, macchiati di alcuni dei tabù sopra indicati (244). L’attività era redditizia per i primi, visto il fabbisogno di alimentazione proteica: si mangiava carne di montone, di pecora un po’ anziana, di capretto, soprattutto di maiale, poco quella dei bovini, impiegati in genere sino a tarda età come forza lavoro (245). I macellai occupavano un discreto livello nella scala sociale (246) , curavano l’importazione dei capi di bestiame sano, senza difetti, ingrassato, che poi uccidevano, scorticavano, squartavano, evisceravano, ricavando frattaglie da scaldare nella sugna.
Lo tagliavano anche in parti con poche ossa, lo svenavano per favorire una rapida cottura, lo vendevano in porzioni, agevolando gli amici e ingannando i “nemici” sulla parte offerta sul banco, sulla qualità, sul peso, sui prezzi non calmierati, sull’eventuale provenienza dal rituale ebraico (247) . Per questo negli affreschi abruzzesi sono “incicchiati” su una panca e tagliati sulla schiena da una lama affilata (248). Anche i norcini non erano stimati, pur occupando il posto immediatamente successivo ai primi (249) . A loro spettava conservare con un giusto pizzico di sale gli insaccati a rapido consumo, non vendere qualità avariate o mal composte, maggiorarne il peso, smerciare a prezzi giusti anche le spezie e i polli. In genere si imbrattavano d’unto nel lavoro e per aumentare i guadagni lavoravano nei festivi, avanzando la scusa dei tempi lunghi di preparazione (250) .
I predicatori inoltre reclamavano onestà da quegli operatori che erano
macchiati del tabù del sangue e dello sporco: dai fabbri (un FERRARO è presente anche a Sermoneta), dai falegnami (CARPENTERO), dai calzolai ([C]ALZOLARO), dai sarti (SARTORE (251)). I primi due gruppi minacciavano la quiete pubblica per il chiasso che facevano (252), ed utilizzavano anche strumenti offensivi. Per questo il maniscalco (253) è colpito nei dipinti sulla fronte da uno scalpello battuto dal malleus (254) , il calzolaio da un trincetto, il falegname da un’ascia a manico lungo, il sarto da grosse forbici, impiegate anche dai tessitori, dai cimatori e dai tosatori. I fabbri inoltre si arricchivano con la loro varia produzione (255) . Se impegnati in fonderia con le mani sempre lorde (256), lavoravano anche dopo il tramonto e nei giorni di precetto (257). Era inoltre peccato lievitare i prezzi, specie se i metalli o le leghe erano di scarsa qualità, non erano scaldati bene e non avevano il giusto colore. Per questo i demoni seviziano quegli uomini all’inferno con il fuoco (258).
Seguono i carpentieri, in genere di medio livello sociale, la cui attività si
confondeva spesso con quella dei falegnami (259) , esperti nel vario e remunerativo settore edilizio (260) , ma anche nella riparazione di carri, nella modellatura di vari oggetti, di botti, di infissi, di mobili d’uso quotidiano e liturgico (261). Era giustificato il sospetto che ingannassero nella squadratura e formatura dei pezzi, nella qualità delle colle usate, nella stagionatura delle essenze, tagliate anche di nascosto in periodi dell’anno non idonei (262).
Malvisti erano infine i calzolai e i sarti. I primi esercitavano un mestiere socialmente utile perché producevano molti oggetti (263) e davano forma e risuolavano scarpe di uso comune ed eleganti. Ma vendevano anche disonestamente le pezze di cuoio (264) , ingannavano sulla qualità e
sulle misure delle scarpe, indurivano le suole a danno dei contadini e dei
pellegrini (265) ; in ogni caso si sporcavano conciando pelli di vacca, di vitello e di ovino.
