Comune di AVEZZANO

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L’ordine nuovo

Era naturale però che i Colonna, come tutti gli altri ex-feudatari, non rinunciassero spontaneamente al diritto dei tributi, che per più secoli erano stati pagati dal paesi del ducato dei Marsi. Per la verità non erano molti né gravosi, come in tanti altri feudi del regno; ma essendo stato abolito il feudalesimo, era decaduto in conseguenza anche il diritto sopra indicato. Il Comune di Avezzano pertanto fu costretto a convenire il principe Colonna davanti la Commissione Feudale, per essere rilevato dal seguenti obblighi: 1) prestazione di annui ducati 12 per l’affitto della casa e servizio del Governatore; 2) prestazione di annui ducati quattro, per mantenimento delle carceri; 3) prestazione dì annui ducati nove per bagliva; 4) contribuzione di annui ducati 14,56 per procaccio e polizze per l’agente del Barone in Napoli e per siepe della vigna feudale; 5) pagamento di annui ducati 97,07 per Gentileschi. La Commissione feu dale accolse il ricorso del Comune di Avezzano con sentenza in data 12 luglio 1809 (1).

Inoltre il principe Colonna vantava qualche altro diritto: pur potendo le popolazioni ripuarie effettuare l’esercizio della pesca nel lago Fucino, ad esse era inibita la vendita del pesce fuori paese, perché tale diritto era riservato al principe Colonna, quale barone di Avezzano, San Pelino, Paterno, Luco e Trasacco, al conte di Celano, quale barone di tutti gli altri paesi ripuari, ed al regio demanio, quale successore dell’abbazia di S. Maria di Scurcola Marsicana, che ebbe da Carlo d’Angiò I il diritto di pesca con due barche caporali per tutti i bisogni del monastero (2). Con sentenza in data 13 aprile 1810 la Commissione Feudale, adita dagli interessati, confermò ” avere sempre competuto e competere, anche prima delle leggi e decreti eversivi della feudalità, a tutte le popolazioni, l’agro delle quali è bagnato dalle acque del lago Fucino, i pieni e comodi usi della pesca nello stesso luogo, anche per ragioni di commercio tra loro senza alcuna prestazione.

Esse pero non possono estrarre la pesca dal loro territorio”. In seguito il procuratore generale del re presso la Commissione Feudale, scrivendo all’Intendente dell’Aquila, cosi si esprimeva: ” La facoltà di vendere agli esteri, che è negata alle popolazioni usuarle, è riservata agli ex-feudatari e chiamasi oltruso “. Dagli ex-feudatari furono percio posti incaricati, per sorvegliare e controllare i pescivendoli, perché non esorbitassero dal raggio loro consentito, e successivamente fu concesso che la pesca fino a venti libbre di pesce, controllata nella bilancia pubblica, fosse esentata da contribuzione, ma per la quantità in più si dovesse corrispondere il sesto invece del terzo, che era stato sempre pagato in precedenza.

Con il passare del tempo poi anche quest’ultimo privilegio andò a perdersi, tanto più che l’art. 1 della legge 2 agosto 1806, oltre a sancire che la feudalità. con tutte le sue attribuzioni restava abolita, aggiungeva che ” tutte le giurisdizioni sinora baronali ed i proventi, qualunque che siano, annessi, sono reintegrati alla sovranità, dalla quale saranno inseparabili “. Le popolazioni ripuarie inoltre, rivendicando il diritto di pesca come diritto di uso civico, potevano avvalersi dell’art. 15 della legge suddetta, la quale diceva chiaramente che i demani, appartenenti agli antichi feudi, sarebbero restati al possessori, e che le popolazioni egualmente avrebbero conservato gli usi civici e tutti i diritti, che già vantavano sui demani medesimi. Naturalmente ogni disposizione della legge abolitiva dei feudi veniva a completarsi in definitiva sistemazione, attuandosi con le varie riforme nella vita del nuovo regno.

Con le leggi 30 aprile 1807 e 20 maggio 1808 si provvide alla riforma giudiziaria, che venne così ad abolire la giurisdizione feudale. In sostituzione delle Udienze Provinciali, dirette dal preside o presidente di nomina regia, nelle cui mani si accentrava anche il potere civile, furono istituiti i Tribunali Provinciali, ed al posto delle Corti locali, presiedute dal governatore nominato dal feudatario, si creò il giudice di pace, la cui funzione corrispondeva press’a poco a quella del pretore attuale, con una circoscrizione territoriale chiamata circondario, rispondente all’odierno mandamento. Furono istituite nel contempo le Corti d’Appello di Napoli, Lanciano, Altamura e Catanzaro.
Cosi la nuova amministrazione giudiziaria iniziò a funzionare il 1 gennaio 1809 con l’entrata in vigore del codice napoleonico nel regno di Napoli. Successivamente con decreti in data 6 aprile 1810 e 14 settembre 1810, al sindaci vennero conferite attribuzioni giurisdizionali fino a trenta carlini in materia civile, ed in quella penale, limitatamente alla repressione dei danni campestri. Ad integrare la funzione della giustizia fu istituita, con legge Il novembre 1807, la Commissione Feudale, che era investita di poteri sovrani in ordine alla risoluzione di tutte le controversie insorgenti tra i Comuni e gli ex-feudatari. Con azione saggia ed oculata la Commissione suddetta seppe eliminare soprusi e pretesi diritti, assai numerosi specialmente nelle zone a sud del regno; ad essa seguirono, con decreto reale del 23 ottobre 1809, 1 commissari ripartitori, i quali ne conclusero l’opera con le ordinanze irretrattabili da loro emesse.

