Comune di Morino

Che cosa dovettero dividersi nella romita chiesetta della Madonna del Cauto negli ultimi anni del secolo XII i Signori di Antena (Civita d’Antino) e i monaci di Calamari? Per spiegarci la controversia, dobbiamo credere che la chiesetta possedesse non lontano dalle sue povere mura e da quella miserabile grotta boschi a non finire o fosse ricca, nelle zone sottostanti alla squallida casetta, di molte terre che potevano far gola! Solo boschi e terreni che si trovavano nelle vicinanze della Grancia o a Morino avranno giustificato la lite in quell’epoca remota tra il Monastero di Casamari e la città di Antena.

La controversia viene ricordata nell’antico Cartarium Casamariense; essa fu risolta e definita solo attorno al 1188 da una sentenza emessa dai Vescovi di Aquino, Veroli e Sora (1). Raggiungere l’antichissima chiesetta, situata a circa 1000 metri di altitudine, al di sopra del famoso Schioppo che da origine al Romito, un affluente di destra del Liri, e stata per me, che non sono più giovane, una vera fatica di Sisifo.

E son convinto che la fatica non sia riuscita pesante solo a me, ma anche ai miei compagni di viaggio, o meglio di avventura. Non so neppure come definire la faticosa giornata: non una gita che pur con le sue difficoltà può diventare piacevole e anche memorabile; non un’ascensione stupenda, perché in genere l’ascensione serba sempre sui monti panorami superbi che ti fanno dimenticare la salita; non una sorpresa finale con la visione di un’artistica chiesetta. Dopo una discesa pericolosa e una salita altrettanto difficile attraverso a boschi e terreni nascosti per lo più alla luce, solo una chiesina abbandonata! Eppure in quella chiesetta quasi inaccessibile vennero e pregarono generazioni di uomini che credettero in Dio.

Lassù non fanno il nido neppure le aquile rapaci, le dominatrici delle vette e delle altezze! Avevo desiderato da anni visitare la chiesetta, costruita nella roccia dalla fede cristiana di altri tempi; mai pero la mia ansia era stata appagata di andare lassù fino al 5 luglio 1977. L’invito a recarmi alla Chiesetta del Cauto mi era stato rivolto da Mons. Vincenzo Lecce, Abate di Morino; era la buona occasione ed io ne ho approfittato nel breve periodo di riposo, trascorso nel mio paese natio di Civitella Roveto.

Cosi ho visitato la sacra casetta scavata nella roccia, dove forse raramente si rifugiarono perfino i banditi o i briganti, perseguiti dalla giustizia umana. Dopo queste premesse dico che l’alpestre luogo e degno della nostra profonda meditazione: alla Casa della Madonna del Cauto andarono e vanno anche oggi, in alcuni giorni della primavera, tanti fedeli di Morino e di Grancia, come pellegrini d’amore, come testimoni di un convinto sentimento religioso, che esaltava al tempo della barbarie ed esalta lungo le vicende tristi della nostra storia i valori eterni dello spirito. Lassù si raccoglieva fidente quella generazione di autentici cristiani, lontana dai fragori mondani, per dirci oggi che grande fu la fede di coloro che vollero tra i monti e i dirupi quella chiesetta.

E’ semplicemente ardua impresa descrivere ora l’avventura della scalata: ad un certo punto della salita incredibile e pericolosa mi sembro di non potercela fare più, e mi pentii di avere affrontato con troppa leggerezza un rischio superiore alle mie forze. Partiti da Morino con la macchina di D. Franco Geremia, Abate di Civitella Roveto, assieme all’Abate di Morino, raggiungemmo un’altra macchina, guidata dal Parroco di Civita d’Antino, D. Giuseppe Ho; con quest’ultimo erano anche D. Loreto Savelli, Parroco di Grancia, il guardaboschi di Morino, Carlo Maiale, e un ragazzo.