I sarti invece, che aggiungevano alle tradizionali competenze quelle dei cimatori per la rasatura del pelame, dei filatori, dei tessitori e dei tintori, benché stimati per l’impegno e la creatività profusi nel prendere le misure, nel tagliare le stoffe e nell’approntare gli ornamenti (266) , erano malvisti perché utilizzavano urina fermentata per macerare, decolorare e fissare le tinte, o perché passavano per buoni panni macchiati e ridipinti, cuciti alla rovescia e rammendati. Costoro assecondavano anche la vanità senza limiti dei pretenziosi e la superbia delle civette, vendendo ad alto prezzo abiti non necessari (267) . Sfruttavano poi la mano d’opera agricola facendola lavorare a porte chiuse, di notte o nei festivi, trascurando il precetto di santificare le feste (268). A dire il vero tutti i mestieri che trascuravano questo obbligo erano giudicati proibiti. L’orario medio, compreso tra l’alba e il tramonto, consisteva circa in nove ore di lavoro, con pause e retribuzioni calibrate per le diverse stagioni e i diversi luoghi.
Ma poiché scopo primario era il guadagno, per compensare le perdite dei numerosi festivi infrasettimanali si recuperava la sera, a luce bassa, nelle botteghe o nelle case. Se dunque la gente attendeva le feste per concedersi un relax, vietato nei feriali prima del vespro, anteponeva poi volentieri l’opus febbrile all’ufficium Deo. Anche la normativa pubblica e i predicatori erano elastici a riguardo: concedevano deroghe nelle ricorrenze meno solenni, permettevano si lavorasse al chiuso o ad sportellum; programmavano a scacchiera l’apertura dei locali (269); davano licenza di terminare alcuni lavori, meglio se utili per la Chiesa e i poveri, a patto di ascoltare il parere di persone idonee (270). Ricordiamo solo alcune voci. Per il Duecento Jacopo da Varazze, la cui raccolta di sermoni quaresimali fu consultata per secoli (271) . Per la metà del Quattrocento citiamo Antonino da Firenze (272) e due campioni dell’Osservanza come Bernardino da Siena e Giacomo della Marca, che molto nei loro viaggi per le città della penisola contribuirono alla riforma degli statuti (273) e, colpendo quei vizi che la gente giustificava con detti e proverbi (274), moralizzarono la vita pubblica con buon vantaggio per le magistrature.
Cessando infatti dalle opere manovali, da pecare e da ozioso stare, si guadagnava in tempo salutare per l’anima, non solo partecipando con rispetto, dall’inizio alla fine, alle celebrazioni del giorno, ma ascoltando, magari dietro autorizzazione civica, le lunghe prediche o offrendo elemosine e assistendo a diverse forme di devozione, cose utili per non furare […] robbare il tempo a Dio, divenendo vecchio in questa usanza. Di domenica anzi si poteva recuperare il debito di peccato contratto nella settimana e pregustare la gioia e la gloria eterne, con l’animo intimorito dal Giudizio e bramoso del premio celeste (275) . Ora gli Osservanti intervennero sul tema con sermoni redatti spesso in latino ma recitati in volgare (276) , noti oggi nella rapida trascrizione effettuata da altri. È indicato ad esempio cosa fare e cosa evitare la domenica e i giorni di precetto, dato che la festa era ordinata al ricordo di Dio per il triplice dono della creazione, della redenzione e della glorificazione (277).
Inoltre l’invito al riposo, che sembra giungere nei nostri affreschi dalle
didascalie di alcuni mestieri, può essere rafforzato dalla contaminazione con un altro tema, quello del “Cristo della Domenica”, la cui iconografia si diffuse nel Quattrocento (278) oltre che in Europa centrale (279), anche in Italia, con circa sessanta casi dislocati lungo l’intero arco alpino tra l’Alto Adige, il Trentino (val Gardena, alta val di Fassa (280), val di Fiemme), il Friuli, la Lombardia (val Camonica, Canton Ticino) e il Piemonte (Valtellina), compreso il centro della nostra penisola (281).
Gesù appare eretto e piagato, con le braccia lungo i fianchi o conserte al petto, attorniato o colpito dagli strumenti del lavoro agricolo e artigianale, descritti sempre con precisione anche se magicamente sospesi per ammonire i devoti a non usarli nei festivi, perché nuocevano all’anima e prolungavano la Passione di Cristo, monito efficace per una spiritualità centrata drammaticamente sul memoriale eucaristico. L’immagine, corredata spesso da scritte in gotica corsiva dai tratti spigolosi, sempre nitida ed elegante nell’effetto (282), occupava in genere i muri esterni di piccole chiese rurali o vicine agli abitati, ed aveva la stessa funzione delle lettere “spedite dal cielo” per persuadere il popolo a scongiurare la morte improvvisa esortando ad un retto comportamento (283). Non trascuriamo anche altri canali di diffusione, specie i disegni nei codici manoscritti (284) e le xilografie negli incunaboli (285) .
