Nella seconda metà del secolo ‘XII scompare il nome di San Salvatore e figura quello di San Bartolomeo nella chiesa principale di Avezzano, il cui abate, con il clero e con tutti gli altri dipendenti, era angariato da Gentile de Palearla che, stando alle risultanze storiche, doveva essere un signorotto prepotente e senza scrupoli. Circa tale mutamento non si rinvengono notizie dirette nelle opere dei nostri storici più autorevoli, né è dato rilevarne in altri. Il Febonio riferisce che la chiesa, dedicata una volta a S. Antonio Abate (ed era quella di San Salvatore), in un secondo tempo fu consacrata a San Bartolomeo, perché la popolazione di Avezzano intese in tal modo assolvere il voto fatto nel pregare il Santo Apostolo di liberare tanti compaesani, invasi da spirito demoniaco (1).
Il concittadino Bernardino latosti riporta nella sua Storia di Avezzano, la notizia tratta dal Febonio, colorandola con tinte di si accesa convinzione, da far immergere per un attimo la mente nel medioevo immaginoso e ardente; ecco la narrazione: ” Spiegar non saprei come avvenisse che a quell’epoca lo spirito infernale si scatenasse per tormentare specialmente questa terra, ed impossessarsi de’ corpi di molti miseri avezzanesi. Per le vie, per le campagne, per le case non si aggiravano che indemoniati; non si udivano che urli e bestemmie; non si notavano che danneggiamenti, fracassi, e ruine!… Gli immuni da così orribile flagello di Dio pensarono di ricorrere all’Apostolo San Bartolomeo, e fecero solenne voto di sceglierlo a loro speciale Protettore, se intercedesse pro’ perdono, soccorso, e cessazione di tanto castigo.
E il miracolo segui la preghiera ed il voto. 1 demoni fuggirono, ritirandosi nel baratro infernale. San Bartolomeo fu acclamato Protettore; la statua di lui fu sostituita a quella di S. Antonio Abate, che trasportata, come in esilio, in una meschina Cappelluccia esistente nella quondam villetta di Cerreto distante più di un chilometro e mezzo dall’ingrato paese “. Nella nota n. 1 del suo libro Bernardino Iatosti aggiunge: ” S. Bartolomeo, come è scritto nel Vangelo, ebbe dal suo Maestro il potere di cacciar via i demoni dal corpo umano-” (2). Tale potere fu attribuito da Gesù anche agli altri Apostoli e Discepoli.
Ma al dì là di ogni bel racconto, sorto forse dalla fantasia del popolo e raccolto da scrittori, si rinviene spesso una raglorie vera e reale, diversa da quella che la tradizione ha avuto cura di tramandare, nel caso nostro, di generazione in generazione fino all’eccellente Febonio, che la riferisce nel suo scritto maggiore, mentre il senso della storia, senza colpa di alcuno forse, si era perduta nella nebbia di un lontano passato.
Qualche altro scrittore adduce un motivo diverso circa l’elezione di San Bartolomeo a protettore di Avezzano, pur attingendo, per altre notizie, con incredibile alterazione di date, dalla fonte prima, che è sempre il Febonio: si tratta di Mons. Raffaele Rossi (3), prelato domestico del Papa, che scrisse una allegazione nella causa tra l’abate Don Pietro Antonio Spina, Vicario, Curato della Collegiata di San Bartolomeo ed i Canonici del Capitolo della Collegiata medesima. Il Rossi, dopo aver ripetuta la solita storia della nascita di Avezzano, secondo la narrazione di tutti i nostri storici, dal Febonio in poi, fino al primi del corrente secolo, afferma che i Parroci dei sedici villaggi, trasferitisi in Avezzano con le relative popolazioni, consacrarono a S. Antonio Abate il tempio di Giano, dal cui saluto sorse il nome della città, costruendovi accanto la propria abitazione e, facendo vita cenobitica, pur avendo ciascuno la cura dei propri parrocchiani. ” Che al cominciare del secolo XI (?)