Si percorse con relativa facilita la strada che porta in alto in direzione dello Schioppo e della Chiesetta del Cauto. Ma perché questo appellativo. Ecco: non molto distante dalla chiesetta si leva una grossa pietra con un buco enorme, per dove possono passare anche persone o animali. In dialetto cauto significa buco e la chiesetta e passata alle generazioni col nome di Chiesetta della Madonna del Cauto. In qualche documento che ricorda la chiesetta viene chiamata la Madonna de pertuso: e la stessa cosa. Pertuso, anche, vuol dire buco, e pertugio e la parola italiana. Ma torniamo alla avventurosa escursione. Salendo le numerose curve della strada, ammiravamo il fondo valle: giù l’abitato di Morino, più in alto la Grancia in continuo sviluppo e il colle dove sono visibili ancora i ruderi dell’antico paese di Morino, quasi completamente distrutto dal terremoto del 13 gennaio 1915. Più su si stende allo sguardo il laghetto artificiale, formato dal Romito con la sua centrale elettrica; più in alto ancora nell’incavo della montagna lo Schioppo: e il famoso Zompo, una massa di acqua che esce dalla montagna e precipita con una cascata di oltre 100 metri a terra. Nei mesi estivi le acque diminuiscono, ma nell’inverno e nella primavera cresce il volume dell’acqua e la massa liquida si getta con potenza nel vuoto con fragore assordante.

Lassù, sopra lo Schioppo, ma molto più in alto, tra rocce scoscese ed inaccessibili, costruirono la Chiesetta della Madonna del Cauto.
La strada, percorsa celermente tra una fittissima vegetazione, (la strada fu inaugurata non molti anni fa) continuo ad inerpicarsi per i tanti e ripidi tornanti. Quando scendemmo di macchina, lo Schioppo non si vedeva più. Comincio subito la marcia di avvicinamento tra le boscaglie in direzione della Chiesetta del Cauto. Ma fu una discesa o una salita? L’una cosa e l’altra insieme, prima di arrivare alla meta.

Non potrò mai descrivere un cammino che fu portato a termine con le mani e con i piedi. Non un tratto di piano: o la discesa ripida a precipizio, o la salita difficile, erta e sassosa da darti il capogiro. Dove mettere i piedi? Nessuna traccia di via o di sentiero nella discesa a picco. Cespugli intrecciati, foglie secche a mucchi dovunque; dove passavi, molti i sassi sporgenti, coperti dal fogliame, e i rami della boscaglia che coprivano il terreno. Se non stavi attento, inciampavi continuamente. Se non avevi la prontezza di afferrarti al più vicino cespuglio, perdevi l’equilibrio e cadevi. Fin dall’inizio si capi che il pericolo di cadere ti era sempre alle spalle. La terra era umida e le foglie sparse sul terreno non ti facevano scorgere il punto più adatto ove poggiare il piede. Cosi, si scivolava, si incespicava, si ficcava la scarpa nel groviglio dei rami e dei cespugli, e correvi il rischio, ad ogni momento di distrazione, di ruzzolare a terra.

Meno male che il bravo Carluccio, il guadaboschi, calava come un capriolo e si arrampicava come uno scoiattolo: mi dava spesso una mano nei punti più scabrosi della discesa, puliva con i suoi scarponi il terreno fangoso e pieno di foglie e mi indicava dove era meno difficile la via. Ma quale via? Ripeto che nessuna traccia di viottolo qualsiasi si mostrava ai nostri piedi e sono convinto che senza la presenza del guardaboschi ne avremmo fatto di capitomboli e di cammino inutile; prima di arrivare alla chiesetta, ci saremmo certamente smarriti in quel ginepraio, ove dominano solo i cespugli che fanno del terreno su cui si proiettano le ombre dense degli altissimi faggi, un luogo impossibile ad essere attraversato; questo si allarga in tutti i versi, sempre coperto di foglie cadute dalle piante e di sassi accumulatisi nel tempo, come se fossero in agguato allo scopo di farti sdrucciolare e cadere. Sono rari i fossi che ti riportano la fiducia sotto un cielo opaco ove a sprazzi filtra la luce.