Restano da considerare negli affreschi abruzzesi e pontini altri gruppi stimati
malvagi. Anzitutto i SOLDATI e forse i disertori (286) . Seguono i mercanti (MERCATATE (287)), i pessimi Giudei, i Turchi e i Tartari, presenti questi in Abruzzo e segnalati forse da una scritta logora nella collegiata lepina.
I soldati erano considerati degni solo se impegnati in guerre; se in congedo,
disertori, o falsi invalidi, erano ritenuti briganti e banditi, pieni di orgoglio, sempre a caccia di nuovi scontri, inclini al guasto e agli eccidi (288) , peggio se bulli e bravazzi, deboli perché senza veleno di dentro, lussuriosi con le adolescenti e le prostitute (289) . Seguono i mercanti, che incarnano gli inhonesta mercimonia, primi ad andare all’inferno con la raccomandazione dei santi, dei beati e degli angeli del paradiso (290).
Costoro godono in vita di una certa fama per l’intelligenza e l’intraprendenza
che hanno (291), per la capacità di utilizzare il tempo, per l’oculatezza e la parsimonia negli affari. Se gli interessi chiesti erano motivati dal dover coprire i costi di gestione, rimediare il danno di presumibili o reali perdite, compensare i ritardi nei rimborsi e la malafede dei debitori, essi commettono però molti peccati. Intanto lavorano anche nei festivi (292) e guadagnano anche quando assistono a celebrazioni, ascoltano prediche, mangiano, bevono e dormono (293). Solitamente ingannano (294), frodano (295) , ledono la giustizia contro Dio e contro natura (296). Se poi sono usurai (a Sermoneta gli USURARI sono colpiti da puntali) vendono con l’interesse il tempo che intercorre tra il prestito e il rimborso del denaro (297) .
I mercanti dunque oscillano tra un servizio reso alla collettività e la connaturata inclinazione al male. Sapendo inoltre di dover dar conto a Dio del tempo furato, curano di restituire tutto prima di morire, o fanno doni alla Chiesa e ai poveri, o lasciano indicazioni alla vedova e ai figli, o si procurano un confessore che li aiuti a salvare “la borsa e la vita [eterna]” (298) .
È opportuno ora legare ai peccati “professionali” il settenario dei vizi capitali,
schema formulato dalla tradizione teologica, catechetica e letteraria, sfruttato dai predicatori, incluso nelle summae e nei formulari per la confessione, ma non citato dalla Scrittura (299). Il modello fece presa anche sui fedeli ignoranti e distratti, guidati così nell’esame di coscienza privato (300) e nel ricevere in pillole, con l’acrostico di SALIGIA (301) o comunque in modo ordinato, una materia ricca di verità di fede.
Era compresa anche l’esortazione a una vita virtuosa, come testimoniano le miniature e gli affreschi nei piccoli e grandi edifici sacri, anche i più isolati. A dire il vero il nostro santuario non era appartato e Sermoneta era un centro di media grandezza. I vizi capitali dunque, che negli affreschi sono generalmente precisati da didascalie, sono ingoiati ed espulsi da satana in trono, mentre gli altri, che si credeva nascessero da essi senza fine et in molti altri modi (302), sono disposti nello scenario senza interne relazioni. Nelle fauci del mostro trifronte abruzzese troviamo dapprima i peccati carnali, avarizia, lussuria e gola, che indichiamo secondo l’ordine di gravità prescritto nei manuali di confessione e nelle prediche degli Osservanti.
All’avarizia si è in parte accennato trattando del mercante-usuraio, anche se la brama di denaro, pilastro dell’economia di mercato, veniva ormai tollerata (303); si raccomandava di custodire e di non possedere le ricchezze, con il cuore pronto a distribuire tutto agli altri. A riguardo erano ferme le invettive di Antonino da Firenze (304) e di Bernardino da Siena (305) , in particolare per lo smodato desiderio e lo sconsiderato amore per la vita, per i beni e gli affetti, che facevano smarrire il senso della missione affidata a ciascuno da Dio e dimenticare di essere pellegrini sulla terra (306). Essa dunque comprendeva aspetti visibili e nascosti, di natura materiale e spirituale, talvolta celati alla stessa coscienza (307).
