Comune di San Vincenzo valle Roveto

Proprio in una delle misere baracche di S. Vincenzo, nacque la piccola Mea l’11 aprile 1929 (1) da Antonio Carnevale, pirotecnico, e Tersigni Rosaria, casalinga. Era la quinta di sei fratelli. La piccola fu battezzata dal Parroco D. Emilio Zeppa, il giorno seguente 12 aprile 1929. (1) L’infanzia di Mea fu un’infanzia di stenti. La piccola crebbe nelle ristrettezze più spaventose, anzi nella miseria più squallida. In casa spesso mancava non solo il pane, ma anche un po’ di fuoco. La piccola spesso doveva andare a letto senza mangiare, ma non osava chiedere nulla alla mamma, perché sapeva che non c’era proprio niente. Quando, più grandicella, si recava al pascolo, portava con se delle bottigliette con aceto e olio e in un piccolo cartoccio un po’ di sale: in tal modo, se s’imbatteva in un po’ di cicoria, la coglieva e la condiva alla meglio, cosi cruda, e la mangiava. Altre volte, i proprietari dei campi presso il fiume si chiedevano: “Come mai vengon su cosi poche patate?…” e non potevano immaginare quale ne era la causa.

In realtà, era Mea che, per la fame,… ne seminava strage. A S. Vincenzo la fame e la miseria erano all’ordine del giorno, e a volte non ci si faceva proprio scrupolo a rubare qualcosa negli orti altrui. Mea con alcune amichette aveva adocchiato l’orto dell’Abate Antonio Matachione, e, un giorno, non si fece scrupolo a entrarvici con loro per rubarvi le mele. A facilitare l’entrata era la rete alquanto sconnessa che circondava l’orto medesimo. Mea di li a non molto doveva andare a confessarsi, ma come fare a rivelare il misfatto al Parroco? Rimase li per li sopra pensiero, ma poi decise di dire tutto con chiarezza, e perciò, senza tanti preamboli, iniziata la confessione, disse con chiarezza: “Ho rubato delle mele!”. Il Parroco sapendo bene che in paese le mele c’erano solo in quell’orto, impensierito le chiese:
– E a chi le hai rubate – A tia, Signor Abba! – E di dove sei passata? – Se te lo dico, tu non mi ci fai più entrare Fin qui l’episodio. Più tardi, Mea avrà il coraggio di rubare al Signore le cinque piaghe: ruberà la pace, la gioia, il conforto per darne a chi non ne aveva o ne aveva poco.

Siccome a volte gli stimoli della fame erano lancinanti, se veniva richiesta di qualche favore, ella diceva candidamente: “Si, sono disposta, a patto pero che tu mi dia qualche pezzo di pane e qualche uovo!”. Di conseguenza, Mea era di salute cagionevolissima. Soffriva fin da piccola di reumatismi. Fini a rovinarsi in seguito a un acquazzone preso per andare in pellegrinaggio al Santuario della SS.ma Trinità (Cappadocia); in quella circostanza, dovette essere riportata a casa con la barella. All’età di 15 anni i dolori artritici saranno cosi diffusi che i familiari dovevano girarla in letto con tutte le coperte, perché lei non ne era capace. Il Camillino P. Onorio Zeppa, nipote del Parroco, a distanza di anni, se la rivede ancora con vestitini poveri e sporchi e con un aspetto pallido, anzi addirittura “spettrale”. Pur essendo svelta, intelligente e avida di sapere, a motivo delle ristrettezze familiari, non poté frequentare che la II elementare. Pur tuttavia, non se la prendeva: era di carattere gioviale, anzi il Parroco la ricorda come “allegrotta” e capacissima di imitare, o meglio di scimmiottare.

Quanto alla Religione, non c’era nulla di straordinario: la Messa alla Domenica, e le preghiere mattino e sera, recitate magari insieme, in famiglia. Dice il fratello Giovanni: “La mamma ci aveva insegnato a essere religiosi, ma non troppo! Ci si accontentava del minimo indispensabile”. Da bambina ebbe sempre una grande devozione all’Immacolata. “Sempre, sempre, sempre ho amato l’Immacolata”: dirà in seguito. Si sforzava di partecipare alla Messa nel modo migliore possibile: nella sua ingenuità, soleva ripetere, guardando l’Ostia: “Ostia santa, Ostia consacrata, – Tu dal cielo sei calata, – Sull’altare sei posata. Sto sacerdote benedici – E me, povera peccatrice”. Un pochino anche per le difficoltà finanziarie, la piccola non poté fare la I Comunione che a un’età alquanto matura, cioè a circa 14 anni, esattamente il 22 gennaio 1943, festa di S. Vincenzo Martire, Protettore del paese. Anche la I Comunione la ricevette dal suo Parroco D. Emilio Zeppa. E in quello stesso giorno, ricevette anche la Cresima, a Sora, per le mani del Vescovo diocesano Mons. Michele Fontevecchia. Di appena 8 anni, Mea si uni alla mamma che andava a sbrigare le faccende in casa e nel mulino della signora Tersigni Teresa.