Spaventati dai terremoti si elessero a protettore San Bartolomeo ed a Lui dedicarono il tempio, che poi nel secolo XV (?) fu ridotto maestoso e grande colla spesa di circa 40 mila ducati “. Sorvolando sull’evidente alterazione di date e sulla ripetizione di notizie, che in altri luoghi di questo libro sono state ampiamente precisate e chiarite alla luce di considerazioni e risultanze nuove, è doveroso rilevare che la causa determinante il mutamento del primo patrono, S. Antonio Abate, in San Bartolorneo, secondo Raffaele Rossi lo spavento degli Avezzanesi per i frequenti terremoti, è anch’essa singolare, a parte poi che nell’agiografia non si rinviene un motivo particolare per rivolgersi a S. Bartolorneo a protezione dai terremoti. I Normanni avevano inferto un colpo serio e definitivo al possedimenti monastici nella Marsica e le autorità diocesane, naturalmente, non si fecero sfuggire l’occasione, appena si presentò, per rivendicare il diritto su quei beni ecclesiastici, che esistevano nella propria giurisdizione territoriale e che per tanti anni erano stati nel possesso dell’Ordine benedettino.
Si sa infatti di Vescovi dei Marsi, animati da grande desiderio di reintegrare il patrimonio, che ritenevano depauperato per spoliazioni subite in favore di monasteri nei periodi della maggiore potenza benedettina nella Marsica. A tal proposito va ricordata la Bolla di papa Clemente III dell’anno 1188, con la quale venivano riconosciute ad Eliano Vescovo dei Marsi tutte le rendite ed i beni concessi alla diocesi dai pontefici, dai re, dal principi, dal baroni e dai devoti: tutto, a conclusione di una energica azione svolta dallo stesso vescovo Eliano, per il riscatto di ogni suo diritto nella giurisdizione della sua diocesi, avverso l’abate di Montecassino ed altri. Detta bolla, dopo aver elencato tutte le chiese e dopo aver fissato con chiarezza i confini della diocesi dei Marsi, cosi dice: ” … Entro i quali confini, qualunque podere, qualunque popolazione, qualunque chiesa sono situati o vi saranno in futuro, salvi i diritti primi della sede apostolica, rimangano sotto il governo e l’amministrazione tua e dei tuoi successori vescovi cattolici.
Ed in base a queste disposizioni, siano da voi adempiuti i diritti episcopali, tanto nell’ordinazione dei chierici, quanto nella resa delle decime e delle oblazioni, o nella correzione dei delinquenti. Proibiamo quella presunzione del tutto riprovevole dei monaci, la quale per l’assenza dei vescovi, e in parte per la ostinazione di essi monaci, crebbe molto fraudolentemente nei territori dei Marsi, cosicché non facciano battesimo nei monasteri, né osino uscire dal loro chiostri per amministrare le sacre funzioni agli infermi, né ammettano persone del popolo alla confessione dei peccati, né accolgano alla comunione gli scomunicati dal vescovo, né gli interdetti agli uffici sacri ” (4). In altri termini, vengono in detta bolla inibite le funzioni più importanti del ministero parrocchiale, che i monaci benedettini avevano sempre svolte nella Marsica, sostituendosi, in tempi duri e difficili, ad un clero incapace e poco zelante; San Salvatore era una chiesa benedettina fin dalla sua fondazione, ed era pervenuta alla notevole importanza descritta, grazie all’opera del suo abate e dei suoi monaci.
Ma anche la chiesa di San Salvatore con tutte le sue pertinenze doveva mutare sorte con l’occupazione normanna, tanto da perdere perfino il nome: infatti ad esso subentrò definitivamente quello di San Bartolomeo, dopo una breve parentesi, durante la quale la chiesa fu dedicata a S. Antonio Abate, stando a quel che dice il Febonio. Quasi a perpetuare una tradizione, durata per più secoli, ed a conferma della sua antica origine la chiesa conservò tuttavia dall’Abate Benedettino il titolo di Abate, che venne fin d’allora attribuito al parroco, il quale presiedeva un collegio di canonici; alle sue dipendenze erano anche altri sacerdoti e laici, come risulta dalla controversia intercorsa tra il vescovo Zaccarla e Gentile da Palearia.