La riforma tributarla venne effettuata con la legge in data 8 agosto 1806, integrata dal decreto dell’8 novembre dello stesso anno, con cui vennero totalmente soppresse le imposte allora esistenti a titolo di contribuzioni dirette ed ammontati a 104, classificate in 23 categorie. Il nuovo sistema tributarlo fu basato sulla fondiaria, come unica imposta diretta e, per attuarla, fu ordinata la formazione del catasto provvisorio in tutto il regno con decreto reale 12 agosto 1809 di Gioacchino Murat. Fu, in tal modo, attuato il principio dell’uguaglianza dei diritti e dei doveri anche nel campo fiscale e le rendite ed i fondi dei baroni pertanto furono sottoposti a tributo senza alcuna distinzione. Nello stesso tempo si procedette alla riforma amministrativa con la legge 8 agosto 1806, in virtù della quale A regno venne diviso in quattordici province; a capo di ciascuna di esse fu posto l’intendente, che era un funzionario civile, corrispondente all’odierno prefetto; le province furono distinte in 42 distretti, governati da sottintendenti e suddivisi in circondari, e questi infine in Comuni, che prima erano chiamati Università. 1 Comuni venivano amministrati da un sindaco e da dieci decurioni, estratti a sorte tra i proprietari più facoltosi del luogo, i quali poi eleggevano il sindaco e rimanevano in carica quattro anni.
Dopo qualche tempo, venne riformato il sistema di elezione degli amministratori comunali, la scelta e la nomina dei quali fu demandata all’intendente su terne di nomi formate dal sottintendente. Fin da quest’epoca i paesi, che non avevano possibilità di un’amministrazione propria, vennero aggregati, come le attuali frazioni, a Comuni aventi tutti i requisiti per reggersi da soli, che furono detti ” centrali “, mentre i summenzionati paesi si denominarono ” riuniti ” e conservarono la proprietà ed il possesso dei propri beni. Con legge 18 ottobre 1806 furono creati i Consigli Provinciali ed i Consigli Distrettuali, costituiti i primi da venti componenti ed i secondi da dieci, tutti di nomina intendentizia.

La provincia dell’Aquila, detta Abruzzo Ulteriore Secondo, fu divisa nel distretti di Aquila, di Sulmona e di Cittaducale; ma la ripartizione territoriale, essendo stata eseguita con la fretta dovuta al particolare momento, risultò del tutto irrazionale e subito rivelò i suoi gravi difetti, tanto che non tardò ad imporsi la esigenza imprescindibile di procedere ad una sua prima rettifica. Non si era tenuto affatto conto della posizione geografica esatta dei vari paesi della Marsica, i cui circondari erano stati distribuiti senza alcun criterio rispetto ai capoluoghi distrettuali; i circondari di Civitella Roveto e di Pescina erano stati aggregati a Sulmona, quelli di Avezzano, di Tagliacozzo e di Carsoli a Cittaducale, quelli di Celano e di Gioia dei Marsi ad Aquila. Si può quindi immaginare il grave disagio procurato alle popolazioni marse con una simile divisione. Dalla Marsica, per raggiungere Cittaducale, capoluogo del distretto, si doveva affrontare un viaggio malagevole e costoso, che durava un numero considerevole di giorni, circa otto fra andata e ritorno, attraverso luoghi montuosi senza strade di normale percorso, e nella stagione invernale, sempre lunga in questa regione, era assolutamente impossibile compiere tale viaggio. Il problema era grave ed urgente ed imponeva una soluzione necessaria ed immediata con un provvedimento di revisione capitale, conforme a giustizia ed a logica.

Le popolazioni interessate, pertanto, provvidero ad inoltrare ricorsi ed istanze, sorretti sopratutto dalla inoppugnabile evidenza dei motivi addotti, e miranti alla istituzione di un nuovo distretto, che comprendesse tutti i paesi della Marsica. Le lungaggini ministeriali ritardarono l’emissione del decreto relativo, che tuttavia fu pubblicato in data 4 maggio 1811. Con tale decreto il re Gioacchino Murat rformata la circoscrizione delle 14 province del regno e quella dei distretti e dei circondari; veniva cosi ad istituire un nuovo distretto, quello di Avezzano. Comprendente tutti i circondari della Marsica, la quale finalmente poté ritrovare la sua antica unità politica ed amministrativa. La esecuzione del decreto suddetto ebbe decorrenza dal 1 luglio 1811 per tutte le amministrazioni, tranne quella finanziaria, per la quale la decorrenza stessa ebbe inizio il l’ gennaio 1812.