Mea cercava di rendersi utile nel modo migliore possibile, soprattutto accudendo ai piccoli della signora Teresa: li imboccava o aiutava a mangiare, li pettinava, li faceva giocare ecc. Ma lei, pur avendone la possibilità, anzi quasi l’ordine, non approfittava mai di nulla, tanto che la signora Teresa doveva prepararle espressamente qualcosa da mangiare.
Fin da allora, era molto caritatevole. Se per caso aveva qualche soldo e vedeva qualcuno in necessita, subito glielo dava. Se incontrava persone avanzare faticosamente, subito si faceva loro vicine e si offriva ad aiutarle.
Bambina comune, un giorno, per mettersi a giocare con povere bambole assieme alle amichette, tralascio di sorvegliare a dovere le pecorelle, che perciò si allontanarono per proprio conto… Ci volle una giornata intera per rintracciarle. E, in quella circostanza, quante ne busco Mea!…

Mea stessa raccontava che, quand’era ancora piccola e pascolava il gregge, vide un giorno posarsi sul suo capo come una grande colomba dalle ali dispiegate. S’inginocchio per pregare, ma senti sotto le sue ginocchia qualcosa-che strisciava, viscido: era un serpente! Rimase allibita e, pensando al demonio, con grande coraggio lo calpesto, ma non riuscì ad, ucciderlo; che anzi il,serpente entro in un cespuglio, donde vennero subito fuori come lingue di fuoco, fumo e odore di zolfo. Impaurita più che mai, Mea abbandono le sue pecorelle e corse subito in Chiesa a pregare dinanzi al Crocifisso Signore. Il Parroco, notandola cosi sconvolta, le chiese cosa le era accaduto…; conosciutolo, soggiunse di non stare a pensare a… certe cose. Mea torno a casa, più impressionata che mai, ma dovette mettersi a letto perché aveva la febbre alta. Come era da prevedere, nessuno le credette. Più volte, quando Mea pascolava le pecore, dovette rifugiarsi in qualche riparo perché su nel cielo, sul suo capo, passavano gli aeroplani che andavano a bombardare le zone di Montecassino, Anzio ecc.

In seguito alla morte del padre e della sorella Raffaellina tubercolotici, Mea, unitamente alla madre, dovette sobbarcarsi a molti sacrifici per procurarsi il minimo indispensabile alla vita. A dire il vero, Mea non si sentiva portata affatto a pascolare le pecore, ma si era sottomessa all’umile condizione di pastorella per necessita. Doveva pensare: Non ha avuto Gesù un occhio di particolare riguardo per i poveri pastori? Più in la, pero, l’accontenteranno nei suoi desideri e la manderanno da alcune Suore del suo paese perché apprendesse un po’ di cucito e di ricamo. Qualche amica che conosceva la sua bontà, ebbe a dirle un giorno: “Va a finire che diventerai Suora!…”. Mea, pero, rispondeva candidamente di no, soprattutto perché non se ne sentiva degna.

Come Francesco Possenti (il futuro S. Gabriele dell’Addolorata) era il principino dei balli, cosi anche Mea era la reginetta dei balli innocenti della gente di campagna; le compagne la stimavano assai e, anche a lei, affibbiarono il soprannome di “reginetta dei balli”. Mea stessa confessava pero che, qualche volta, andando a ballare, sentiva nel suo cuore una voce che la redarguiva: “Ma che fai?…”. Divenuta ormai sarta provetta, la povera mamma con mille sacrifici, le acquistò una macchina per cucire. Ma in paese il lavoro era poco, pochissimo. Cosa fare per vivere? Mea ormai non si vedeva dinanzi altra via che andare a servizio a Roma.

Note
(1) Finora sui santini, negli articoli e perfino sulla tomba del cimitero, per un errore, Mea figura nata il 7 e non l’11.

Testi tratti dal libro Il cantico di Mea

Testi a cura di D. Gaetano Meaolo

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