La discesa fu aspra, ma la successiva salita fu ancora più aspra. C’era da mettersi le mani ai capelli ed io perderei la speranza dell’altezza! potevo dire con Dante, alle prese della selva infernale e dell’ultima belva, la lupa!
La salita era adatta alle capre e ai camosci: ripidissima, senza tracce di sentieri, lunghissima; solo con le mie forze non sarei stato capace di giungere alla meta. ” Un altro poco ancora! ” ci diceva per incoraggiarci la guida. Ed io, aggrappato strettamente, ora alla mano di D. Franco, ora a quella dell’esperto guardaboschi, salii come potetti fino alla chiesetta. Alla fine un sospiro di sollievo e poi la gioia che si può provare al termine di un viaggio che ha presentato difficoltà superiori ad ogni attesa. Davanti alla rozza entrata della chiesetta della Madonna del Cauto e sospesa una campanella; mi pare piuttosto un campanaccio come quello che portano al collo le mucche lasciate al pascolo in alta montagna. Si entra nella chiesetta per una vecchia porta e subito hai davanti un ambiente fatto vecchio dal tempo e dalla umidità.

La chiesetta e scavata nella roccia come una grotta: due pareti sono addossate alla roccia e le altre due sono di pietra. La chiesetta può essere lunga otto o nove metri, larga e alta circa quattro. Davanti a una delle pareti scavate nella roccia si leva un piccolo altare per celebrarvi la Messa. Quasi dovunque, nella volta e nelle pareti, e possibile distinguere, anche se sbiaditi, dei dipinti: non e facile oggi, a tanta distanza di secoli, riconoscere gli argomenti delle pitture. Rappresentavano senz’altro molti misteri della nostra religione, come l’Annunziazione e la Natività: dietro l’altare, al centro, e visibile la Madonna che tiene aperte le mani. Nella parete in cornu epistolae sembra che siano dipinti con i loro paramenti alcuni Pontefici; sotto uno di essi si può leggere ancora: Clemente. Sara certamente il Papa S. Clemente I, uno dei primi Pontefici, discepolo degli Apostoli, vissuto alla fine del primo secolo dell’era cristiana. I dipinti non sono opera d’arte, ma la chiesetta ha un valore di fede inestimabile se meditiamo quella fede nella generazione che venne per prima lassù nei periodi oscuri che seguirono il Mille. Nostro primo pensiero nell’entrare nella chiesetta fu quello di rivolgere alla Madonna una preghiera di ringraziamento per lo scampato pericolo. Ed ora in cauda venenum.

Non era finita ancora la nostra avventura. Ci attendeva, dopo la visita alla chiesetta, un’ultima salita, prima di riprendere la via del ritorno. Quest’ultima ascesa, anche se breve, divenne anche più difficile, non so perché: forse per la stanchezza, forse perché si presento come un muro da superare. Io fui quasi di peso trascinato su da D. Franco per un tratto e dal guardaboschi per il resto della impossibile salita. In una parola dovetti essere condotto per una mano mentre con l’altra mi aggrappavo a qualche ramo o cespuglio o tronco d’albero non troppo grande. Finalmente si riprese la via del ritorno, diretti alla strada ove erano state lasciate le automobili.

Fu una bella sorpresa percorrere un tracciato abbastanza agevole: insomma un vero falsopiano; ma perché non ce lo avevano fatto percorrere all’andata? Avevo come dimenticato la fatica passata: D. Franco ed io facemmo in volata il cammino di ritorno. A questo punto quali le impressioni della gita? Un paesaggio chiuso tra colli e valloni, una mancanza quasi totale di panorami, uno spettacolo solo di verde coperto dai raggi del sole. Come può penetrarvi il sole se la campagna, tutta in salita, e dominata dagli alberi delle molte faggete che si rizzano, fino a trenta metri come giganti? Sono rari gli spazi aperti che offrono la visione maestosa dei monti svettanti nella catena dei Cantari e dei Simbruini. Non son rare qui neppure le sorgenti che ai passanti, ai greggi e agli armenti sono prodighe della fresca acqua della montagna. Purtroppo noi non incontrammo ne uomini ne greggi quel giorno, che fu tranquillo e sereno: c’erano lungo la via solo i segni dei muli che vengono quassù a caricare la legna.

