Comune di Bisegna

Fra i paesi ch’esistono nel tratto della valle formata dal Monte Argatone colla lega de’ suoi monti e colline, e da un braccio del Monte Turchio rimane nella parte orientale del Lago Fucino, e incomincia dove è posto Pescina e va a finire circa i confini del tenimento di Gioja, per cui scorre il fiume anticamente chiamato Pitonio e oggi Giovenco, si numera ancora la Terra di San Sebastiano, situata sopra un colle di viva roccia e tutto scoglioso, resta più basso e scappa giù in fiera di molti altri che si trovano nelle pertinenze del cennato Monte Argatone e nella di lui radice, ai piedi della quale tra una macerie di sassi più tosto piccoli e tondi, scaturisce in abbondanza dell’acqua limpidissima e perfetta essendo una delle principali sorgenti che ingrossano il nominato fiume Giovenco”. Inizia cosi, con prosa incerta, la descrizione di San Sebastiano inviata il 9 agosto del 1800 dall’Arciprete Giambattista d’Arcadia ad un non meglio specificato “Don Arcangelo” del Vescovado di Pescina. 

La lettera che accompagna la descrizione e una succinta storia del paese, conservata presso l’Archivio Diocesano di Avezzano, contiene anche l’inventario di tutti i beni della chiesa e Capitolo di San Sebastiano stilato nel 1728 e controfirmato dal Vescovo Monsignor Barone, nel 1737, in occasione di una visita pastorale alla Parrocchiale di San Pancrazio. La lettera dell’Arciprete Giambattista d’Arcadia, rampollo di una famiglia benestante di San Sebastiano, merita di essere in parte riportata perchè denota il carattere dell’estensore e testimonia il “peso” storico che, nell’Ottocento, il paese aveva nell’ambito del Capitolo: 

“Stimabilissimo signor Don Arcangelo, ecco che ho abbozzato le notizie e lo stato di codesto loro Capitolo, ve lo rimetto acciocchè possiate osservare se il testo vada bene; e qualora vi sia qualche cosa che non cammina mettetemi in un foglio tutto quello che deve correggersi acciocchè possa osservare e riflettere se veramente merita la correzione, o vero abbia da restare cosi. Di più, se tenete qualche carta o notizia che possa rischiarare la storia di codeste chiese, o del paese, comunicatemele, e per qualche occasione sicura mandatemele a vedere, che puntualmente dopo che me ne sarà servito ve le rimandero, e se è carta antica che non si capisca, vedrà di capirla “. 

Le notizie che si possono desumere dalla sommaria storia tracciata dall’Arciprete di San Pancrazio sono limitate alle poche “ufficiali” e, sostanzialmente, si rifanno ai più noti storici della Marsica, dal Febonio al Corsignani, dal Di Pietro al Celidonio. Particolare interesse rivestono, invece, tutta una serie di informazioni sui fatti di vita quotidiana della comunità: puntuali e attente descrizioni delle varie chiese esistenti ed esistite, uno scrupoloso elenco dei beni posseduti dai sei sacerdoti, diritti e doveri di questi ultimi, importanti cenni sulle famiglie più in vista, succinte cronache di cause civili e lotte intestine tra Comuni; in breve una serie di informazioni di prima mano che, con il loro stesso divenire, hanno indirettamente scritto quella che si puà definire la microstoria della Terra di San Sebastiano. La prima notizia ufficiale dell’esistenza di San Sebastiano, secondo la storiografia ufficiale, risale al 1180 quando il centro viene menzionato nel Catalogus Baronum, ma, come vedremo in seguito, esiste un altro documento che ne certifica l’esistenza nell’anno Mille. C’è di più.