Nella scelta del Santo Protettore del paese senza dubbio vi fu l’intervento del popolo avezzanese, che era costituito da contadini, pastori e pescatori in numero però quasi trascurabile rispetto alle altre due categorie. Certo, non si è in grado di dimostrare con precisione e sicurezza come andarono i fatti in questa scelta, ma non è difficile immaginare che tutti gli Avezzanesi furono pienamente d’accordo nell’accogliere con letizia il nome glorioso dell’Apostolo, che Gesù defini ” vero Israelita, in cui non si trova inganno “, lodandone l’innocenza e la semplicità di cuore. E cosi l’antico tempio, già ” purificato con rito cristiano e reso al culto del Sommo Dio “, secondo l’espressione tradotta dal Febonio, venne consacrato a San Bartolomeo Apostolo, Patrono di Avezzano. Il re Guglielmo 11, il Buono, volle fornire di privilegio la primitiva chiesa di San Bartolomeo, erigendola a ” Cappella reale ” e dotandola di alcune rendite. Ma nell’anno 1349, a causa di un violento terremoto, il cui epicentro fu nell’alta valle del Liri; ” l’intero edificio del tempio fu squassato dalle onde sismiche e crollò” (5).
Non molto tempo dopo, venne ricostruita, ma l’edificio aveva una forma diversa, irregolare e spiacevole alla vista, perché eseguito senza criterio artistico, ed in quanto a stabilità poi non offriva alcuna sicurezza; tuttavia rimase in quelle condizioni per due secoli e mezzo, e vi sarebbe rimasta ancora, se gli Avezzanesi, mossi da carità e da devozione verso l’Apostolo Patrono e rimessisi dai duri colpi più volte ricevuti durante quel periodo, non si fossero sentiti in grado di ricostruirla ex novo con la spesa di quarantamila ducati d’oro, – cifra iperbolíca per quei tempi ed aprirla al culto nella prima metà del secolo XVII, come si apprende dal Febonio (6). Risorse maestosa, imponente, su progetto di mano maestra, di cui purtroppo non è dato conoscere con certezza il nome: tuttavia è tradizione, la cui voce perdura in questi giorni, che del progetto della costruzione sia stato, all’epoca, interessato l’Architetto Domenico Fontana (7). E potrebbe essere vero per due motivi principali e di un certo rilievo.
Il primo motivo va ricercato nella circostanza che l’Architetto Fontana, al servizio di papa Sisto V, verso la fine del secolo XVI era venuto in Avezzano, accompagnato, dall’Ing. Mario La Cava, per esaminare le condizioni dell’emissario romano, onde tentarne la riattivazione, avendo una straordinaria piena del lago sommerso Luco, Ortucchio, S. Benedetto ed altri paesi ripuari; ma nulla potè compiersi, perché l’alto livello delle acque non permise alcun lavoro d’ispezione. Niente più probabile che gli Avezzanesi non si siano lasciati sfuggire la bella occasione di avere in casa un architetto della fama di Domenico Fontana e gli abbiano affidato il progetto per la costruzione della chiesa di San Bartolomeo.
Il secondo motivo è di natura puramente artistica e scaturisce direttamente dall’insieme degli elementi distintivi dell’opera architettonica, appartenente alla fine del secolo XVI. Il monumento avezzanese esprimeva le note di chiarezza e di grandiosità della architettura fontaniana in genere, e nei suoi particolari appariva privo di nuove ed originali distinzioni, quasi rimanendo statico di fronte alle molteplici innovazioni, che venivano attuandosi specialmente per merito degli epigoni di Michelangelo. Ora l’estro di Domenico Fontana era contraddistinto proprio dal senso della chiarezza e della grandiosità, senza però arrecare elementi originali alla evoluzione artistica dell’architettura romana. E questo sembra un rilievo, certo non trascurabile, per una facile attribuzione del progetto della chiesa di S. Bartolomeo al celebre architetto Fontana.