Avezzano allora per numero di abitanti nella Marsica era superata soltanto da Celano, che ne contava circa duecento in più: ma la prerogativa più efficace per la scelta del capoluogo del distretto, a preferenza di Tagliacozzo, di Celano e di Pescina, fu oltre tutto, la sua posizione centrale, accessibile e comoda a tutte le popolazioni della Marsica. Nondimeno le amministrazioni comunali e le persone influenti dei paesi suddetti non lasciarono nulla di intentato per ostacolare l’ascesa di Avezzano, mirando naturalmente ciascuno di essi a prevalere. “Allora le gelosie municipali si destarono; si spedirono deputati alla Capitale, si adoperarono impegni e rapporti; campeggiò l’intrigo; si giunse a pettegolezzi ed urti, e quasi a vie di fatto per disputarsi l’utile sequenza… Durante questa lotta quasi biennale campeggiò la costanza, il disinteresse e l’unione degli avezzanesi; né la patria nostra potrà mai senza menda d’ingratitudine porre in oblio il nome del Sindaco Don Serafino Mattei, il quale profuse regali, fece per suo conto non pochi viaggi, e mise a prova tutti i suoi rapporti per giungere all’intento, e mostrarsi il vero Padre della Patria ” (3).

Mentre si verificavano tali avvenimenti, il primo Intendente della provincia dell’Aquila, che si chiamava Simone Colonna di Leca, venne in visita ad Avezzano, la cui cittadinanza gli riservò splendide accoglienze, e fu ospitato regalmente nel palazzo di Luigi Spina. In questa sua visita l’illustre funzionario ebbe modo di conoscere perfettamente non solo la topografia del distretto, ma si rese conto di ogni possibilità e garanzia, del tutto positive, che Avezzano offriva, per essere considerata all’altezza della nuova funzione, che avrebbe dovuto svolgere, risultando fra l’altro il suo ambiente sotto ogni aspetto il meglio disposto alle innovazioni. Il Colonna di Leca, corso, era amico intimo di Napoleone I e dei suoi familiari, tanto che dopo la caduta dell’Imperatore seguì a Roma la sua vecchia madre Letizia e le fu di sostegno fino alla morte. Tale sua speciale condizione giovò non poco alla causa di Avezzano, perché il suo rapporto favorevolissimo incontrò l’approvazione indiscussa della Corte e degli uffici superiori di Napoli.

Ma personaggio ben più illustre, il re Giuseppe Bonaparte, aveva già onorato Avezzano di una sua visita diretta, nel medesimo anno in cui aveva abolito il feudalesimo; i festeggiamenti per la circostanza furono oltremodo grandiosi ed il sovrano riportò ottima impressione del popolo e della città, che era stata avviata sulla strada di più aperto progresso dallo stato di tranquillità, nel quale era venuta a trovarsi con l’avvento francese. Le nuove istituzioni infatti avevano dato impulso all’agricoltura, alla pastorizia, al commercio, all’artigianato; il reddito, che derivava dalla coltivazione dei terreni e dall’allevamento del bestiame, era divenuto maggiore da quando i beni delle corporazioni religiose e delle manimorte erano stati dichiarati allodiali, ed ancor più da quando erano decaduti tutti i diritti feudali. I contadini pertanto, divenuti proprietari, si sentirono maggiormente legati al lavoro dei loro terreni, che bonificarono, apportandovi migliorie varie, specie con alberi da frutta. Inoltre la legge emanata per la ritenuta del quinto annuo sul reddito enfiteutico e censuario e sulle corrisposte di mosto, unitamente alla soppressione delle contribuzioni ed agli abbondanti raccolti agrari di quegli anni, accrebbero il benessere dei coltivatori e di ogni altra categoria di cittadini, tanto che la loro vita e l’aspetto della città apparivano risanati e con i segni evidenti delle novità politiche e sociali.

La popolazione di Avezzano pertanto, risorta in floridezza economica, era allora nelle migliori condizioni per accogliere degnamente, verso la fine dell’anno 1806, il nuovo re di Napoli, Giuseppe Bonaparte, il quale si era già acquistata fama di uomo mite e giusto. A tal proposito si legge nel Diario Napoletano: a ” E’ di indicibile avvenenza ed affabilità tanto che discende sino all’umiltà La sua urbanità è grande, prevenendo anche il saluto, com’io ho sperimentato, la sua fisionomia è dolce, a differenza di quella del generale Massena che è molto truce ” (4) L’arrivo del re Giuseppe fu pertanto salutato dalla gioia festosa del popolo avezzanese, che aveva innalzato archi trionfali per la intera via di San Nicola, dalle falde del monte Salviano, donde l’antica strada scendeva per la Valle del Liri, quindi per Napoli, tuttora esistente, ma quasi abbandonata e ridotta ad una mulattiera da quando venne costruita la nuova, divenuta nazionale: gli archi trionfali giungevano fin dentro la città, completamente imbandierata ed addobbata con festoni multicolori. La via di San Nicola era fiancheggiata dal soldati e dai cittadini, convenuti anche dal paesi vicini. Alla porta di San Francesco, Giuseppe Bonaparte fu accolto dal sindaco, che in ginocchio gli offri in un vassoio d’argento le chiavi della città in segno di sudditanza, dal vescovo dei Marsi, mons. Rossi, dal clero che cantava il ” Benedictus “, dal notabili e da numerosa folla di cittadini acclamanti.