Da alcuni reperti e da logiche deduzioni, si può ragionevolmente supporre che l’abitato, magari con un altro nome, già esistesse molti secoli prima. Lo stesso Arciprete sostiene che l’origine dell’abitato di San Sebastiano deve riportarsi all’arrivo dei Benedettini nella Valle del Giovenco, i quali, ottenuta la terra lungo il fiume, edificarono li il loro monastero attorno al quale, come era costume, venne prontamente a formarsi il primo abitato che prese il nome del Santo venerato in quella chiesa. A sostegno di questa tesi, nel 1800, Giambattista d’Arcadia scrive ancora:

“…Doveva per altro formarsi da due villaggi, uno che restava nel piano vicino al fiume, dove doveva stare il Monastero, ed al presente si vede la detta chiesa di San Sebastiano, a torno della quale si osservano gli avanzi delle fabbriche, che dimostrano esservi stato un paese, l’altro che si trova sopra il descritto colle su di cui ora si trova la detta Terra di San Sebastiano, la quale vi doveva pur essere ne’ tempi assai lontani da noi per quanto si deduce dalli residui delle di lei fortificazioni fatte all’antica, e più di tutto dallo stemma degli antichi Conti dei Marsi, che attualmente vi si osserva, e forse questo doveva essere il castello o sia la fortezza del Luogo, non sembrando verosimile che le abitazioni del piano e del contorno della chiesa di San Sebastiano, potessero attaccare ed unire con quelle che restano sopra del detto colle essendovi le sorgenti delle acque ed altri interrompimenti che le dovevano separare; ma qualora non fosse stata la fortezza ma un villaggio distinto da quello del piano, oggi ignorasi se porto nome diverso o se anche esso si disse San Sebastiano… “.

L’ipotesi dell’arguto sacerdote, pur non trovando riscontri in carte scritte, sarebbe confermata dalle pietre e dalle case che ancora oggi formano la parte più antica dell’abitato. Tra i tanti stemmi con la mezzaluna della famiglia Piccolomini, abbiamo avuto modo di osservare uno scudo gotico antico con banda, da ascrivere ai Conti Berardi di Celano. La Contea dei Berardi, presente in zona fin dal X secolo come testimoniato dal Chronicon Casauriense, venne spazzata via negli anni venti del Duecento per ordine di Federico II, contro il quale aveva appoggiato il partito guelfo di Ottone di Brunswick. 

Altri stemmi identici a quello conservato in una casa di San Sebastiano si possono ammirare a Celano nella Chiesa della Madonna delle Grazie, sull’acquasantiera in pietra alla destra dell’ingresso laterale, sugli affreschi della chiesa dei Santi Giovanni Battista ed Evangelista ed infine, sul piedistallo di un calice in argento dorato e smaltato conservato nella stessa chiesa. Lo stemma sistemato sul caminetto della casa di San Sebastiano, molto probabilmente, in origine era murato su una delle porte della Fortificazione. Un approfondito studio portato avanti da Giuseppe Chiarizia e Pierluigi Properzi sugli insediamenti fortificati in Abruzzo dagli Italici all’unità d’Italia, conferma, infatti, quanto ipotizzava Giambattista d’Arcadia: a San Sebastiano esisteva un castello. 

Giuseppe Chiarizia, nel suo interessante lavoro, lo cataloga come “parzialmente integro, di proprietà privata, di tipo residenziale, risalente al XIII secolo con susseguenti rifacimenti fino al XVII”. Ma forse, più che di un castello, si trattava di una fortificazione, una cittadella murata il cui perimetro era formato dalle attuali case Bertone, Gallimberti-Di Pietro, Ricciotti-De Sanctis, sul dirupo verso valle, al posto dell’attuale belvedere, si trovavano altre abitazioni; la cinta, proseguendo, si chiudeva con le attuali case Boni, Grassi, Pacifici, Di Stefano, Iafolla e Di Mattia che, in alto, tornavano a raccordarsi con casa Bertone. Al centro il “Mastio”, l’antica Torre che il 13 gennaio del 1915, alle ore 7 e 25 di un freddo mattino d’inverno, scossa dal terremoto si schiantà sulle case sottostanti seminando morte e distruzione. Le abitazioni, dunque, servivano da mura esterne della fortificazione. La tipologia difensiva e allo stesso tempo abitativa di queste case è ancora oggi riscontrabile nella torre con rinforzo a scarpa della casa Ricciotti-De Sanctis, luogo di difesa ma anche, come testimoniato dai resti di un’elegante bifora, raffinata casa patrizia. 