Rimanendo nel campo di questa bella ipotesi, è bene procedere alla descrizione del monumento. La facciata in travertino locale presentava, nel suo insieme, caratteri evidenti dell’ordine composito rinascimentale, e risultava di due parti sovrapposte. La parte inferiore era divisa in tre superfici rettangolari, corrispondenti alle navate interne, contrassegnate ai termini laterali da doppie colonne a lesena, o paraste, fornite di un ricco capitello composito e sorgenti da un’alta base. In ciascuna superficie si apriva un portale, quello al centro molto più grande dei laterali, i quali erano sormontati vistosamente da un fregio triangolare, mentre il portale maggiore da una lunetta semicircolare; ancora al di sopra dei portali, apparivano, su quello centrale, una grande iscrizione lapidaria a forma quadrata, decorata alla base da due encarpi di maniera classica, e, sul laterali, una grande nicchia a fondo curvo.
Alla sommità, le paraste erano congiunte da un mutulo, e, su di esso e sul capitelli, poggiava in tutta la sua estensione orizzontale, completandone ogni aspetto decorativo. La parte superiore, che venne compiuta molto più tardi, intorno al 1830, con l’intervento del Comune, risultava di due doppie paraste laterali, innalzantisi sulla verticale di quelle inferiori centrali, e del tutto simili ad esse, congiunte al capitelli da un largo modiglione, che sorreggeva una grande cornice, sporgente ai lati e diretta a legare le due doppie paraste suddette. Un’ampia finestra rettangolare, sormontata dal solito fregio a triangolo, si apriva al centro dell’unica superficie, ai cui lati ed alla sommità delle cornici di coronamento era posta, a guisa di attico, una balaustra, la cui funzione precipua era quella di mascherare i tetti, ma finiva con l’assolvere egregiamente ogni esigenza protettiva e soprattutto ornamentale. Ai lati estremi dell’ordine inferiore, sulla direzione verticale delle paraste, quasi a continuazione di esse, si ergevano due pilastri, terminanti in modanature decorative, ai quali internamente erano legate le due balaustre laterali. Al centro sovrastava l’intera facciata una grande statua rappresentante la Religione con la croce.
Anche l’architettura interna presentava pregi artisti i di ispirazione rinascimentale; era costituita di tre ampie navate con volte a vela, poggianti sopra grandi ed eleganti pilastri in pietra di stile composito. Vi erano eretti undici altari, e vi spiccava un fonte battesimale in marmo pregiato. I quadri sacri, che adornavano gli altari erano di un certo valore, specialmente due, dei quali uno, che raffigurava la Madonna con Santi, apparteneva alla scuola del Maratta (8), l’altro, che rappresenta va S. Michele Arcangelo, a giudizio di Orazio Vernet (9) era attribuito a Guido Reni (10). Era degno di nota il magnifico Tabernacolo del Santissimo, eseguito in legno dorato, su disegno di tanta finezza e di tanta grazia di particolari, da suscitare l’ammirazione di tutti; un’antica statua in legno, anch’essa di un certo valore, come mi venne riferito, era conservata nella casa dell’Avv. Bernardino latosti. La chiesa del Santo Patrono di Avezzano fu inoltre dotata di un organo, veramente monumentale, fatto costruire a sue spese, dal benemerito concittadino Marzio D’Alessandro, ricco possidente, il quale provvide altresi alla decorazione artistica del palco di sostegno con intagli, statue e profusione di ori (11).
Forse si tratta di quello stesso organo armonioso, che restaurato e rinnovato prima del terremoto veniva suonato durante le sacre funzioni da eccellenti maestri, come il Perrotti prima ed il Barone successivamente. La chiesa era collegiata di regio patronato, privilegio che conservò anche dopo il 1860, anno in cui il regno delle Due Sicilie venne annesso al nuovo regno d’Italia.
Al lato sinistro della facciata s’innalzava, imponente, il campanile, eretto dal popolo nell’anno 1781, a forma quadrangolare distinto da cordoli in quattro settori uniformi fino al piano ultimo, sul quale la torretta ben modellata sorgeva con ampie aperture campanarie ad arco a tutto sesto, ed era decorata agli angoli con gli stessi motivi ornamentali della facciata: la chiudevano due cornici, di cui la superiore più grande e sporgente, dalla quale si muoveva agile e snella la cuspide poligonale, recante al vertice una grande sfera con sopra la croce. I rintocchi delle sue alte campane si spandevano sonori sulla distesa trasparente delle acque, come poi sulla piana ubertosa del Fucino.