Il re rimase in Avezzano due giorni, e si sarebbe trattenuto ancora, se non fosse stato costretto a tornare subito a Napoli a causa dell’improvvisa rivoluzione nella Calabria. La famiglia Mattel ebbe l’onore di ospitarlo nel suo palazzo, sulla cui scala fu posta una lapide commemorativa, purtroppo andata perduta nel periodo della restaurazione. Tra le famiglie nobili di Avezzano, quella dei Mattei era la più indicata ad assolvere un tale compito e per la sua antica nobiltà e ricchezza e perché, in quel periodo, molti suoi membri rivestivano importanti incarichi ed erano insigniti di alte onorificenze, come Aurelio Mattei, Cavaliere dell’Ordine di Malta, Filippo Mattei, Capitano delle Reali Truppe in Napoli, deceduto qualche anno prima, Alessandro Mattei, prelato e presidente dell’Ospizio di San Michele a Ripa in Roma, Paris Mattei, abate Celestinto ispettore delle Scuole Normali di Lecce di Puglia e rettore del Real Collegio del Salvatore in Napoli, Lanfranco Mattei, canonico della basilica di S. Pietro, prelato, ponente del buon governo ed economo della fabbrica di S. Pietro in Roma.

Da una cronaca manoscritta andata poi smarrita, Bernardino latosti trasse un divertente e curioso episodio, che si verificò in occasione della venuta in Avezzano del re Giuseppe: … ” molti anziani, che ne furono testimoni, me lo han raccontato con le stesse circostanze, ed è perciò che io lo riporto solamente per la storica monotonia… Il Sindaco di Avezzano aveva chiesto una udienza speciale per rassegnargli i bisogni, al quali l’Università da esso governata trovavasi ridotta disgraziatamente per otto anni di sofferte peripezie. Costui, nomato don Gaspare Orlandi, apparteneva ad una nobile, e nel tempi andati anche doviziosa famiglia: era del tutto manco di talento e di civile educazione: e di buona fede si lasciava da chicchessia governare e guidare. Della importanza di questa sua missione perciò era giunto solamente a comprendere essere il Municipio in credito della Corona in ducati duemila, dei quali bisognava dimandare il rimborso. Visto essergli impossibile ritenere a memoria un lungo e studiato discorso formolato per la circostanza, risolve di condurre seco alla presenza del Monarca un tal Don Feliceantonio Nanni, avvocato di professione, il quale in suo luogo parlasse ” (5).

Il sindaco in abito fuori moda, settecentesco, con parrucca incipriata, presentatosi all’ora fissatagli in compagnia dell’avvocato Nanni e di altri pochi notabili, fu subito presentato al re Giuseppe, il quale a prima vista ispirava simpatia e confidenza e, avendo studiato nell’Università, di Pisa, rivelava molta familiarità con la lingua italiana: dopo i convenevoli d’uso e la cortese accoglienza invitò il sindaco ad esporre le sue richieste, ma Don Gaspare, divenendo rosso in viso come un papavero e nella più nera confusione delle sue scarse idee, in quel momento non potè fare né dire altro di sensato che ” ecco, vi presento il degno avvocato del Comune; egli vi dirà tutto “. Il re, evitando a stento il riso ed in dignitosa compostezza di circostanza, disse gentilmente che non desiderava avere a che fare con avvocati, i quali avrebbero potuto imbrogliarlo (evidentemente scherzava, tanto più che egli era stato avvocato) e lo invitò nuovamente a parlare. Ma in quell’istante entrò una persona del suo seguito, che gli consegnò una lettera; lettone il contenuto, il re si fece serio in volto, battendo il piede quasi sdegnato, poi rivolse alcune parole in francese al porgitore.

Di questa interruzione profittarono gli accompagnatori del sindaco, per dargli animo in qualche modo, sicché quando Giuseppe Bonaparte si rivolse di bel nuovo ilare e cortese verso il primo cittadino, questi, preso il coraggio a due mani, gli disse: ” Maestà, voi siete debitore del Comune di duemila ducati, i quali sono e belli e buoni davvero. Vi prego di farmeli subito pagare, perché li ho spesi per i vostri soldati ‘ ed lo non so più dove dare la testa “. Il re, che non potè più trattenersi dal ridere, esclamò: ” Povero me, non posso più dare un passo senza imbattermi in un creditore “; e diede ordine che la somma fosse pagata al più presto (6): la cronaca non dice se l’ordine del re fu poi eseguito. Giuseppe Bonaparte il 28 maggio 1808 lasciò la corona di Napoli, per assumere quella di Spagna: il suo regno segnò la distruzione dell’antico regime, e questa è la grande importanza, che sorpassa la persona del principe (7). A succedergli nel trono di Napoli, che Napoleone chiamava ” uno dei più bel regni del mondo “, fu) destinato Gioacchino Murat, la cui proclamazione avvenne in data l’ agosto 1808 col nome di Gioacchino Napoleone. Il giorno 6 settembre dello stesso anno il re, nel prendere possesso del suo nuovo Stato, ricevette accoglienze veramente entusiastiche ‘ che lo riempirono di orgoglio, ritenendole prodotte da sincero sentimento piuttosto che dalla naturale esuberanza del popolo napoletano.