I ruderi del “mastio” e delle case circostanti denotano ancora chiaramente i collegamenti tra questa serie di case-fortezza e la Torre. Il “sottopasso” di casa Bertone, ancora esistente salendo a destra sulla rampa che conduce alla vecchia torre, proseguiva a sinistra ( probabilmente coperto come l’altro tronco ) verso l’attuale via Sant’Angelo. Questi camminamenti, oltre che coprire gli assediati alla vista degli eventuali assalitori, servivano anche a garantire il collegamento tra una casa e l’altra in caso di violente nevicate che negli inverni dei secoli passati erano molto frequenti. Tornando alla descrizione fatta dall’Arciprete ( la casa del quale peraltro era poco distante dalla Torre ), colpisce il termine da questi usato per definire l’eventuale fortificazione da lui chiamata espressamente la “Fortezza del Luogo”. “Luogo” dunque come “Loci” o “Loe”. 

Del castello di Loe, infatti, parla Andrea Di Pietro nella Storia dei Paesi della Marsica, indicandolo fra Bisegna e San Sebastiano: “II Castello di Loe, situato fra Bisegna e San Sebastiano, nella contrada nominata “Le Cose”, che dové pure distruggersi dall’esercito di Valerio Massimo quando fu costruita la strada, ma poi anche risorse… “. E’ probabile che l’abitato di Loe distrutto da Valerio Massimo nel 302 avanti Cristo, insieme a Milonia ( Ortona ), Visinio ( Bisegna ), Plestina ( Pescasseroli ) e Fresilia ( Opi ), si trovasse in località La Ferriera dove, tra l’altro, negli anni passati sono state rinvenute tracce di mura romane ad “opus reticolatum” che testimonierebbero l’avvenuto passaggio dei romani e, comunque, un segno della loro presenza. L’ipotesi che l’attuale San Sebastiano sia stata la seconda Loe, ovviamente, non è provata né da documenti né da testimonianze di sorta; è soltanto il frutto di un discorso logico che porterebbe a pensare, dopo la devastazione operata da Valerio Massimo, ad un trasferimento verso più sicuri lidi, magari in alto, sul vicino colle. A titolo di curiosità vale la pena segnalare la presenza, dietro il Municipio di Bisegna, di una strada denominata Via Loe che, lasciato l’abitato, scende a valle verso la Ferriera di San Sebastiano. 

In realtà, come si vedrà in seguito, scorrendo i documenti medievali, si parlerà in maniera specifica di un “San Sebastiano de Valle”, la qual cosa fa pensare che l’abitato antico, costruito sull’alto del colle, si chiamasse anch’esso San Sebastiano. La suddetta Via Loe rafforza l’ipotesi che il castello omonimo si trovasse proprio alla Ferriera. Basta poco per capire che l’opificio della Ferriera prima e l’acquedotto poi, sono stati costruiti sfruttando preesistenti mura pelasgiche. Seguendo l’ordine cronologico dei fabbricati della Ferriera troviamo come prima esistenza recente i resti di un mulino che, fino a pochi anni fa, nella chiave di volta del portale ora trafugato, portava la data 1832. Questo piccolo mulino presenta delle pietre angolari decisamente smisurate per l’esigua mole del fabbricato stesso; la qual cosa fa pensare che le grandi pietre angolari erano già presenti sul posto e tanto valeva utilizzarle per costruire il mulino. 

Anche le mura portanti del cadente opificio della Ferriera, costruito nel 1843, sono simili a quelle del mulino. Ma non finisce qui. Per la costruzione dell’acquedotto della Ferriera, opera degli anni ’60, sono state utilizzate in larga parte le pietre esistenti sul posto già usate precedentemente per costruire la vecchia fabbrica e, come se non bastasse, le sue stesse fondamenta sono costituite in larga parte da mura ciclopiche con massi tagliati a poligoni irregolari, fortemente connesse tra loro senza l’utilizzo di calce o cemento. La natura delle antiche mura è emersa da un’ispezione lungo il perimetro dell’acquedotto e la conferma è venuta da un piccolo sterro che ha riportato alla luce quelle che potrebbero essere state le mura del castello di Loe.

Testi tratti dal libro Il Paese della memoria
( Testi del prof. Ermanno Grassi e del prof. Pino Coscetta )

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