Nella chiesa collegiata di San Bartolomeo furono rinvenute la grande iscrizione epigrafica importantissima, che era alla base del colosso di Traiano, e l’altra di non minore rilievo, dedicata al liberto Marcio, Seviro, Augustale, Dendroforo e alla di lui madre, delle quali iscrizioni si è parlato in altre pagine di questo libro a dimostrazione dell’antichità del nostro paese. Presso la chiesa collegiata di San Bartolomeo, fin dal suo inizio, esisteva un Capitolo, che si componeva dell’abate e di sei canonici, saliti poi a dieci per cura del Vescovo Colli, il quale rivesti tale carica nella diocesi dei Marsi dal 1579 al 1596. Si ha altresi notizia dell’esistenza del detto Capitolo dal giudicato, emesso nel 1182 dalla Curia di Capua nella vertenza contro Gentile de Palearia, feudatario di Avezzano, come è stato precedentemente narrato.
Dal censuale dell’anno 1254 risulta inoltre che, per un certo tempo menarono vita monastica, abitando in un caseggiato annesso alla collegiata, forse l’ex-cenoblo dei Benedettini, i rettori delle chiese, che erano state parrocchie dei vichi nel territorio di Avezzano; erano detti canonici secolari e facevano capo all’abate, ” Abas Maior noncupatus saecularis Collegiatae Ecclesiae S. Bartolomaci ” (12). Ma, in seguito, per mancanza di una disciplina vera e propria, la comunità si sciolse e ciascun rettore tornò a vivere nella propria casa. Nello stesso censuale erano indicate le chiese rurali con le rendite, dipendenti dalla collegiata; il Vescovo Milanese poi, con bolla, in data 22 marzo 1572, stabili che tutte le chiese rurali senza cura di anime, indicate in numero di diciassette nell’intera zona di Avezzano, fossero annesse alla chiesa collegiata di S. Bartolomeo con ogni pertinenza, una volta divenute vacanti ” postquam per obitum illarum Rectorum vacaverint, seu aliqua earum vacaverit “. Tale incorporamento fu possibile in seguito al consenso di Marco Antonio Colonna, allora barone di Avezzano e duca dei Marsi, il quale aveva giurisdizione su quei beni ecclesiastici, per diritto feudale.
Col tempo poi, le chiese rurali andarono quasi tutte in rovina, ad eccezione di due, come già ricordato, S. Andrea a Vicenna, che rimase allo stato primitivo, e S. Maria in Vico, che ai primi del Cinquecento cambiò completamente fisionomia, perché ricostruita ad imis fundamentis. Non poche controversie si verificarono tra l’abate ed i canonici circa le relative attribuzioni, che non erano state mai determinate con precisione; ma nel l’approssimarsi dell’anno 1830, l’attrito cul~ minò in una lite clamorosa, che si svolse tra l’abate Don Pietro Antonio Spina ed il Capitolo dinanzi la Sacra Congregazione del Concilio, la quale in data 30 gennaio 1830, emise apposita sentenza, enumerando i diritti parrocchiali, che dovevano essere riconosciuti ai canonici secondo la più antica consuetudine.