La lussuria invece, frutto disordinato della concupiscenza, era un peccato
tipico degli uomini, riguardava gli sposati e i chierici, ma colpiva anche le donne (308) , che rendevano artefatta la bellezza del proprio corpo (309). Corollari erano la masturbazione, l’incesto, varie forme di perversione e di vita extraconiugale, o lo stesso piacere goduto nel matrimonio, piuttosto da regolare con il debito e la procreazione, vietato in certi luoghi e nei tempi del mestruo, della gravidanza, del puerperio, nei giorni di festa, di penitenza e di digiuno, o prima della confessione (310) . Inoltre la lussuria indeboliva l’anima, la mente e la forza di volontà (311). Alla gola si è accennato parlando della vita nelle taverne. I borghesi, scimmiottando la crapula dei ricchi, derogavano alle tradizionali virtù di categoria e trascuravano i poveri (312); soprattutto, accantonata la sobrietà, lasciavano il campo libero ad altri vizi (313). Seguono i peccati dello spirito.
Gregorio Magno in particolare credeva che la superbia fosse madre di tutti i
vizi, deliberata opposizione a Dio (314). Nell’affresco abruzzese è infatti espulsa come escremento dall’ano di satana, mentre è vicina al suo viso a Sermoneta, a indicare con l’invidia una delle cause della sua caduta (315) . Mantenne poi a lungo quel carattere, ma per la gente del Quattrocento condensò i vizi tipici delle donne, che fomentando l’invidia mettevano a repentaglio l’equilibrio sociale (316) . L’ira e l’accidia risiedono invece nelle ginocchia di satana in Abruzzo, animate da protomi canine. L’ira è tipica del temperamento sanguigno, che fa danno a sé e agli altri, provocando liti, omicidi e guerre, o più comunemente è alimentata da mille fatti quotidiani e dalle perdite al gioco (317). Meno nota è la melancolia, ossia il tedio, l’apatia, l’indolenza, l’ozio, che genera incostanza, aridità e scoraggiamento, condannabili in una società ove ormai lotta per vivere (318) . Colpisce i deboli, i pusillanimi, gli inadempienti dei propositi, i chiacchieroni, chi si giustifica per non assolvere i propri doveri (319). Anche nei dipinti vi è un DESPERATO, che cede alla tristezza perché non ha fiducia nella misericordia di Dio e nel potere di intercessione dei santi e delle sante (320).
Ora negli affreschi non sono comprese altre classificazioni morali, che solitamente integravano con un’ampia casistica il tradizionale settenario (321). Nel XV secolo ebbe invece discreta fortuna il decalogo, il sistema basato sulle dieci parole di vita che coinvolgevano le personali relazioni con Dio, con la famiglia e con la società (322) . Non dimentichiamo infine la presenza nei dipinti dei Tartari, dei Turchi e dei Giudei, elencati nell’ordine della pessima reputazione di cui godevano presso i contemporanei (323).
I Tartari suscitavano orrore solo alla pronuncia del nome (324), specie da quando minacciarono l’Europa dal primo Duecento, penetrando a ondate successive nei Balcani, ostacolati provvidenzialmente dagli Arabi, dai contrasti con i popoli vicini e dalla morte del kahn Ogodai. Essi non provenivano dalla Cina settentrionale, ove risiedeva la tribù dei Tatari (facile era l’assonanza con “tartari”, i demoni usciti dal Tartaro, cioè dal regno delle tenebre), ma da un lontano confine, segnalato dalla mitologia e dalla Scrittura (325).
Erano popoli empi, che vennero presto identificati con le dieci tribù di Israele deportate in Assiria e punite da Dio per aver adorato molti idoli; erano
anche assimilati ai feroci popoli di Gog e Magog (326), segregati da Alessandro Magno con robuste porte di ferro nelle gole del Caucaso ai confini con la Persia, nel passaggio naturale oltreché simbolico tra l’Est e l’Ovest (327), serrati verso i confini più orientali e settentrionali della terra bagnata dall’Oceano (328), pronti a irrompere al momento dell’estremo Giudizio, alla fine cioè del tempo concesso agli uomini per la salvezza. Ecco perché si trovano all’inferno, testimoni di un pregiudizio duro a morire, benché le notizie via via fornite dalle missioni (329) e dalle esplorazioni geografiche, sull’onda dei sempre più numerosi scambi commerciali, allentavano il comune senso di paura e lasciavano affiorare curiosità (330) e meraviglia (331).