In compenso ai cigli delle stradicciole e tra il verde della campagna, quasi dovunque, facevano capolino le saporite fragolette dei monti. Tornati alla nostra macchina, la gita non era ancora finita. Il guardaboschi, infatti, doveva raggiungere altri colleghi saliti al mattino in alta montagna a picchiettare delle piante; e dovevamo accompagnarlo. Ancora altri quattro chilometri circa di strada, sempre in salita, percorsi dalla nostra macchina su un fondo stradale non liscio e tutt’altro che facile.

Si giunse in località detta La Liscia: perché si chiami cosi non saprei spiegare. Di liscio non c’e proprio nulla. In quei pressi e stato costruito di recente un acquedotto e la zona e rallegrata da una bella fontana con abbeveratoio. L’acqua e freschissima e la fontana ha un forma caratteristica.
Alla Liscia siamo, penso, sui 1500 metri circa di altitudine: il panorama e più aperto e purissima l’aria che vi si respira. Dopo avere accompagnato il guardaboschi alla Liscia, la macchina di D. Franco rifece tutta la strada del mattino e del pomeriggio. Sono 15 chilometri che ci riportarono ai 500 metri: l’altezza di Morino sul livello del mare. Venendo dalla Liscia e rifacendo la via dell’andata nel ritorno, quando si e al livello dello Schioppo e si lascia indietro una natura primitiva e selvaggia, a mano a mano che si avvicina il fondo della Valle Roveto, prima di attraversare l’abitato di Grancia, lo spettacolo e vasto e bellissimo.

Si inseguono i panorami della nostra terra d’Abruzzo, sempre diversi, con i colli che digradano, con le campagne consacrate al lavoro, con i continui boschi di querce, con i campi di messi gia mietute o da mietere ancora, con i prati di fieno in attesa della falce, con tanti vigneti ben coltivati, con i castagneti sotto le cui ombre l’aria e balsamica, con piante da frutto d’ogni specie, di olivi, di ciliegi, di noci, di nocchie, con casette civettuole che ti accompagnano fino a Grancia, fino a Morino. Fra questo verde e tra i vari paesaggi un testimone secolare, che sa tutto della nostra gente, che scorre sempre con lo stesso mormorio, il Romito, che si precipita freddo tra i sassi, lasciandosi dietro trote squisite, per andare ad ingrossare le acque del Liri.

Quattro ore abbondanti erano state necessarie per la gita alla Madonna del Cauto e alla Liscia. Riportavo ora con me la stanchezza e la paura che avevo provata in una caduta lungo la prima discesa verso la chiesetta; ma con me riportavo anche la gioia di aver visitato una casetta consacrata da secoli alla fede: di quella chiesetta avevo parlato in una pubblicazione del 1960. Sono stati dunque da me visitati fino ad oggi molti luoghi sacri di Valle Roveto che la pietà cristiana dei nostri avi fondo sui colli o fra i monti: la Grotta di S. Angelo in Balsorano, la Madonna delle Grazie a Roccavivi, il Romitorio a S. Vincenzo Valle Roveto Superiore, la Madonna della Ritornata a Civita d’Antino, la Croce sul Monte Bello a Civitella Roveto, la Madonna della Fonticella a Canistro Alto.

Mancava La Madonna del Cauto a Morino; il 5 luglio 1977, anche quella Casa di Dio, aperta al culto forse da quasi un millennio, e stata da me visitata. Non vi tornerei più per due motivi: primo, perché gli anni che non sono pochi non me lo permetterebbero più, secondo perché l’accesso alla chiesetta e troppo difficile e impraticabile. Tutto pero si dimentica dopo la buona riuscita. Alle 3 del pomeriggio ci aspettava la calorosa accoglienza di D. Vincenzo Lecce che aveva fatto preparare dai suoi familiari un pranzo ristoratore. A quando ora la visita al Fontanile di S. Elia, ai confini tra S. Giovanni Valleroveto e Collelongo? E’ l’ultimo luogo sacro antichissimo che non conosco; altro lontano ricordo della nostra Valle Roveto! anche quel luogo sacro scrisse tanta storia!

Note
(1) Gaetano Squilla – La Chiesa di S. Stefano in Civita d’Antino 1960 – Tip. Abbazia di Casamari pag.

Testi di Don Gaetano Squilla 

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