Al primi del corrente secolo, il Capitolo intanto andò scomparendo con la morte dei suoi componenti, che non si provvide a rimpiazzare proprio in un momento in cui sarebbero stati di particolare aiuto per l’abate, dato lo straordinario incremento della popolazione, che dai 5050 abitanti dell’anno 1868 era pervenuta al numero di 13.000 circa nel 1910: forse già maturava nella mente del grande Vescovo Pio Marcello Bagnoli l’idea del trasferimento della sede episcopale dei Marsi da Pescina ad Avezzano. Nel frattempo, l’azione, mossa dall’abate don Venanzio Colella, per fare ripristinare l’antico Capitolo, approdò a mutamenti imprevisti: nel 1913 Don Venanzio fu nominato canonico della Cattedrale dei Marsi, mentre nella carica di abate di San Bartolomeo fu sostituito da don Cesare Vidimari, insegnante nel Seminario di Pescina. Entrambi sacerdoti venerandi e dotti, avevano compiuto i loro studi in importanti istituti ecclesiastici di Roma, ed avevano scritto variamente su argomenti di carattere religioso e pedagogico: si ricorda, per esempio, di don Cesare Vidimari ” Per la formazione del Clero-Considerazioni pedagogiche “, lavoro che per l’eccellente criterio educativo riscosse meritato plauso.
Sia l’abate Colella che l’abate Vidimari appartenevano a cospicue e vecchie famiglie avezzanesi, e si racconta che, in casa Colella, furono ospitati nella prima metà del Quottrocento San Bernardino da Siena e San Giovanni da Capestrano, i quali sostarono in Avezzano durante un loro itinerario apostolico nella Marsica, donde scaturi la bella leggenda dei sarmenti, prodigiosamente fioriti nella cantina della suddetta casa (13). Il terremoto del 1915 non risparmiò i due degnissimi abati, che lasciarono profondo ed unanime compianto tra la popolazione superstite. Qualche anno dopo l’immane disastro, appena co~ struito il Seminario, col trasferimento della sede episcopale in Avezzano, nella nuova grandiosa chiesa di San Bartolomeo, divenuta cattedrale dei Marsi, il Capitolo dei Canonici (dodici) venne in certo qual modo a perpetuare l’ufficio dei secoli scorsi. Primo Canonico Curato della Cattedrale dei Marsi in Avezzano fu Mons. Vincenzo Giusti, che mori santamente nell’anno 1946, senza aver mai abbandonato la sede, anche sotto i più violenti bombardamenti anglo-americani durante l’occupazione Tedesca. Gli successe il cari. Achille Palmerini, amico caro fin dell’adolescenza, il quale, per le sue elette virtù di Sacerdote, è Vescovo della Diocesi di Isernia e Venafro dall’estate del 1962: attualmente regge la Parrocchia della Cattedrale di San Bartolomeo il Cari. Gerasimo Ciaccia, nato nella vicina Celano.
In detta chiesa, prima Collegiata poi Cattedrale, da secoli funziona la Confraternita del SS. Sacramento: è certo che nel 1500 già esisteva, godendo sempre di riconosciuta priorità sulle altre locali, per la partecipazione dei cittadini più ragguardevoli, per la maggiore consistenza patrimoniale, e per la solennità dei riti religiosi, che una volta per sua iniziativa si celebravano con grande frequenza durante l’anno. Il suo Oratorio era attiguo alla Collegiata, in fondo alla navata destra, vicino alla cappella di sua proprietà, dedicata al Santissimo. La sua costruzione mantenne le caratteristiche originarle e proprie delle antiche consuetudini dell’istituzione, adatte al silenzio, al raccoglimento ed al fervore della preghiera: luce scarsa, volta a pareti dipinte a colori piuttosto scuri, con rappresentazione dei misteri del Rosario, fra i quali si distinguevano l’”Adorazione dei Magi ” e la ” Flagellazione di Cristo “. Vi era un unico altare dalle linee barocche, presso cui si apriva una piccola porta, che aveva ai lati due finestrelle, e che accedeva ad un vano di discreta ampiezza, alle cui pareti erano addossati in ordine teschi ed altre ossa umane. Il mobilio, povero e rozzamente lavorato, consistente in alcune panche ed in un palco di tavole sconnesse, costituiva tutto l’arredamento di quel salone tetro, quasi funereo.