E’ vero, come scrive il Colletta, che ” Egli, bello di aspetto, magnifico nella persona, lieto, sorridendo coi circostanti, potente, fortunato guerriero, aveva tutto ciò che più piace ai popoli ” ma è pur vero che le popolazioni napoletane non tardarono a sentire per lui sincera simpatia e viva fiducia per l’immediato inizio della sua opera saggia di sistemazione delle cose del suo regno. Sotto di lui, le scienze e le lettere ebbero uno straordinario impulso, sorsero scuole primarie, collegi e scuole secondarie, anche per la educazione delle fanciulle; furono dati aiuti finanziari agli scavi di Pompei; larghe migliorie furono apportate all’esercito ed alla marina, e fu sviluppato notevolmente lo spirito militare dei suoi soldati, che dal 1808 in poi si batterono con mirabile valore nella grande Armata; e l’entusiasmo travolse l’intera nazione, allorché la spedizione e la conquista di Capri, occupata dagli Inglesi, venne a dare al nuovo regno il battesimo della gloria guerresca (8).

Ma quel che più conta per la nostra storia particolare fu la sua decisione nell’istituire nuovi vari distretti, fra i quali quello di Avezzano, le cui pratiche, malgrado tutte le lotte accennate, poterono concludersi favorevolmente e con giustizia; ond’é che il ricordo di quel Re è stato sempre assai gradito nell’animo degli Avezzanesi. Sorto dunque il distretto di Avezzano, la cui circoscrizione corrispondeva all’odierno territorio della Marsica, avente come termini estremi di confine i Comuni di Balsorano, di Oricola, di Opi, di Ovindoli, di Cocullo e la frazione di Marano del Comune di Magliano dei Marsi, il primo Sottintendente fu il Barone Antonio Sardi di Sulmona, uomo colto, affabile, attivo ed appartenente ad una delle più nobili ed antiche famiglie d’Abruzzo. La scelta non poteva essere migliore, perché il barone Sardi seppe subito conciliarsi la stima e l’affetto del popolo marso, circondandosi dei migliori cittadini, accogliendo tutti senza distinzione nello svolgimento delle funzioni del suo ufficio, ascoltando domande e ricorsi, lieto di poter servire l’interesse della comune giustizia.

Riuscito in breve tempo ad impiantare l’amministrazione distrettuale, oltre a dimostrare somma cura degli affari dell’intero distretto, pose in atto mirabili iniziative, per migliorare le condizioni interne della crescente città di Avezzano; fece rimuovere tutte le strutture, che deturpavano le linee architettoniche delle facciate di vari edifici, come per esempio le scalinate esterne, che in alcuni punti ingombravano le strade, ed i loggiati in legno a guisa di lunghi balconi, su cui si aprivano le finestre dei plani superiori, e che compromettevano la normale apertura delle strade medesime all’aria ed alla luce; fece chiudere tutti i pozzi superflui, lasciandone soltanto alcuni utili in caso di incendio.

Promosse inoltre l’esecuzione di necessarie opere pubbliche per completare il risanamento igienico ed estetico della città. Perciò il collegio decurionale con a capo il benemerito sindaco Serafino Mattei, assistito da apposita commissione, fece redigere dall’architetto Marcantonio Spina il progetto di un condotto, che, attraversando l’intera città, incanalava le acque luride e le scaricava fuori le mura in una zona della contrada Vicenna, ed inoltre altro progetto di pavimentazione del Corso principale (dalla porta di San Rocco a quella di San Francesco, corrispondente press’a poco al tratto di Via XX settembre, che va da piazza Castello al Municipio), e della piazza Centrale, che sorgeva nel sito ora occupato dal palazzo Inam e dall’ex-Casa del Contadino. I due progetti e le spese relative furono approvati e subito eseguiti con vivo entusiasmo e con soddisfazione della cittadinanza. Tali opere però si rivelarono insufficienti col crescere della popolazione e soprattutto del traffico, che, divenendo sempre più intenso, imponeva alla città una più completa sistemazione stradale ed un più sicuro servizio igienico; sicché il condotto fu ampliato secondo le nuove esigenze ed in rapporto agli sviluppi futuri della popolazione, e tutte le strade e le piazze ed i vicoli furono pavimentati opportunamente con basole e selci, e ne venne affidata la pulizia ad apposito servizio di nettezza urbana, istituito dal Comune.

Nel medesimo tempo, fu realizzato anche un impianto di illuminazione con fanali ad olio, che furono posti nella piazza Centrale, in quella di San Bartolomeo e nelle strade principali e, per quanto fosse di proporzioni limitate, il suo funzionamento si rese assai utile, anzi necessario, date le nuove condizioni della città, ed apparve anch’esso chiaro indice di progresso rispetto agli altri centri della stessa importanza nella regione abruzzese-molisana non solo, ma anche nelle altre regioni del regno di Napoli. Si fa notare a proposito che in quell’epoca vigeva nel regno di Napoli un reale decreto, in data 15 maggio 1758, che vietava di andare in giro durante la notte per la città, senza portare il lume o tizzone, ” a meno che non si andasse per il paese con gli animali ” (9).