I Turchi, o maomettani, costituivano invece per penisola la più vicina minaccia
militare dai paesi slavi, con frequenti puntate sulle coste adriatiche. Preconizzati come anticipatori della fine del mondo e strumenti della punizione
divina (332), erano il bersaglio privilegiato, con atti di aggressione o di diplomazia, dei predicatori Osservanti animati dal rinnovato zelo dei papi, tra i quali ricordiamo Innocenzo VIII. Questi venivano talvolta confusi anche con gli Ebrei, che si credeva invocassero il nome di Maometto perché infedeli ed eretici (333). Comunque erano meno insidiosi dei giudei (IODEI), contro i quali la Chiesa si ergeva a roccaforte dell’ortodossia, stimolando l’immaginario collettivo a considerarli intoccabili (334). Essi anzitutto erano deicidi, ostinati nel non riconoscere la divinità di Cristo.
Poi erano schiavi della ritualità, traditori, ispirati al male da satana, sensuali e
depravati. A queste tare, che diremmo quasi costituzionali, aggiungevano le azioni perpetrate a danno dei cristiani: la profanazione del cibo eucaristico, il sangue versato dal calice e lo spregio delle immagini, oltre i più generali rapimenti dei fanciulli, l’ingestione del sangue delle vittime, la contaminazione delle fonti d’acqua, la manipolazione di droghe e veleni, la provocazione di disastri ed epidemie. Le accuse loro rivolte oltrepassavano anche la superstizione e il comune pregiudizio. La Chiesa ad esempio, vantando giustificazioni teologiche e ideologi che, li colpiva con scritti(335) e li coinvolgeva in dibattiti (336), o accendeva la predicazione degli Osservanti, aspra nei toni e serrata nelle argomentazioni per convincere la gente a non “metterli in casa” (337), perché il loro apparente adattamento allo stile di
vita cristiano celava la difesa a oltranza delle proprie convinzioni e tradizioni.
La lotta dunque veniva organizzata su diversi fronti (338).
Per prima cosa andavano convertiti gli zelanti, spingendo ai battesimi forzati, leciti se arricchiti da una buona istruzione e dall’ascolto periodico delle omelie (339) (il domenicano catalano Vincenzo Ferrer offriva loro addirittura premi in denaro), nel timore che tornassero alla fede avita, fiaccando le deboli convinzioni dei cristiani (340). Anche alcuni loro mestieri erano considerati illeciti: la medicina, come la mercatura, inquinava i corpi estranei alla razza; l’attaccamento al denaro esigeva alti interessi (foenera) sui prestiti al consumo dati su pegno, benché il tetto era stabilito su una base per lo più mensile o annuale, garantendo a breve la restituzione. Soprattutto il debitore era rimproverato perché non sopportava con dignità la sua condizione e ricorreva a gente avida, che offriva garanzie solo terrene, mentre
erano giustificati i prestatori cristiani che erogavano un mutuum, incentivo e
sostegno alle piccole imprese (341) ; degna alternativa erano dunque i Monti di Pietà, che salvaguardavano l’etica e restituivano forza produttiva al denaro, emettendo prestiti a breve e moderato saggio di interesse (detti sussidi caritativi), che si riteneva coprissero solo le spese del servizio (342).
Se i giudei poi rifiutavano l’assimilazione, si imponeva loro la segregazione, o
peggio ancora l’espulsione, sul modello della farisaica Spagna dopo la caduta di Granata del 1492 (343). Per tornare al santuario abruzzese, non è casuale quindi che in una delle scene del presbiterio interno con storie della leggenda di fondazione, l’ebreo, identificabile dal tipo e dal colore del cappello, sia ormai “normalizzato” per intervento divino [23]: lo sguardo è rivolto al cielo e si trova con i compagni e la mula sul monte, luogo epifanico per eccellenza.
Testi tratti dal libro Pittori di frontiera
Testi a cura della dott.ssa Paola Nardecchia
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