Tutto questo però fino al 1831, anno in cui il Conte Tommaso Resta, nominato amministratore della Congregazione, provvide con oculata liberalità e sapiente azione ad apportarvi modifiche radicali ed opportune, da renderlo veramente degno della funzione, cui era destinato. Il vecchio altare fu sostituito con uno di stile rinascimentale, i capitelli delle colonne e tutti i fregi ornamentali furono dorati, la volta venne dipinta in azzurro chiaro, trapunto di stelle in oro, e le pareti, divise da pilastri con cornici verniciate, furono coperte da tinte, che imitavano il marmo; il pavimento fu rinnovato completamente con mattonelle colorate. Al lati dell’altare vennero simmetricamente costruite due porte, su ciascuna delle quali vi apriva una grande finestra; tali porte davano adito ad un piccolo coro, da cui si poteva passare alla sagrestia, mentre venne murata la porta dell’Ossarlo, che ebbe l’ingresso dal giardino.
Dell’antico, rimasero soltanto, l’uno di fronte all’altro, il sepolcro in pietra del vessillifero Filippo Mattel, e l’altro eretto alla memoria di Giuseppe Vetoli. Rimesso cosi eccellentemente a nuovo il grande salone, era necessario che fosse corredato di mobilio corrispondente alla dignità di un meraviglioso Oratorio; ed anche a questo fu provveduto subito, sotto l’amministrazione di Pietro Orlandi, il quale nell’anno 1851 fece costruire, con la spesa di ducati 600, un coro maestoso in noce massiccia, che risultò opera del più raffinato e perfetto artigianato locale, tanto curata ed artisticamente elegante ne fu l’esecuzione. A completamento dei lavori di rinnovo fu abbattuto opportunamente il muro, che divideva l’Oratorio dalla chiesa Collegiata, ed al suo posto venne situata una grande ed artistica cancellata in ferro battuto con la spesa di 250 ducati, fornendo in tal modo a chi entrava dalla porta della navata di destra, presso il campanile, una visione architettonica piacevole e di grandioso effetto. Entro lo spazioso e magnifico Oratorio trovò degna sistemazione la bella statua della Madonna di Pietraquaria.
Nel contempo, il medesimo amministratore provvide a far ricostruire la volta della grande sagrestia della Collegiata, apportandovi adeguati miglioramenti, fornendola di due grandi armadi in noce; inoltre acquistò l’Ostensorio dorato, il Tronco, le Croci ed altri oggetti occorrenti alle processioni, il baldacchino, il gonfalone, il piviale ed il terniario di lama d’oro, con la spesa complessiva di ducati 800. Ed ancora, tra il 1865 ed il 1870, procedette, con la somma di ducati 1500, al restauro ed all’ampliamento del fabbricato di proprietà della Confraternita, ripartendolo in comodi appartamenti abitabili, dal fitto dei quali si ritraeva una buona rendita mensile. In tutte queste encomiabili realizzazioni si manifestò molto preziosa l’opera svolta dal cassiere della Confraternita, Fabio Salvucci, che cooperò attivamente, assistendo al lavori ed anticipando il danaro necessario. Ammirato di tanta operosità innovatrice, lo storico locale Bernardino latosti scrisse il seguente attestato di lode al benemeriti della Congregazione: ” Abbiansi quest’ottimo cittadino, il fu conte Resta, e tutti i numerosi fratelli di quella pia Congrega, il meritato elogio, che io in queste pagine loro tributo; e ciascuno, messo nella loro posizione, apprenda ad imitarli! (14) “; è l’espressione sincera di un animo nobile e grato, nutrito di grande amore per il proprio paese!
La veste, indossata dai Confratelli sin dalla fondazione, è bianca, legata alla cintura con laccio celeste, completata da una mozzetta dello stesso colore, recante sul lato sinistro l’emblema raffigurante un Ostensorio in campo bianco, riportato, in maggiori dimensioni, sullo stendardo e sul gonfalone bianchi con bordi dorati. La Confraternita di San Bartolomeo, forse meno antica di quella di San Giovanni Decollato o della Misericordia, e una istituzione dotata nel passato di un patrimonio assai cospicuo, e di una importanza morale rilevante in seno alla popolazione avezzanese, come si è fatto notare. Nondimeno il suo statuto venne approvato dall’autorità vescovile nell’anno 1783, sebbene da secoli fossero scrupolosamente osservate tutte le sue norme di carattere religioso ed amministrativo.
Giovanni Pagani
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