Si deve ancora ricordare che, in seguito a tutti i miglioramenti edilizi ed urbanistici, che permettevano la possibilità di traffici commerciali ed agricoli di ogni genere, ed essendo più ormai considerata giustamente Avezzano la località più adatta e più comoda ad essere raggiunta da ogni luogo della Marsica, fu ritenuto conveniente da parte del governo di Napoli di trasferire la fiera annuale di San Pietro dalla vicina Albe, divenuta da tempo un villaggio, ad Avezzano, che ben altro aveva già ereditato da lei. L’istituzione di detta fiera rimontava a vari secoli innanzi, e si svolgeva sul colle dove sorge l’antico tempio di San Pietro; ma il luogo di radunanza e di incontro dei partecipanti con il bestiame ed ogni altra mercanzia non rispondeva più alle esigenze dei tempi nuovi: aveva uno spazio ridotto, inefficiente, era privo di acqua, di ricoveri, di stalle e di ogni altra attrezzatura indispensaibile al funzionamento regolare della fiera, che accoglieva ogni anno un numero considerevole di interessati.

Tutti questi inconvenienti erano lamentati dal paesi della Marsica intera, ed Avezzano se ne fece portavoce, invitando i sindaci a sottoscrivere una petizione, corredata da un’apposita memoria, provvista dei pareri favorevoli dell’intendente dell’Aquila e del sottintendente di Avezzano. Con decreto reale, in data Il giugno 1811, fu stabilito il trasferimento della fiera annuale di San Pietro in Avezzano, il cui inizio ebbe luogo nell’anno 1813 nel giorni 28, 29, 30 del mese di giugno, come negli anni che seguirono, divenendo una delle prime ricorrenze del genere in Abruzzo. Le altre fiere annuali, che si sono sempre celebrate in Avezzano, sono quella di San Francesco del 4 ottobre, quella degli Innocenti del 27 dicembre e quella di San Vincenzo di qualche settimana dopo la Pasqua, distribuite, con buon criterio, in ciascuna stagione.

L’importanza delle fiere di bestiame e mercanzie è stata sempre straordinaria fino a pochi anni fa, perché esse hanno costituito fonte di traffici e di ricchezza di grande rilievo, oltre che di rinomanza per i paesi e le città, che le hanno ospitate e le ospitano ancora. E’ facile pertanto immaginare quanto incremento apportasse all’economia avezzanese dell’epoca, e quanta risonanza al nome della città, il trasferimento della fiera secolare di San Pietro. Nel giorni del suo svolgimento non v’era piazza o via o angolo della città. che non raccogliesse, diffondendolo nell’aria gioiosa dell’estate, il festevole frastuono di tanta gente, venuta da ogni paese della Marsica ed anche da oltre i suoi confini, per vendere o comprare. Ma la funzione di questa fiera secolare, sempre assai frequentata e rinomata, appartiene più al tempo passato che a quello attuale, anche se viene ancora conservata per tradizione, come tutte le fiere di ogni altro luogo, perché dappertutto nuovi metodi di vendita diretta stanno acquistando prevalenza maggiore.

A dare alla città l’aspetto sempre più dignitoso di capoluogo contribui non poco la destinazione ad Avezzano di un cospicuo contingente di soldati, il 7 Reggimento di linea, che vi prese stanza regolare, in seguito a disposizione del Ministero della Guerra di Napoli. Si. trattava di varie centinaia di uomini, ordinati e addestrati nell’esercito del re Gioacchino Murat, il quale aveva curato l’organizzazione militare del Regno secondo i rigorosi criteri napoleonici, che tanta forza e disciplina avevano portato nelle armate francesi. Per la costituzione del nuovo esercito napoletano, Gioacchino aveva attuato appieno la coscrizione obbligatoria, già decretata da Giuseppe Bonaparte il 23 marzo 1807, portandolo a 80 mila uomini nei quadri ed a circa 60 mila in servizio, senza contare 20 mila guardie provinciali. Non è fuori luogo ricordare ancora che il Murat aveva iniziato l’educazione militare di un popolo, che in mezzo a difetti, dovuti alle passate tristi servitù, possedeva e possiede in alto grado, più che non sembri, le qualità native, per le quali si ottengono i più bravi soldati. Fu certo suo il merito di avere nazionalizzato l’esercito napoletano, nelle file del quale si alimentò, per un decennio l’idea della libertà prima che si propagasse, dopo i moti del 1820-21, in mezzo alle altre classi sociali (10).

Si può ora immaginare la vivace animazione, che la presenza di un reggimento di soldati suscitava nella vita di Avezzano in quell’epoca, essendo da poco aperta al ruolo di capitale della Marsica intera. La sua nuova funzione acquistò maggior decoro ed importanza, la sua economia, senza dubbio, risenti i benefici effetti dell’afflusso del denaro messo in circolazione dal numerosi soldati, i cui ufficiali e sottufficiali dei gradi più elevati avevano con loro le proprie famiglie. Spesso avevano luogo cerimonie pubbliche per celebrare le ricorrenze nazionali, alle quali prendevano parte il popolo festante ed il 7 Reggimento di linea, che in alta uniforme sfilava in parata dinanzi alle autorità distrettuali, militari e comunali; ed i festeggamenti, allora, prendevano tanta parte della società cittadina, che rivelavano i motivi essenziali della sua sincera adesione al nuovo stato di cose: quelle ” feste nazionali ” furono definite da Bernardino latosti ” belle, sontuose e brillanti ” (11).

Purtroppo la serena prosperità di Avezzano, iniziata con l’avvento francese, e che tanto bene prometteva per il crescente progresso della città, era destinata ad interrompersi quasi bruscamente. In dipendenza della guerra dichiarata da Napoleone ad Alessandro I, il 7 Reggimento di linea dovette partire, per partecipare alla folle spedizione in Russia: subito dopo, dolorose costernazioni vennero ad affliggere molte famíglie avezzanesi e marsicane i cui figli o altri congiunti, partecipi dell’armata francese, non davano notizie, mentre si apprendeva, di tanto in tanto, mediante bollettini militari, la morte sul fronte russo di qualche giovane di Avezzano o di altro paese della Marsica. Tutti, allora, erano in ansiosa costante attesa della posta, che giungeva dall’Aquila, non sempre puntualmente, due volte alla settimana, il giovedi e la domenica. Gli animi, quasi presaghi del disastro conclusivo della malaugurata campagna, colpiti da profonda e seria preoccupazione per la piega, che stavano prendendo le cose, erano volti a tutt’altro che alle opere di miglioramento della città, già iniziate con tanto fervore.

Ogni attività, ogni iniziativa era paralizzata; si temeva da parte delle autorità un possibile rovescio di governo, tale da mettere in serio pericolo la loro vita, come accadde poi all’ottimo sindaco di Avezzano Don Maurizio Orlandi, ucciso barbaramente a tradimento dalla plebaglia borbonica. Al Sardi erano succeduti, nella carica di Sottintendente, prima Francesco Casamarta e poi Giambattista Casamarta, suo figlio, entrambi ferventi sostenitori del regime francese; nella provincia dell’Aquila era Intendente il marchese di Pietracatella: costoro erano uomini degni di riguardo e non privi di coraggio, tuttavia non riuscivano a nascondere una certa titubanza nell’eseguire qualche atto straordinario del loro ufficio, e ritenevano prudente limitare la loro azione a quella parte dell’amministrazione ordinaria, che non fosse di peso al cittadini; ed uniformemente agivano il giudice di pace, il ricevitore distrettuale, l’agente delle imposte indirette, la gendarmeria, i legionari.
Nessuna opera quindi, in tale stato di cose, poteva essere continuata o intrapresa nella città, per evitare di imporre tasse e tributi con deliberazioni decurionali.

L’unico timore, veramente paventato dagli onesti, era il ritorno alle efferatezze del periodo sanfedista, compreso tra il 1799 ed il 1806, tanto più che i popolani dei paesi vicini, come i Lazzari a Napoli, guardavano i cittadini fautori dei tempi nuovi con mal celata ostilità, definendoli ” giacobini e murattiani “. Invero il Murat si era già alienato la simpatia e l’affetto anche del popolo marso in seguito alla coscrizione obbligatoria ed alla sua partecipazione con la migliore gioventù del napoletano alla campagna di Russia, non sentita dal popolo e detestata dalle madri e dalle famiglie di tutto il regno. Il suo improvviso ritorno dalla Russia verso la fine del gennaio del 1813, dopo aver lasciato ad Eugenio di Beauharnals il comando dell’armata superstite affidatagli da Napoleone, servi a frenare per il momento gli odi e le prave intenzioni della parte avversa, non sempre interamente palese, ma non gli fece riacquistare, presso i sudditi, l’affetto perduto per le migliaia di giovinezze eroiche inutilmente sacrificate, e per la sua condotta mutevole nei confronti del cognato Napoleone, tanto che sua moglie Carolina senza ritegno ebbe a dire di lui: ” Non sa quel che vuole”.

Era questa l’unica definizione esatta che, in quei frangenti, si potesse dare di lui fuori delle battaglie. Nessun particolare degno di nota risulta essersi verificato in Avezzano durante il tempo in cui l’astro napoleonico, pur emanando ancora qualche bagliore, dava segni sempre più evidenti del suo ineluttabile declino. Nondimeno per tutta la durata di quel periodo nell’ammo dei cittadini migliori non mancavano incertezze, apprensioni, timori per il futuro, che si apprestava assai fosco, come gli avvenimenti internazionali preannunziavano. Trascorsero cosi gli anni 1813 e 1814. Contando di salvare il suo trono di Napoli, Gioacchino Murat passava addirittura dalla parte degli alleati, ma dopo l’abdicazione di Napoleone a Fontaineblau, quelli mancarono ai patti. Allora il re, appena seppe che Napoleone era fuggito dall’isola d’Elba ed era sbarcato in Francia, lasciata, quale reggente, la regina e diminuite tutte le imposte di un terzo per guadagnare popolarità, con un esercito parti da Napoli il 16 marzo 1815, e dopo tre giorni arrivò ad Ancona.

A, nulla valsero le rinnovate promesse dell’Austria, l’esercito napoletano era ormai uscito dal regno: il 30 marzo 1815 iniziava le ostilità contro gli austriaci e Gioacchino Murat pubblicava il iorno seguente il “proclama di Rimini”. Questa campagna fu senza dubbio la prima dell’indipendenza in Italia, ed esistono su di essa numerose Memorie, fra le quali hanno risalto quelle di tre generali, il Colletta, il Pepe ed il D’Ambrosio. Il passaggio del Murat attraverso le varie province delle Marche e della Romagna destò un entusiasmo straripante, come dimostrano in modo particolare alcuni documenti, forlivesi (12). Già era entrato in possesso di Firenze, Bologna, Modena, Reggio, quando gli Inglesi si unirono agli Austriaci e Murat subi qualche rovescio, che lo convinse a ritirarsi verso Ancona, donde si diresse a Macerata, convinto che una battaglia decisiva fosse inevitabile. Infatti essa ebbe inizio nei pressi di Tolentino il giorno 2 maggio 1815, alle ore Il e durò quasi otto ore: le truppe spronate dalle parole e dall’esempio del sovrano e del generale D’Ambrosio, che fu gravemente ferito, combatterono quel giorno con slancio e con tenacia mirabili, tornando due o tre volte compatte agli assalti.

La sera gli Austriaci avevano perduto più posizioni, ed il re tornato a Macerata, spediva subito a Napoli la notizia della vittoria, che aveva fiducia di poter completare il giorno seguente. La mattina dopo i Napoletani, in mezzo alla nebbia, ripresero il combattimento, che fu cominciato felicemente con la conquista di altre posizioni, ma la mancata prontezza di alcuni generali, come il Lechi, bresciano, e il D’Aquino, che pure era un valoroso soldato, e qualche altro ancora, compromise seriamente la battaglia. Nondimeno le speranze non erano mancate al Sovrano, il quale compi in quel giorno ogni azione da esperto condottiero e da prode soldato, ed aveva ancora forze sufficienti per tentare uno sforzo supremo. Ma non lo fece, preoccupato solo di salvare l’esercito ed il trono. Cosi decise la ritirata, mentre il combattimento languiva da ambo le parti per la stanchezza delle truppe; prima di uscire da Macerata indicò al generali i punti precisi, in cui dovevano condurre le loro colonne, ma nessuno seppe obbedire, e le truppe accorsero verso la città, abbandonandosi al saccheggio.

La mattina del 4 maggio l’esercito si allontanò da Macerata, iniziando la marcia di ritirata sotto la direzione del re, protetta dal generale Carafa, e la sera tutte le truppe si riunirono nei pressi di Civitanova. Il giorno 5 maggio, dopo una notte di pioggia rovinosa, continuò la ritirata verso l’Abruzzo, ma da allora il disastro, al quale il re aveva sperato di sottrarsi con l’interrompere la battaglia di Tolentino, si spiegò veramente in tutta la sua gravità con diserzioni massicce, da parte di soldati, demoralizzati e non sorretti da esempi di fede, di obbedienza o di perizia di alcuni loro generali, massimi responsabili dell’insuccesso. Il giorno 11 maggio, a Sulmona, il Sovrano passò in rivista, per l’ultima volta, il suo esercito, ridotto a 12 mila uomini, e poi con un piccolo seguito parti verso Capua, per raccogliere nuovi armati dietro la linea del Volturno. Ma erano le ultime illusioni! Pubblicata il 18 maggio la costituzione, concessa il 12 dello stesso mese con la data fittizia ” Rimini 30 marzo “, per rendersi amici i Carbonari, dopo aver largito gradi ed onori agli amici e doni a tutti, generoso nella sua caduta come un principe ,che sale al trono, il re Gioacchino autorizzò i Generali Carascosa e Colletta a trattare col nemico, ed il 20 maggio parti con pochi fedeli per Pozzuoli e l’isola d’lschia, donde il 22 navigò verso la Francia.

La regina Carolina, assieme al figli, ospite dell’Austria andò a Trieste via mare, lontano dal marito che non doveva più rivedere. Gioacchino Murat approdato in Francia e respinto da Napoleone, corse rischio di cadere vittima del ” terrore bianco ” dopo Waterloo. Rifugiatosi in Corsica, fantasticò di riconquistare il regno, e rifiutata l’ospitalità che gli offriva l’Austria, il 28 settembre, da Aiaccio con 250 partigiani parti verso il territorio napoletano; ma una furiosa tempesta disperse la piccola flottiglia e con soli 28 compagni sbarcò a Pizzo di Calabria, i cui abitanti, sollevati da un capitano di gendarmeria, chiamato Trentacapílli che era lì di passaggio, lo respinsero verso la spiaggia, dalla quale il corsaro Barbarà si era allontanato con la nave, stanco di quell’avventura pericolosa. Lo sfortunato re allora fu preso, sottoposto a giudizio di un tribunale militare, al quale come sovrano rifiutò di rispondere, e venne condannato e fucilato il 13 ottobre 1815 nel cortile del castello di Pizzo (13). E così concluse la sua vita gloriosa ed intrepida nel quarantottesimo, anno di età, il generoso Gioacchino, cadendo da Re, dopo avere egli stesso ordinato il fuoco.

Il Borbone respirò a tale notizia; ma il popolo, con l’andar del tempo, fece revisione della feroce sentenza e la musa popolare ricordò a lungo, con patetica commozione, la morte del re cavalleresco e sventurato; fino al 1860 ” e oltre ancora al sessanta, era dato incontrare vecchi napoletani, che usavano portare come reliquia, nel taschino, una moneta di quel re, e la traevano fuori per contemplarla, e la baciavano sospirando ” (14). Parole altamente significative: esse rispecchiano l’animo di un popolo sincero, che senti commosso rimpianto per quel Re valoroso, la cui storia, nel momenti salienti del suo tramonto eroico, si è voluta ricordare in queste pagine, rievocanti le vicende del nostro antico paese, che egli fece città.

Giovanni Pagani

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